Settembre 2003

IL CORSIVO

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Monoglotti globali
Aldo Bello
 
 

L’Italia non ha mai avuto una politica estera linguistica degna di questo nome, non ha mai fatto della difesa della nostra lingua, che pure
ha illuminato il mondo, un obiettivo politico.

 

Prima di parlare di casa nostra, facciamo un discorso generale. E’ stato accertato che ogni quindici giorni nel mondo muore una lingua. E insieme con essa svanisce una cultura, cioè l’espressione di una civiltà, di una sua storia, di una sua tradizione. Se questa tendenza non sarà in qualche modo arginata, nell’arco di un solo secolo dei circa cinquemila idiomi oggi in vita sul nostro pianeta più della metà non avrà neanche un parlante.

Eppure, dovrebbe esser risaputo che una lingua è un patrimonio unico e straordinario, che ogni idioma porta con sé un modo speciale di pensare, una visione del mondo che appartiene ai propri parlanti, e soltanto a loro. Immagini, colori, sensazioni, emozioni, profumi, paure, momenti di felicità, appartengono a quella lingua, nessun’altra è in grado di esprimersi con le identiche sfumature, di creare le stesse atmosfere. Né c’è traduzione che tenga.
Le parole usate da un popolo per raccontarsi appartengono a un percorso, a un viaggio nella storia, che non può essere riprodotto in laboratorio, né può vivere di vita artificiale. Come ogni organismo vivente, un idioma ha bisogno di condizioni particolari per sopravvivere. Per questo, gli idiomi vanno tutelati e protetti. E per continuare a cogliere il fascino della diversità e della possibile immortalità. Per un uomo, infatti, non c’è ritorno dalla morte. Per una lingua, sì, se torna ad essere parlata. E’ accaduto con l’ebraico, resuscitato dopo 2500 anni, grazie in particolare alla “visionarietà” di Eliezer Perelman, che assunse poi il nome di Ben Jehudah; o come è accaduto per il qi’ché, lingua del popolo maya, rimessa in circolo in Guatemala dal Nobel Rigoberta Menchú e dal poeta Ak’Abal, collaboratore di “Apulia”.

Questi “miracoli”, tuttavia, non devono illudere. Gli equilibri linguistici a livello planetario sono molto precari. In diverse aree dilaga lo strapotere di alcuni idiomi rispetto ad altri, com’è il caso della lingua anglo-americana che afferma soprattutto una superiorità politico-economica. E accade che in parecchie comunità parlare una lingua diversa da quella dominante venga visto come una sorta di vergogna: la gente si persuade che la propria lingua non sia adatta più ad esprimere la modernità e non sia in grado di comunicare le idee astratte. In alcuni casi la conseguenza di tali convinzioni si traduce nell’abbandono volontario della propria lingua. Uno dei casi più noti è quello degli yaaku, popolazione del Kenya centrosettentrionale, che ad un certo punto, in un’assemblea pubblica presieduta da tutti i capi della comunità, decretò l’eutanasia del proprio idioma, e adottò quello dei vicini, i masai. Fenomeno, questo, che ha colpito anche molti giovani delle tribù pellerossa del Nordamerica.
Queste trasformazioni sono avvenute spesso nella più completa indifferenza delle istituzioni. Eppure, le cifre fanno riflettere: delle cinquemila lingue esistenti, seicento, vale a dire un po’ meno di un ottavo, sono parlate da più di 100 mila persone, mentre cinquecento sono strumento espressivo di meno di 100 persone; il 90 per cento delle lingue del pianeta è parlato da circa il 5 per cento della popolazione mondiale; il 50 per cento degli abitanti della terra parla solo undici delle lingue esistenti; un gruppo di 22 Paesi parla un notevole gruppo di lingue, e nove di essi possiedono più di 200 lingue ciascuno: Papua-Nuova Guinea 850; Indonesia 670; Nigeria 410; India 380; Camerun 270; Messico 240; Repubblica del Congo 210; Australia 200; Brasile 200; altri tredici Paesi possiedono da 160 a 100 lingue ciascuno: nell’ordine, Filippine, Russia, Stati Uniti, Malaysia, Vanuatu (ex Nuove Ebridi), Repubblica Centroafricana, Birmania e Nepal.
Domanda: che fare, per salvare il più possibile di questi mondi lontani? Risposta tutt’altro che facile. Sicuramente, vanno sostenute le scuole di linguistica, create nuove figure professionali, coinvolti i giovani, addestrati eccellenti ricercatori, incentivato il lavoro sul campo. Si dovrà creare a breve termine, anche grazie a Internet, un sistema di grandi banche dati, e le istituzioni si dovranno impegnare al sostegno del plurilinguismo. Occorrono fondi, progetti generali, programmi dettagliati di tutela, catalogazioni, con la consapevolezza che tutto questo non comporterà profitto. Ma solo così conserveremo almeno la semplice memoria di alcune delle lingue finora parlate dall’uomo.

