Settembre 2003

 

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Lo scrigno blu
Tonino Caputo - Aldo Visalberghi
Archeologia sottomarina
 
 

Coll.:

Marcello Orsini
Renato Melis
Francesco M. Tiboni

 

 

L’archeologia subacquea ha avuto un forte incremento dalle ricerche svolte in mare, ma anche nei bacini lacustri e fluviali. Si può affermare con assoluta certezza che gran parte del suo fascino derivi dalle operazioni sui siti subacquei per eccellenza, come i relitti di antiche navi. Essi presentano situazioni stratigrafiche cronologicamente omogenee, e, nello stesso tempo, materiali vari, riguardanti la vita di bordo e il tipo di carico. Condizioni del genere molto raramente si riscontrano nell’archeologia terrestre, spesso costretta a fare i conti con insediamenti sovrapposti, riferibili a cronologie successive.

Dai dati provenienti dal tipo di carico, dalla posizione e dal tonnellaggio dei relitti, è invece possibile desumere una serie di informazioni scientifiche sulle rotte e sui commerci, e in definitiva sulla storia economica di una civiltà. Non soltanto: essi offrono elementi fondamentali per capire le tecniche costruttive, fornendo all’archeologia navale elementi che le fonti scritte e quelle iconografiche non sono in grado di rivelare.
La loro abbondanza testimonia della convenienza economica dei trasporti via acqua nell’antichità, e, in genere, nell’epoca preindustriale. Nell’età imperiale erano necessari, infatti, non meno di 375 carri da 400 chilogrammi circa di capacità (1.200 libbre romane) per trasportare un carico equivalente a quello di una nave del tonnellaggio medio di 5.000 anfore o di 20.000 moggi, vale a dire di 150 tonnellate. Una divergenza simile era evidente nei costi.
Secondo l’Editto di Diocleziano, il carico di un carro costava 20 denari per miglio (circa 1.500 metri), mentre la tariffa per trasportare 15 chilogrammi di grano sulla rotta Roma-Alessandria (circa 2.000 chilometri) era fissata in soli 16 denari. Sono evidenti le discrasie che favorirono un commercio antico essenzialmente basato sul trasporto navale. Ma un’attività del genere fu necessariamente sottoposta alle dure leggi del mare, e quindi esercitata a prezzo di perdite consistenti. Nella totale mancanza di dati attendibili per l’epoca antica, dobbiamo prestar fede alle fonti scritte, che narrano di tempeste, di naufragi e di navi colate a picco con eccezionale frequenza. Gli stessi Atti degli Apostoli dicono delle incredibili traversie cui fu sottoposto San Paolo nel corso del suo viaggio tra Cesarea e Roma (Atti, XXVII). Ogni traversata, del resto, rappresentava un rischio calcolato, affrontato coscientemente in assenza di carte nautiche attendibili, di validi strumenti di navigazione e con imbarcazioni la cui qualità lasciava spesso a desiderare.
Comunque, se in teoria ci si possono attendere ritrovamenti nelle località mediterranee (limitandoci a questo mare) più varie, la distribuzione dei relitti attualmente conosciuti è ben lontana dal restituirci un quadro realistico. Infatti, non solo la geografia dei naufragi conosciuti assume caratteristiche spesso in diretto collegamento con la morfologia delle coste e dei fondali, ma alcune tipologie navali del passato non sono state tuttora riscontrate. Questo fenomeno è direttamente riferibile alla natura del carico e, in generale, alla presenza a bordo di materia più o meno deperibile. Una nave oneraria, col suo carico di anfore, costituisce senza dubbio un ritrovamento statisticamente diffuso; mentre delle navi da guerra classiche o di quelle del primo Medioevo (VII-X secolo d.C.) non si hanno pressoché testimonianze. Esse non trasportavano contenitori in terracotta oppure cannoni che dopo il naufragio bloccassero lo scafo e buona parte delle attrezzature. La loro individuabilità allo stato di relitto è dunque molto problematica
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L’anfora è il contenitore da trasporto più diffuso nei tempi antichi. Ogni nave oneraria poteva trasportare nelle sue stive dalle 3.000 alle 10.000 anfore, che potevano contenere olio, vini, salse varie e il “garum”, un particolare composto di pesce. Dalle indagini sui relitti si è potuta spesso evincere la presenza di vasellame fine da mensa, merci pregiate, oppure lingotti in piombo inseriti negli interstizi lasciati liberi dalle anfore. Queste erano, in ogni caso, il contenitore esclusivo per quelle navi onerarie impiegate nelle rotte delle zone di produzione dei beni contenuti.
Proprio grazie alle anfore oggi gli archeologi possono datare in tempi veloci un relitto, (la prima classificazione dei diversi tipi di anfore si deve allo studioso Dressel). La presenza di bolli, di scritte sulla capacità (“tituli picti”) o l’analisi chimico-fisica delle argille apportano ulteriori contributi alle risposte ai quesiti posti da un antico naufragio. Infatti, è possibile desumere informazioni sulla località di fabbricazione dell’anfora, sulla provenienza del prodotto, sul nome del commerciante, sul contenuto del recipiente e sulla paleografia.
Questo contenitore commerciale ebbe origine in Medio Oriente, da dove le anfore cananee e fenicie si diffusero nel Mediterraneo orientale. Le più antiche risalgono al II millennio a.C., e la prima diffusione avvenne tra il 1400 e il 440 a.C. L’Impero romano le adottò per i suoi intensi commerci che, irradiati in tutto il mondo allora conosciuto, decretarono il successo dell’anfora, che costituì il recipiente ideale per i prodotti destinati a mete distanti anche migliaia di miglia. In rapporto alla merce contenuta, l’interno era rivestito con pece, che consentiva una più corretta tenuta, mentre all’imboccatura, per evitare la fuoriuscita della merce, si sistemava un tappo sigillato, generalmente fittile.

