LItalia non ha mai avuto una politica estera
linguistica degna di questo nome, non ha mai fatto della difesa
della nostra lingua, che pure
ha illuminato il mondo, un obiettivo politico.
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Prima di parlare di casa nostra, facciamo un discorso generale.
E stato accertato che ogni quindici giorni nel mondo muore
una lingua. E insieme con essa svanisce una cultura, cioè
lespressione di una civiltà, di una sua storia, di
una sua tradizione. Se questa tendenza non sarà in qualche
modo arginata, nellarco di un solo secolo dei circa cinquemila
idiomi oggi in vita sul nostro pianeta più della metà
non avrà neanche un parlante.

Eppure, dovrebbe esser risaputo che una lingua è un patrimonio
unico e straordinario, che ogni idioma porta con sé un modo
speciale di pensare, una visione del mondo che appartiene ai propri
parlanti, e soltanto a loro. Immagini, colori, sensazioni, emozioni,
profumi, paure, momenti di felicità, appartengono a quella
lingua, nessunaltra è in grado di esprimersi con le
identiche sfumature, di creare le stesse atmosfere. Né cè
traduzione che tenga.
Le parole usate da un popolo per raccontarsi appartengono a un percorso,
a un viaggio nella storia, che non può essere riprodotto
in laboratorio, né può vivere di vita artificiale.
Come ogni organismo vivente, un idioma ha bisogno di condizioni
particolari per sopravvivere. Per questo, gli idiomi vanno tutelati
e protetti. E per continuare a cogliere il fascino della diversità
e della possibile immortalità. Per un uomo, infatti, non
cè ritorno dalla morte. Per una lingua, sì,
se torna ad essere parlata. E accaduto con lebraico,
resuscitato dopo 2500 anni, grazie in particolare alla visionarietà
di Eliezer Perelman, che assunse poi il nome di Ben Jehudah; o come
è accaduto per il qiché, lingua del popolo maya,
rimessa in circolo in Guatemala dal Nobel Rigoberta Menchú
e dal poeta AkAbal, collaboratore di Apulia.
Questi miracoli, tuttavia, non devono illudere. Gli
equilibri linguistici a livello planetario sono molto precari. In
diverse aree dilaga lo strapotere di alcuni idiomi rispetto ad altri,
comè il caso della lingua anglo-americana che afferma
soprattutto una superiorità politico-economica. E accade
che in parecchie comunità parlare una lingua diversa da quella
dominante venga visto come una sorta di vergogna: la gente si persuade
che la propria lingua non sia adatta più ad esprimere la
modernità e non sia in grado di comunicare le idee astratte.
In alcuni casi la conseguenza di tali convinzioni si traduce nellabbandono
volontario della propria lingua. Uno dei casi più noti è
quello degli yaaku, popolazione del Kenya centrosettentrionale,
che ad un certo punto, in unassemblea pubblica presieduta
da tutti i capi della comunità, decretò leutanasia
del proprio idioma, e adottò quello dei vicini, i masai.
Fenomeno, questo, che ha colpito anche molti giovani delle tribù
pellerossa del Nordamerica.
Queste trasformazioni sono avvenute spesso nella più completa
indifferenza delle istituzioni. Eppure, le cifre fanno riflettere:
delle cinquemila lingue esistenti, seicento, vale a dire un po
meno di un ottavo, sono parlate da più di 100 mila persone,
mentre cinquecento sono strumento espressivo di meno di 100 persone;
il 90 per cento delle lingue del pianeta è parlato da circa
il 5 per cento della popolazione mondiale; il 50 per cento degli
abitanti della terra parla solo undici delle lingue esistenti; un
gruppo di 22 Paesi parla un notevole gruppo di lingue, e nove di
essi possiedono più di 200 lingue ciascuno: Papua-Nuova Guinea
850; Indonesia 670; Nigeria 410; India 380; Camerun 270; Messico
240; Repubblica del Congo 210; Australia 200; Brasile 200; altri
tredici Paesi possiedono da 160 a 100 lingue ciascuno: nellordine,
Filippine, Russia, Stati Uniti, Malaysia, Vanuatu (ex Nuove Ebridi),
Repubblica Centroafricana, Birmania e Nepal.
Domanda: che fare, per salvare il più possibile di questi
mondi lontani? Risposta tuttaltro che facile. Sicuramente,
vanno sostenute le scuole di linguistica, create nuove figure professionali,
coinvolti i giovani, addestrati eccellenti ricercatori, incentivato
il lavoro sul campo. Si dovrà creare a breve termine, anche
grazie a Internet, un sistema di grandi banche dati, e le istituzioni
si dovranno impegnare al sostegno del plurilinguismo. Occorrono
fondi, progetti generali, programmi dettagliati di tutela, catalogazioni,
con la consapevolezza che tutto questo non comporterà profitto.
