Settembre 2003

I TEMPI DELL’ADDIO AL LAVORO

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Una scala mobile
per l’età del ritiro
Franco Modigliani
Premio Nobel per l’Economia
 
 

In un meccanismo
dove i soggetti
attivi finanziano
chi non lavora più e
l’economia ristagna,
l’allungamento degli anni al lavoro non risolve tutto.

 

Cresce la vita media? Automaticamente alziamo anche la scadenza per il ritiro: ogni anno di più può corrispondere a sei mesi supplementari al lavoro. Si deve fare di più, perché i sistemi a ripartizione diffusi in Europa (dove i contributi dei lavoratori attivi pagano gli assegni di quelli a riposo) sono più vulnerabili di quelli a capitalizzazione, nei quali si riceve in proporzione ai versamenti effettivi. Siamo in un’epoca in cui calano le nascite, la vita media si allunga per decenni dopo il ritiro, la produttività non cresce come una volta, il ritmo generale dello sviluppo è basso. E i contributi non bastano più a coprire le pensioni correnti: è un fenomeno meccanico, l’inefficienza dello Stato non c’entra. Semplicemente, sono state fatte promesse sulla base di previsioni di crescita che non si sono avverate.
L’allungamento dell’età lavorativa è inevitabile, sia nei sistemi a capitalizzazione che a ripartizione. Per questo sarebbe ragionevole organizzarlo con un meccanismo di adeguamento che allunghi il periodo lavorativo di quanto serve a tenere fissi contributi e benefici. Del resto, la crisi è universale: c’è in Italia, in Francia, in Germania, ma in misura diversa anche in Gran Bretagna, negli Stati Uniti o in America Latina. Il problema specifico degli europei continentali è che in un meccanismo dove i soggetti attivi finanziano chi non lavora più e l’economia ristagna, l’allungamento degli anni al lavoro non risolve tutto. Non è una ricetta definitiva. Con le tendenze demografiche in atto, il problema dell’insolvenza è destinato a riproporsi.
L’alternativa è passare a un sistema di capitalizzazione: ciascuno ottiene il ritiro in proporzione a quanto ha versato, e, intanto, i suoi contributi vengono investiti in azioni o in obbligazioni. Che producono nuova ricchezza. E’ una soluzione meno costosa e più efficiente quando la crescita nell’economia reale è inferiore al rendimento del capitale. E nel dopoguerra, a parte l’esplosione delle bolle finanziarie, negli Stati Uniti e in Europa i rendimenti azionari sono stati attorno al 5-6 per cento in media annua. Invece, è difficile che la crescita nell’Unione europea sia superiore al 2-3 per cento in pianta stabile.
In America molti fondi pensione privati a capitalizzazione sono finanziati esclusivamente dai contributi del datore di lavoro. Non ci sono quelli del dipendente. L’impresa dovrebbe dunque mantenere riserve proporzionate agli obblighi previdenziali assunti; ma ultimamente ha inciso la riduzione generalizzata del valore delle azioni. Così si è creato il buco, per esempio con i 19 miliardi di dollari di pensioni presenti o future da pagare ai dipendenti che hanno rischiato di schiacciare la General Motors. In Eurolandia si dovrebbe abbandonare la ripartizione (che mira a garantire la “solidarietà” fra generazioni, anche a costo di abbracciare questo tipo di incertezze. E’ un metodo più efficiente nella media. Naturalmente, c’è il pericolo che, mentre il sistema a ripartizione dipende dalla crescita del reddito (che in Europa è bassa), l’altro dipende dal rendimento del capitale. Che a volte è buono e altre volte no. Per questo, propongo che ci si possa assicurare contro i rischi anche ricorrendo all’aiuto dello Stato.
Cioè: i governi possono compensare i limiti del mercato. Possono farlo. Lo Stato può proporre di assumere su di sé tutti i guadagni del capitale dei fondi previdenziali investiti, promettendo in cambio a chi vi ha contribuito un tasso fisso, per esempio del 5 per cento. Se il rendimento alla fine sarà superiore, lo Stato guadagnerà il surplus; se invece si verifica una crisi di Borsa e il capitale non rende oppure ha un rendimento negativo, svolgerà la funzione sociale di garantire chi lavora dal rischio che la sua pensione vada in fumo. Ma come assicurarsi? L’unico modo è che i cittadini accettino di restare più a lungo al lavoro o di aggiustare i contributi se i fondi non rendono. Ma lo stesso problema, in forma più grave, si ripresenterebbe comunque anche in un sistema vecchio modello.

Politicamente capisco le difficoltà che insorgono non solo in Italia, ma in diversi Paesi europei. Ma da economista ho moltissimo da dire a favore di un comune approccio europeo. Per almeno due buone ragioni. Quando si passa almeno in parte a un sistema a capitalizzazione, in cui si investono i contributi in titoli, i problemi sorgono appunto dall’incertezza dei rendimenti. Ma più ampio è il mercato, maggiore la diversificazione degli investimenti possibile, minore è il rischio. Un mercato europeo dei capitali sarebbe un polmone prezioso. L’Italia potrebbe mettere i suoi fondi in un portafoglio con l’Olanda, la Gran Bretagna, la Germania, in un sistema molto più liquido e con maggiori opportunità. Che dovrebbe essere aperto a tutti i quattrocento milioni di cittadini dell’Unione europea allargata.

Se l’Unione fosse più integrata, il nodo pensioni sarebbe più facile da sciogliere, anche per il secondo aspetto: un sistema comune a capitalizzazione ha il vantaggio della portabilità, vale a dire dell’opzione aperta per i lavoratori di trasferire i diritti pensionistici anche spostandosi a vivere in un altro Paese dell’Unione europea: ovunque avrà lo stesso trattamento e potrà contare su quel che ha già pagato. Ciò incoraggia anche la mobilità professionale, di cui l’Europa ha disperatamente bisogno. Ci si chiede: ma passare alla capitalizzazione in Italia non significa partire da zero, compromettendo la previdenza della generazione di transizione? Ebbene: a regime, il sistema richiede almeno contributi perché il capitale cumulato produce interessi. All’inizio, invece, si può creare un problema serio. Ma che in Italia è risolvibile: si può usare il Trattamento di fine rapporto trasferendolo a un fondo comune che formerebbe la base necessaria per passare alla capitalizzazione. A mano a mano che i guadagni da quegli investimenti maturano, quel surplus può essere usato per ridurre il peso già elevato dei contributi.
Io obietto fortemente il progetto italiano di trasformare il Trattamento di fine rapporto da prestito alle imprese in investimenti in portafogli individuali. Prendere quei soldi e farci un’altra pensione significa rinunciare all’unica possibilità che si ha in Italia di passare alla capitalizzazione senza alzare i contributi, che sono già fra i più alti del mondo. Fra l’altro, i fondi individuali sono molto rischiosi, in modo particolare per chi non è abituato a investire.

   
   
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