Settembre 2003

E A SUD LO SVILUPPO MUORE DI FREDDO

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Non chiamatela
emigrazione
B.M.
 
 

 

 

 

 

E’ un vero e proprio ritorno al passato, ai tempi tragici della regressione meridionale, che non si seppe o non si volle bloccare.

 

«Le potenzialità di sviluppo del Mezzogiorno sono più elevate di quelle del Centro-Nord». E da un innalzamento del ritmo di sviluppo del Sud «può trarre vantaggio anche l’economia del Nord, caratterizzata da un forte invecchiamento demografico e da un divario ampio e crescente tra capacità di risparmio e possibilità di investimento». Ne è convinto più che mai Antonio Fazio. Il quale ammonisce: «Il decentramento e il federalismo fiscale non possono prescindere dagli intensi legami civili, sociali, economici tra le grandi aree del Paese» e «devono mirare allo sviluppo dell’economia nazionale nel suo complesso».
Il Governatore, insomma, mette in guardia da operazioni federaliste troppo «accentuate», eufemismo che sottende l’egoismo di alcune regioni privilegiate. E, facendo notare che negli ultimi anni il dualismo Nord-Sud è cresciuto, torna a indicare la via del Mezzogiorno come la corsia obbligata da percorrere per dare più velocità alla ripresa di tutto il Paese.

Del resto, «proprio per il più basso livello di partenza, per la vitalità demografica, per un’abbondanza di forza-lavoro giovanile più aperta all’apprendimento di nuove tecniche e delle professionalità richieste da un’economia moderna», il Sud nel medio termine può diventare il vero motore della crescita dell’Italia.
A questo proposito, il Governatore evidenzia che quella del Mezzogiorno è una strada da troppo tempo dimenticata: «Il carattere dualistico del sistema economico italiano», che era stato ridimensionato fino agli anni Settanta grazie all’intervento straordinario in infrastrutture e servizi di base, «si è di nuovo accentuato negli ultimi decenni», sicché il Sud è tornato ad essere ancora una volta terra di emigrazione. Un Mezzogiorno che continua a scontare una cronica carenza infrastrutturale associata «a livelli di produttività, di occupazione, di reddito nettamente più bassi» rispetto al Nord.

I dati di Bankitalia non lasciano dubbi: al Centro-Nord è localizzato l’85 per cento della capacità industriale; al Sud le importazioni, «che provengono in misura preponderante dalle altre regioni italiane, eccedono le esportazioni per oltre 50 miliardi di euro», con uno sbilancio (pari al 18 per cento del prodotto dell’area) solo «in minima parte» compensato dal saldo del turismo. E ancora: il tasso di disoccupazione all’inizio dell’anno era pari al 18,6 per cento, in lieve diminuzione rispetto al passato, ma sempre molto superiore rispetto al resto del Paese.
Si cerca di nobilitare il dato di fatto facendo ricorso all’espressione mobilità interna, mentre sempre di espulsione demografica, cioè di emigrazione alla ricerca di un salario, si tratta. Ebbene: la mobilità interna – si predica – può essere anche un’occasione di sviluppo. Così, almeno, per gli esperti di Confindustria per il Mezzogiorno, i quali non vedono il rafforzamento delle migrazioni del Sud al Nord come un fattore di pericolo per l’avanzamento delle regioni meridionali. «Perché – sostengono – in un’economia che si globalizza, con una situazione di forte domanda di lavoro nelle regioni settentrionali e di altrettanto forte offerta di manodopera al Sud, il fenomeno va considerato del tutto normale».
E’ vero. E’ “normale” dai giorni immediatamente successivi all’Unità d’Italia, anche se oggi si manifesta in misura e in termini molto diversi dalla fine del XIX secolo. Tant’è che Confindustria non scorge alcun rischio di depauperamento, anzi vede in questo «una lettura che non si può assolutamente condividere. Si tratta di un’interpretazione datata che delinea il fenomeno della mobilità contemporanea alla stessa stregua delle grandi migrazioni di un tempo». Dunque, un problema di quantità, cui sfugge quello della qualità: allora emigravano torme di analfabeti, contadini, pastori, artigiani spinti dalla fame; oggi, si tratta di giovani con laurea, stages, specializzazioni. E’ materia grigia, non più materia muscolare, come sembra sfuggire ai commentatori non del tutto disinteressati alla condizione permanente di sottosviluppo controllato delle regioni meridionali.

