Coll.:
Marcello Orsini
Renato Melis
Francesco M. Tiboni
|
|
|
Larcheologia subacquea ha avuto
un forte incremento dalle ricerche svolte in mare, ma anche nei
bacini lacustri e fluviali. Si può affermare con assoluta
certezza che gran parte del suo fascino derivi dalle operazioni
sui siti subacquei per eccellenza, come i relitti di antiche navi.
Essi presentano situazioni stratigrafiche cronologicamente omogenee,
e, nello stesso tempo, materiali vari, riguardanti la vita di bordo
e il tipo di carico. Condizioni del genere molto raramente si riscontrano
nellarcheologia terrestre, spesso costretta a fare i conti
con insediamenti sovrapposti, riferibili a cronologie successive.

Dai dati provenienti dal tipo di carico,
dalla posizione e dal tonnellaggio dei relitti, è invece
possibile desumere una serie di informazioni scientifiche sulle
rotte e sui commerci, e in definitiva sulla storia economica di
una civiltà. Non soltanto: essi offrono elementi fondamentali
per capire le tecniche costruttive, fornendo allarcheologia
navale elementi che le fonti scritte e quelle iconografiche non
sono in grado di rivelare.
La loro abbondanza testimonia della convenienza economica dei trasporti
via acqua nellantichità, e, in genere, nellepoca
preindustriale. Nelletà imperiale erano necessari,
infatti, non meno di 375 carri da 400 chilogrammi circa di capacità
(1.200 libbre romane) per trasportare un carico equivalente a quello
di una nave del tonnellaggio medio di 5.000 anfore o di 20.000 moggi,
vale a dire di 150 tonnellate. Una divergenza simile era evidente
nei costi.
Secondo lEditto di Diocleziano, il carico di un carro costava
20 denari per miglio (circa 1.500 metri), mentre la tariffa per
trasportare 15 chilogrammi di grano sulla rotta Roma-Alessandria
(circa 2.000 chilometri) era fissata in soli 16 denari. Sono evidenti
le discrasie che favorirono un commercio antico essenzialmente basato
sul trasporto navale. Ma unattività del genere fu necessariamente
sottoposta alle dure leggi del mare, e quindi esercitata a prezzo
di perdite consistenti. Nella totale mancanza di dati attendibili
per lepoca antica, dobbiamo prestar fede alle fonti scritte,
che narrano di tempeste, di naufragi e di navi colate a picco con
eccezionale frequenza. Gli stessi Atti degli Apostoli dicono delle
incredibili traversie cui fu sottoposto San Paolo nel corso del
suo viaggio tra Cesarea e Roma (Atti, XXVII). Ogni traversata, del
resto, rappresentava un rischio calcolato, affrontato coscientemente
in assenza di carte nautiche attendibili, di validi strumenti di
navigazione e con imbarcazioni la cui qualità lasciava spesso
a desiderare.
Comunque, se in teoria ci si possono attendere ritrovamenti nelle
località mediterranee (limitandoci a questo mare) più
varie, la distribuzione dei relitti attualmente conosciuti è
ben lontana dal restituirci un quadro realistico. Infatti, non solo
la geografia dei naufragi conosciuti assume caratteristiche spesso
in diretto collegamento con la morfologia delle coste e dei fondali,
ma alcune tipologie navali del passato non sono state tuttora riscontrate.
Questo fenomeno è direttamente riferibile alla natura del
carico e, in generale, alla presenza a bordo di materia più
o meno deperibile. Una nave oneraria, col suo carico di anfore,
costituisce senza dubbio un ritrovamento statisticamente diffuso;
mentre delle navi da guerra classiche o di quelle del primo Medioevo
(VII-X secolo d.C.) non si hanno pressoché testimonianze.
Esse non trasportavano contenitori in terracotta oppure cannoni
che dopo il naufragio bloccassero lo scafo e buona parte delle attrezzature.
La loro individuabilità allo stato di relitto è dunque
molto problematica.