Subito dopo l’affondamento della nave a causa di una tempesta o di un evento infausto, sul fondo si innescavano una serie di fenomeni che vanno letti nel corso dello scavo, pena la perdita di preziose informazioni. La prima osservazione dev’essere formulata sulle cause della perdita della nave e su quelle che, in seguito, hanno contribuito al suo deterioramento. La più frequente era senza dubbio il naufragio, che in generale si verificava a causa dell’impatto violento con rocce semisommerse. In questo caso, simultaneamente al suo inabissamento, la nave subiva gravissimi danni. Avarie di differente entità, ma che cagionavano il puntuale affondamento della nave, erano determinate da incendi oppure dalla modificazione del baricentro del carico nella stiva.
Nel caso in cui una nave, già in parte danneggiata, toccasse un fondale in pendenza, dava adito ad una serie di ribaltamenti che conducevano al dissesto più o meno pronunciato dello scafo e alla perdita incontrollabile del carico, che si disperdeva lungo le “franate”. In presenza di un fondale pianeggiante e sabbioso, invece, il vascello tendeva a conservare pressoché intatta la carena, insieme con la disposizione dei reperti. In breve tempo, le fiancate ancora integre, per l’aggressione portata dagli agenti marini di natura fisico-biologica e a causa dello stesso peso del carico o di altri oggetti pesanti, cedevano, e i materiali tendevano a formare una duna, che l’alta dinamica delle correnti provvedeva in breve ad occultare con la sabbia.