Di emigranti che rammentino le immagini degli anni Sessanta è sicuramente improprio parlare. Ma si stima che quest’anno saranno 175 mila le persone che abbandoneranno il Sud per stabilirsi in una regione del Nord. Il calcolo emerge partendo dal censimento Istat e analizzando gli ultimi dati disponibili sulle cancellazioni anagrafiche: nel 1999 i meridionali che hanno trasferito la propria residenza nel Centro-Nord sono stati circa 137 mila, con un incremento del 6 per cento rispetto al 1998 e del 14 per cento rispetto al 1997. Ecco dunque, come chiarisce il primo Rapporto sulla mobilità, che «se per il periodo 1999-2003 si considera prudentemente un trend di crescita pari alla metà di quello osservato nel biennio 1997-1999 (+13 per cento all’anno) si ottiene una stima di almeno 165 mila spostamenti per il 2002 e di circa 175 mila per il 2003».
Ma il numero di trasferimenti anagrafici, per quanto centrale per inquadrare la mobilità Sud-Nord, dà del fenomeno un quadro in parte parziale, perché viene valutato il flusso di uscita dal Sud, ma non quello di entrata. Dal confronto viene fuori il dato del “saldo migratorio” che, pur essendo comunque negativo, sembra essere meno penalizzante per le regioni meridionali. In questo contesto, l’analisi più aggiornata è quella redatta nel Rapporto Svimez 2002, che indica tanto per il 2000 quanto per il 2001 un saldo in perdita di circa 67 mila unità.

Quanto invece alle perdite “secche”, che considerano anche le differenze tra nati e morti, dal 1997 al 2001 il Mezzogiorno ha perso quasi 117 mila persone. Parallelamente, il Centro-Nord, grazie soltanto agli immigrati, italiani ed extracomunitari, ha visto crescere la propria popolazione, nel 2001 rispetto al 2000, di oltre 189 mila unità.

Al di là delle cifre, si delinea un duplice scenario. Da un anno all’altro è solitamente difficile che ci siano spostamenti molto forti. Il fatto poi che nel 2002 la crescita del Prodotto interno lordo sia stata dello 0,4 per cento lascia ipotizzare una situazione di sostanziale stabilità anche sul piano della mobilità. Può però accadere che l’aspettativa sul futuro spinga la mobilità, facendo leva sulla percezione ottimistica di una ripresa più forte in alcune aree del Paese rispetto ad altre. E così, per capire quanto il fenomeno peserà sulla crescita e sullo sviluppo del Sud sarà necessario attendere i dati definitivi del 2003. Infatti, se i dati del 2002 hanno indicato una ripresa della mobilità vuol dire che c’è una tale sfiducia nei confronti del Mezzogiorno e della sua crescita da render disposta la gente ad andar via, anche in un contesto di generale rallentamento economico, pur di cercare altrove nuove opportunità.
Meno drammatica, ma non meno problematica, la concretizzazione del secondo scenario: una situazione di immobilità renderebbe prioritaria la responsabilizzazione delle istituzioni, affinché attuino interventi per dare prospettive reali a quanti scelgono di rimanere. Anche perché, analizzando la mobilità sul piano della composizione anagrafica, emerge in modo netto che a lasciare il Sud sono i giovani, i trentenni in particolare, mentre i flussi di ritorno sono costituiti soprattutto dagli over 60.
Si assottiglia quindi la capacità umana, il ricambio generazionale, condizione fondamentale per attrarre investimenti e per creare un circolo virtuoso di sviluppo, e al tempo stesso si aggrava l’invecchiamento dell’area, acuendo i problemi sul piano della sostenibilità del Welfare. Che una parte della popolazione decida di muoversi può essere considerato un fatto consueto e fisiologico. Se però se ne va la popolazione attiva, vuol dire che la società del Mezzogiorno è una società debole e non in grado di bastare a se stessa. E, nello stesso tempo, è una società che, per quanto ne abbia la voglia e le potenzialità, non riesce a contribuire in modo determinante alla crescita complessiva del Paese. Il che significa un vero e proprio ritorno al passato, ai tempi tragici della regressione meridionale, che non si seppe o non si volle bloccare. Una storia destinata a ripetersi?

   
   
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