Lanfora è il contenitore da trasporto più diffuso
nei tempi antichi. Ogni nave oneraria poteva trasportare nelle sue
stive dalle 3.000 alle 10.000 anfore, che potevano contenere olio,
vini, salse varie e il garum, un particolare composto
di pesce. Dalle indagini sui relitti si è potuta spesso evincere
la presenza di vasellame fine da mensa, merci pregiate, oppure lingotti
in piombo inseriti negli interstizi lasciati liberi dalle anfore.
Queste erano, in ogni caso, il contenitore esclusivo per quelle
navi onerarie impiegate nelle rotte delle zone di produzione dei
beni contenuti.
Proprio grazie alle anfore oggi gli archeologi possono datare in
tempi veloci un relitto, (la prima classificazione dei diversi tipi
di anfore si deve allo studioso Dressel). La presenza di bolli,
di scritte sulla capacità (tituli picti) o lanalisi
chimico-fisica delle argille apportano ulteriori contributi alle
risposte ai quesiti posti da un antico naufragio. Infatti, è
possibile desumere informazioni sulla località di fabbricazione
dellanfora, sulla provenienza del prodotto, sul nome del commerciante,
sul contenuto del recipiente e sulla paleografia.
Questo contenitore commerciale ebbe origine in Medio Oriente, da
dove le anfore cananee e fenicie si diffusero nel Mediterraneo orientale.
Le più antiche risalgono al II millennio a.C., e la prima
diffusione avvenne tra il 1400 e il 440 a.C. LImpero romano
le adottò per i suoi intensi commerci che, irradiati in tutto
il mondo allora conosciuto, decretarono il successo dellanfora,
che costituì il recipiente ideale per i prodotti destinati
a mete distanti anche migliaia di miglia. In rapporto alla merce
contenuta, linterno era rivestito con pece, che consentiva
una più corretta tenuta, mentre allimboccatura, per
evitare la fuoriuscita della merce, si sistemava un tappo sigillato,
generalmente fittile.
Subito dopo laffondamento della nave a causa di una tempesta
o di un evento infausto, sul fondo si innescavano una serie di fenomeni
che vanno letti nel corso dello scavo, pena la perdita di preziose
informazioni. La prima osservazione devessere formulata sulle
cause della perdita della nave e su quelle che, in seguito, hanno
contribuito al suo deterioramento. La più frequente era senza
dubbio il naufragio, che in generale si verificava a causa dellimpatto
violento con rocce semisommerse. In questo caso, simultaneamente
al suo inabissamento, la nave subiva gravissimi danni. Avarie di
differente entità, ma che cagionavano il puntuale affondamento
della nave, erano determinate da incendi oppure dalla modificazione
del baricentro del carico nella stiva.
Nel caso in cui una nave, già in parte danneggiata, toccasse
un fondale in pendenza, dava adito ad una serie di ribaltamenti
che conducevano al dissesto più o meno pronunciato dello
scafo e alla perdita incontrollabile del carico, che si disperdeva
lungo le franate. In presenza di un fondale pianeggiante
e sabbioso, invece, il vascello tendeva a conservare pressoché
intatta la carena, insieme con la disposizione dei reperti. In breve
tempo, le fiancate ancora integre, per laggressione portata
dagli agenti marini di natura fisico-biologica e a causa dello stesso
peso del carico o di altri oggetti pesanti, cedevano, e i materiali
tendevano a formare una duna, che lalta dinamica delle correnti
provvedeva in breve ad occultare con la sabbia.

Oggi, con lintervento degli archeologi, le complesse stratificazioni
naturali e antropiche (colonie di posidonia, vermi marini che si
nutrono di legno, ecc.) sono scientificamente destrutturate. Così
si evidenziano i contenitori da trasporto ancora ordinati oppure
le batterie pesanti di una nave da guerra post-medioevale. Questi
ponderosi reperti, addossati ai resti dellopera viva e morta
dello scafo, ne hanno garantito la sua conservazione. Lanalisi,
a questo punto, deve essere necessariamente scrupolosa: si dovranno
impiegare tutte le attrezzature e le metodologie dindagine,
che consentano una restituzione quanto più esatta di un complesso
unico, qual è quello rappresentato da un relitto.