Ma solo così conserveremo almeno la semplice memoria di alcune
delle lingue finora parlate dalluomo.
Passiamo alle cose di casa nostra, ma restiamo al di là
dei confini. Nella prospettiva della moltiplicazione linguistica
di unEuropa allargata, si discute di come litaliano
possa strappare un posto di riguardo. In unUnione europea
a 21 lingue, poche potranno avere a Bruxelles un ruolo di rilievo.
Le altre saranno relegate nella categoria delle lingue tradotte
solo nella Gazzetta Ufficiale. Si tratta della (disperata)
missione di riconquista del terreno perduto (per inerzia intellettuale,
per ignava rinuncia). Sicché oggi litaliano non è
più una lingua internazionale, e dunque non funge più
neanche da lingua da lavoro. Tedeschi, francesi, spagnoli, danesi
o polacchi conoscono come lingua straniera essenzialmente quella
inglese, talora la francese, più raramente la tedesca. Non
litaliana.
Al tempo dellEuropa a nove o a dodici, era possibile tradurre
tutto in tutte le lingue, e i rappresentanti italiani e i loro segretari
e portaborse potevano scrivere e parlare la loro lingua, certi che
sarebbero stata tradotta. NellEuropa a 25 ciò non sembra
più possibile. LItalia non ha mai avuto una politica
estera linguistica degna di questo nome, non ha mai fatto della
difesa della nostra lingua, che pure ha illuminato il mondo, un
obiettivo politico.
Al nostro atteggiamento rinunciatario, dunque, i Paesi europei da
tempo si sono impegnati in una subdola lotta, investendo nella traduzione
di opere letterarie, nella diffusione e nel sostegno del cinema
e del teatro, nella produzione di programmi televisivi di qualità,
proteggendosi anche dallinvasione di prodotti americani di
scarso o nullo valore. Abbiamo rinunciato persino a insegnare litaliano
ai nostri emigrati, e ora trionfalmente constatiamo il successo
dei corsi di italiano allestero, senza renderci conto che
non stiamo conquistando alcun terreno, stiamo semplicemente recuperando
uninfima parte di italiani perduti!
Insegnamento della nostra lingua nelle scuole europee gestito come
quando piove, nomine di insegnanti ritardate di mesi, istituti di
cultura penalizzati dalla carenza di fondi, e necessariamente più
attenti alla bolletta della luce che alla coerenza delle loro iniziative,
delegati italiani a Bruxelles che preferiscono esprimersi in un
inglese di bassa lega (pensano di essere ascoltati di più?)
invece di far ricorso alle traduzioni simultanee, unica televisione
visibile Rai Uno, con le sue immagini circensi che impressionano
certamente albanesi, libici e montenegrini, ma che non reggono il
confronto con le altre tv europee, con linguaggi italioti dai congiuntivi
evaporanti e con anglicismi dilaganti usati più per stupire
che per farsi capire. Guai a chi non riesce a capire limportanza
dello spirito di appartenenza a una comunità linguistica.
La fine di una lingua può cominciare quando si cessa di capirsi.
Era ministero del Lavoro, lo hanno trasformato in ministero
del Welfare. Che magnifica rivoluzione! Il termine senza identità,
una sorta di ircocervo anglo-italiano, ha indignato il presidente
dellantica Accademia degli Incamminati, fondata nel 1660,
a suo tempo protetta da Leopoldo II di Toscana, che ha come scopo
la diffusione delle conoscenze umanistiche e scientifiche.
Welfare a parte, che dire degli snob (dal latino: sine nobilitate)
che parlano di hit parade, work in progress, call center, meeting,
briefing, coffee break, gadget, gossip, hobby, full o part time,
vip, week-end, audience, share e via forestierando? Benvenuta, dunque,
lidea di un Manifesto agli italiani per litaliano,
firmato da un folto gruppo di illustri accademici culturalmente
(e politicamente) molto trasversali, nel quale si sostiene che costoro
«rilevano limpoverimento che luso della lingua
italiana sta subendo da alcuni decenni e ne contestano lineluttabilità
quale prodotto della moderna società di massa, sottolineando
invece come ne derivi una sempre più limitata capacità
di interrelazione». Suggeriscono di «restituire centralità
allinsegnamento nelle scuole allo scopo di arricchire il bagaglio
espressivo degli studenti», nonché di «riscoprire
i grandi classici della letteratura italiana per riportarli nella
scuola e nella società». In gioco, il fattore stesso
di identificazione e di unificazione nazionale del popolo italiano.
Senza gli eccessi francesi, i facili sciovinismi, gli
anacronistici nazionalismi. Ma il rispetto per le proprie radici.
Altro che background!
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