Oggi, con l’intervento degli archeologi, le complesse stratificazioni naturali e antropiche (colonie di posidonia, vermi marini che si nutrono di legno, ecc.) sono scientificamente destrutturate. Così si evidenziano i contenitori da trasporto ancora ordinati oppure le batterie pesanti di una nave da guerra post-medioevale. Questi ponderosi reperti, addossati ai resti dell’opera viva e morta dello scafo, ne hanno garantito la sua conservazione. L’analisi, a questo punto, deve essere necessariamente scrupolosa: si dovranno impiegare tutte le attrezzature e le metodologie d’indagine, che consentano una restituzione quanto più esatta di un complesso unico, qual è quello rappresentato da un relitto.
Infatti, è solo grazie ad una corretta lettura degli scafi delle navi, da trasporto e da guerra, che è possibile ricostruire con ricchezza di dettagli le tecniche di assemblamento delle antiche imbarcazioni, e conoscere i materiali impiegati, la dislocazione del carico e delle armi a bordo e l’organizzazione dei diversi settori del natante. Solo ed esclusivamente con questi sistemi, e non con raccolte indiscriminate, si son potute attingere tante informazioni che ci consentono ormai, con una relativa certezza, la ricostruzione delle navi del passato, in particolare di epoca romana.
I porti, gli approdi e le peschiere rappresentano le altre opere antropiche relative al mare. I primi erano in diretta connessione con la navigazione commerciale e militare. Spesso si sono eccezionalmente conservati sotto le strutture moderne, che ne hanno modificato profondamente la fisionomia. Molti porti dell’antichità attualmente sono interrati oppure sono dislocati a distanze consistenti dall’attuale linea di costa. Un esempio tipico è costituito dai bacini di Claudio e Traiano alla foce del Tevere. Ma possiamo anche citare i porti di Pisa e di Classe (Ravenna), o infine il notissimo caso del porto-canale di Aquileia.
Prima della grande espansione dell’Impero romano, gli ingegneri etruschi e greci avevano già avviato la costruzione di aree portuali, delle quali rimangono resti consistenti. Quasi sempre esse sfruttavano la naturale morfologia dei siti, che venivano in seguito modificati per le necessità della navigazione.
Nei primi tempi, i romani si limitarono ad utilizzare i luoghi di ormeggio già attrezzati dalle popolazioni autoctone, e soltanto in età imperiale, grazie all’imponente sviluppo dell’opera cementizia, divennero importanti edificatori di nuovi porti. Il fenomeno, ovviamente, era legato anche alle mutate esigenze della navigazione sia commerciale che militare.
Le insenature finalizzate al riparo delle navi divennero di gran lunga più vaste e furono circondate da poderosi moli. Per ampliarne le potenzialità di approdo, internamente furono edificate lunghe banchine munite di scale, di piani inclinati per il trasbordo delle mercanzie pesanti, e bitte d’ormeggio costituite da pietre forate a volte splendidamente decorate.
La grande evoluzione nell’uso delle malte idrauliche consentì la costruzione di opere in conglomerato gettate in cavità sbatacciate subacquee, così come si evince anche dalle descrizioni del celebre architetto Vitruvio. Quasi sempre, in seguito alla bonifica del livello di fondazione con pali di quercia infissi nel fondo per sostenere le cassaforme del conglomerato, il molo veniva rivestito con basoli di pietre dure lavorate.
La fisionomia dell’area portuale in epoca romana, dalle informazioni desumibili dalle cosiddette arti minori, doveva apparire particolare, dal momento che vi comparivano tempietti e altari dedicati a divinità protettrici della navigazione, portici e depositi per merci. Tutti i porti erano dotati di fari. Essi erano anticamente non dissimili da quelli diffusi in epoca moderna. La luce era costantemente alimentata con fuoco di legna, tenuto vivo da un nutrito corpo di inservienti. Del resto, il famoso faro di Alessandria fu considerato una delle sette meraviglie del mondo.