Infatti, è solo grazie ad una corretta lettura degli scafi
delle navi, da trasporto e da guerra, che è possibile ricostruire
con ricchezza di dettagli le tecniche di assemblamento delle antiche
imbarcazioni, e conoscere i materiali impiegati, la dislocazione
del carico e delle armi a bordo e lorganizzazione dei diversi
settori del natante. Solo ed esclusivamente con questi sistemi,
e non con raccolte indiscriminate, si son potute attingere tante
informazioni che ci consentono ormai, con una relativa certezza,
la ricostruzione delle navi del passato, in particolare di epoca
romana.
I porti, gli approdi e le peschiere rappresentano le altre opere
antropiche relative al mare. I primi erano in diretta connessione
con la navigazione commerciale e militare. Spesso si sono eccezionalmente
conservati sotto le strutture moderne, che ne hanno modificato profondamente
la fisionomia. Molti porti dellantichità attualmente
sono interrati oppure sono dislocati a distanze consistenti dallattuale
linea di costa. Un esempio tipico è costituito dai bacini
di Claudio e Traiano alla foce del Tevere. Ma possiamo anche citare
i porti di Pisa e di Classe (Ravenna), o infine il notissimo caso
del porto-canale di Aquileia.
Prima della grande espansione dellImpero romano, gli ingegneri
etruschi e greci avevano già avviato la costruzione di aree
portuali, delle quali rimangono resti consistenti. Quasi sempre
esse sfruttavano la naturale morfologia dei siti, che venivano in
seguito modificati per le necessità della navigazione.
Nei primi tempi, i romani si limitarono ad utilizzare i luoghi di
ormeggio già attrezzati dalle popolazioni autoctone, e soltanto
in età imperiale, grazie allimponente sviluppo dellopera
cementizia, divennero importanti edificatori di nuovi porti. Il
fenomeno, ovviamente, era legato anche alle mutate esigenze della
navigazione sia commerciale che militare.
Le insenature finalizzate al riparo delle navi divennero di gran
lunga più vaste e furono circondate da poderosi moli. Per
ampliarne le potenzialità di approdo, internamente furono
edificate lunghe banchine munite di scale, di piani inclinati per
il trasbordo delle mercanzie pesanti, e bitte dormeggio costituite
da pietre forate a volte splendidamente decorate.
La grande evoluzione nelluso delle malte idrauliche consentì
la costruzione di opere in conglomerato gettate in cavità
sbatacciate subacquee, così come si evince anche dalle descrizioni
del celebre architetto Vitruvio. Quasi sempre, in seguito alla bonifica
del livello di fondazione con pali di quercia infissi nel fondo
per sostenere le cassaforme del conglomerato, il molo veniva rivestito
con basoli di pietre dure lavorate.
La fisionomia dellarea portuale in epoca romana, dalle informazioni
desumibili dalle cosiddette arti minori, doveva apparire particolare,
dal momento che vi comparivano tempietti e altari dedicati a divinità
protettrici della navigazione, portici e depositi per merci. Tutti
i porti erano dotati di fari. Essi erano anticamente non dissimili
da quelli diffusi in epoca moderna. La luce era costantemente alimentata
con fuoco di legna, tenuto vivo da un nutrito corpo di inservienti.
Del resto, il famoso faro di Alessandria fu considerato una delle
sette meraviglie del mondo.

Sulla base delle fonti scritte e artistiche è possibile
ricostruire il lavoro degli schiavi, che scaricavano le anfore dalle
navi, trasferendole a viva forza nei grandi magazzini, dove il contenuto
veniva travasato nei dolia. Se il bacino portuale possedeva
una scarsa batimetria, imbarcazioni a fondo piatto e di scarso tonnellaggio,
a trazione remiera, provvedevano a trainare alla banchina prevista
le navi a vela, che non sempre viaggiavano a pieno carico.
Alcune classi di artigiani dovevano al porto le ragioni stesse della
loro sopravvivenza. In particolare, vi erano addetti allalaggio
e alla fabbricazione di vele e di cime. Questo mondo variegato riemerge
anche attraverso le epigrafi funerarie. Dai loro testi veniamo a
conoscenza di un lungo elenco di attività in diretto contatto
con il complesso lavoro svolto nei porti. E molte di quelle attività
erano sorprendentemente specializzate.
I membri delle corporazioni erano addetti, nellarea portuale,
alla demolizione dei relitti affondati e al recupero delle merci.
Il Corpus urinatorum era molto ricercato nel mondo romano,
al punto che gli adepti acquisirono un enorme prestigio e benefici
e privilegi di vario genere da parte degli imperatori. Da un punto
di vista pratico, alcune operazioni di archeologia sperimentale
hanno consentito di concludere che limmersione delloperatore
doveva avvenire impiegando un peso tra i 5 e i 20 chilogrammi, che
serviva a trascinarlo sul fondo, consentendogli di dimezzare così
i tempi di discesa e di risparmiare le energie per lattività
professionale. La cima collegata al peso, generalmente in piombo,
poteva essere riutilizzata per la risalita, ma anche per imbragare
le mercanzie recuperate. Sulla nave oneraria di Spargi, in Sardegna,
a circa quindici metri di profondità, sono stati rinvenuti
cinque di questi pesi plumbei, che unitamente ad altre evidenti
tracce documentano lintervento di questi specialisti.
Lungo le coste italiane si rintracciano di frequente i resti di
alcune strutture di forma quadrangolare, quasi sempre in opera cementizia
o ricavate nelle rocce. Si tratta di peschiere che venivano utilizzate
per lallevamento del pesce. Il materiale ittico, mediante
vasche e paratoie progettate allo scopo, poteva vivere in cattività
direttamente nel suo habitat.
Non si sa granché, tuttavia, sul loro effettivo utilizzo.
Neanche gli antichi autori sono fonte di chiarezza in questo senso,
dal momento che proprio due tra i più noti delletà
romana forniscono sulla questione versioni contrastanti. Varrone,
infatti, nel I secolo a.C., le considerava hobbies da ricchi, quasi
dei giganteschi acquari ornamentali, mentre Columella (I secolo
d.C.) sostiene decisamente la loro utilità per valorizzare
gli edifici residenziali costruiti lungo i litorali.
La motivazione di quanto sopra detto appare evidente lungo la costa
tirrenica, dove molti di questi impianti sono collegati a grandi
ville private. Ma moltissime altre peschiere, di cui alcune particolarmente
imponenti, sono state riscontrate in zone non in diretta connessione
con ville o persino unite a porticcioli, come nel caso di quella
di Torre Arturo, ad Anzio. In anni recenti, le ricerche condotte
sulle peschiere individuate in Sicilia e in Calabria hanno evidenziato
a terra i lacerti di grandi vasche in calcestruzzo e direttamente
ricavate nella roccia, rivestite da intonaco impermeabile e chiaramente
collegabili alle peschiere vere e proprie.
Prendendo in esame le aree di rinvenimento della grande maggioranza
di questi impianti e delle attrezzature ad essi collegate, la presenza
in alcuni casi di piccoli porti e il grande numero in epoca imperiale
di questi impianti, potrebbero condurre alla formulazione dellipotesi
di vere e proprie industrie ittiche.
La tesi assumerebbe contorni reali anche per la lavorazione del
pesce e per la produzione della nota salsa, il garum,
ottenuta attraverso la macerazione di aringhe e pesci azzurri in
genere.
Il successo gastronomico del garum fu tale che la sua
produzione, nel periodo romano, arrivò a livelli elevatissimi,
al punto che la maggioranza delle anfore nelle stive delle navi
che raggiungevano i porti del Mediterraneo conteneva questa leccornia,
la cui composizione non sarebbe certo gradita ai nostri contemporanei.
Le ricerche condotte in Sicilia negli ultimi anni hanno consentito
di individuare strutture funzionalmente diverse, tra cui le vasche
usate per la fabbricazione, dove il pesce veniva macerato al sole
per molte settimane e la sua salsa veniva amalgamata con sale, olio,
aceto e vino. Cè qualcosa dantico, nellattività
conserviera odierna della Sicilia!
|