Sulla base delle fonti scritte e artistiche è possibile ricostruire il lavoro degli schiavi, che scaricavano le anfore dalle navi, trasferendole a viva forza nei grandi magazzini, dove il contenuto veniva travasato nei “dolia”. Se il bacino portuale possedeva una scarsa batimetria, imbarcazioni a fondo piatto e di scarso tonnellaggio, a trazione remiera, provvedevano a trainare alla banchina prevista le navi a vela, che non sempre viaggiavano a pieno carico.
Alcune classi di artigiani dovevano al porto le ragioni stesse della loro sopravvivenza. In particolare, vi erano addetti all’alaggio e alla fabbricazione di vele e di cime. Questo mondo variegato riemerge anche attraverso le epigrafi funerarie. Dai loro testi veniamo a conoscenza di un lungo elenco di attività in diretto contatto con il complesso lavoro svolto nei porti. E molte di quelle attività erano sorprendentemente specializzate.
I membri delle corporazioni erano addetti, nell’area portuale, alla demolizione dei relitti affondati e al recupero delle merci. Il “Corpus urinatorum” era molto ricercato nel mondo romano, al punto che gli adepti acquisirono un enorme prestigio e benefici e privilegi di vario genere da parte degli imperatori. Da un punto di vista pratico, alcune operazioni di archeologia sperimentale hanno consentito di concludere che l’immersione dell’operatore doveva avvenire impiegando un peso tra i 5 e i 20 chilogrammi, che serviva a trascinarlo sul fondo, consentendogli di dimezzare così i tempi di discesa e di risparmiare le energie per l’attività professionale. La cima collegata al peso, generalmente in piombo, poteva essere riutilizzata per la risalita, ma anche per imbragare le mercanzie recuperate. Sulla nave oneraria di Spargi, in Sardegna, a circa quindici metri di profondità, sono stati rinvenuti cinque di questi pesi plumbei, che unitamente ad altre evidenti tracce documentano l’intervento di questi specialisti.

Lungo le coste italiane si rintracciano di frequente i resti di alcune strutture di forma quadrangolare, quasi sempre in opera cementizia o ricavate nelle rocce. Si tratta di peschiere che venivano utilizzate per l’allevamento del pesce. Il materiale ittico, mediante vasche e paratoie progettate allo scopo, poteva vivere in cattività direttamente nel suo habitat.
Non si sa granché, tuttavia, sul loro effettivo utilizzo. Neanche gli antichi autori sono fonte di chiarezza in questo senso, dal momento che proprio due tra i più noti dell’età romana forniscono sulla questione versioni contrastanti. Varrone, infatti, nel I secolo a.C., le considerava hobbies da ricchi, quasi dei giganteschi acquari ornamentali, mentre Columella (I secolo d.C.) sostiene decisamente la loro utilità per valorizzare gli edifici residenziali costruiti lungo i litorali.
La motivazione di quanto sopra detto appare evidente lungo la costa tirrenica, dove molti di questi impianti sono collegati a grandi ville private. Ma moltissime altre peschiere, di cui alcune particolarmente imponenti, sono state riscontrate in zone non in diretta connessione con ville o persino unite a porticcioli, come nel caso di quella di Torre Arturo, ad Anzio. In anni recenti, le ricerche condotte sulle peschiere individuate in Sicilia e in Calabria hanno evidenziato a terra i lacerti di grandi vasche in calcestruzzo e direttamente ricavate nella roccia, rivestite da intonaco impermeabile e chiaramente collegabili alle peschiere vere e proprie.
Prendendo in esame le aree di rinvenimento della grande maggioranza di questi impianti e delle attrezzature ad essi collegate, la presenza in alcuni casi di piccoli porti e il grande numero in epoca imperiale di questi impianti, potrebbero condurre alla formulazione dell’ipotesi di vere e proprie industrie ittiche.
La tesi assumerebbe contorni reali anche per la lavorazione del pesce e per la produzione della nota salsa, il “garum”, ottenuta attraverso la macerazione di aringhe e pesci azzurri in genere.

Il successo gastronomico del “garum” fu tale che la sua produzione, nel periodo romano, arrivò a livelli elevatissimi, al punto che la maggioranza delle anfore nelle stive delle navi che raggiungevano i porti del Mediterraneo conteneva questa leccornia, la cui composizione non sarebbe certo gradita ai nostri contemporanei. Le ricerche condotte in Sicilia negli ultimi anni hanno consentito di individuare strutture funzionalmente diverse, tra cui le vasche usate per la fabbricazione, dove il pesce veniva macerato al sole per molte settimane e la sua salsa veniva amalgamata con sale, olio, aceto e vino. C’è qualcosa d’antico, nell’attività conserviera odierna della Sicilia!

   
   
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