Passiamo alle cose di casa nostra, ma restiamo al di là dei confini. Nella prospettiva della moltiplicazione linguistica di un’Europa allargata, si discute di come l’italiano possa strappare un posto di riguardo. In un’Unione europea a 21 lingue, poche potranno avere a Bruxelles un ruolo di rilievo. Le altre saranno relegate nella categoria delle lingue tradotte solo nella “Gazzetta Ufficiale”. Si tratta della (disperata) missione di riconquista del terreno perduto (per inerzia intellettuale, per ignava rinuncia). Sicché oggi l’italiano non è più una lingua internazionale, e dunque non funge più neanche da lingua da lavoro. Tedeschi, francesi, spagnoli, danesi o polacchi conoscono come lingua straniera essenzialmente quella inglese, talora la francese, più raramente la tedesca. Non l’italiana.
Al tempo dell’Europa a nove o a dodici, era possibile tradurre tutto in tutte le lingue, e i rappresentanti italiani e i loro segretari e portaborse potevano scrivere e parlare la loro lingua, certi che sarebbero stata tradotta. Nell’Europa a 25 ciò non sembra più possibile. L’Italia non ha mai avuto una politica estera linguistica degna di questo nome, non ha mai fatto della difesa della nostra lingua, che pure ha illuminato il mondo, un obiettivo politico.
Al nostro atteggiamento rinunciatario, dunque, i Paesi europei da tempo si sono impegnati in una subdola lotta, investendo nella traduzione di opere letterarie, nella diffusione e nel sostegno del cinema e del teatro, nella produzione di programmi televisivi di qualità, proteggendosi anche dall’invasione di prodotti americani di scarso o nullo valore. Abbiamo rinunciato persino a insegnare l’italiano ai nostri emigrati, e ora trionfalmente constatiamo il successo dei corsi di italiano all’estero, senza renderci conto che non stiamo conquistando alcun terreno, stiamo semplicemente recuperando un’infima parte di “italiani perduti”!

Insegnamento della nostra lingua nelle scuole europee gestito come quando piove, nomine di insegnanti ritardate di mesi, istituti di cultura penalizzati dalla carenza di fondi, e necessariamente più attenti alla bolletta della luce che alla coerenza delle loro iniziative, delegati italiani a Bruxelles che preferiscono esprimersi in un inglese di bassa lega (pensano di essere ascoltati di più?) invece di far ricorso alle traduzioni simultanee, unica televisione visibile Rai Uno, con le sue immagini circensi che impressionano certamente albanesi, libici e montenegrini, ma che non reggono il confronto con le altre tv europee, con linguaggi italioti dai congiuntivi evaporanti e con anglicismi dilaganti usati più per stupire che per farsi capire. Guai a chi non riesce a capire l’importanza dello spirito di appartenenza a una comunità linguistica. La fine di una lingua può cominciare quando si cessa di capirsi.

Era “ministero del Lavoro”, lo hanno trasformato in ministero del Welfare”. Che magnifica rivoluzione! Il termine senza identità, una sorta di ircocervo anglo-italiano, ha indignato il presidente dell’antica Accademia degli Incamminati, fondata nel 1660, a suo tempo protetta da Leopoldo II di Toscana, che ha come scopo la diffusione “delle conoscenze umanistiche e scientifiche”. Welfare a parte, che dire degli snob (dal latino: sine nobilitate) che parlano di hit parade, work in progress, call center, meeting, briefing, coffee break, gadget, gossip, hobby, full o part time, vip, week-end, audience, share e via forestierando? Benvenuta, dunque, l’idea di un “Manifesto agli italiani per l’italiano”, firmato da un folto gruppo di illustri accademici culturalmente (e politicamente) molto trasversali, nel quale si sostiene che costoro «rilevano l’impoverimento che l’uso della lingua italiana sta subendo da alcuni decenni e ne contestano l’ineluttabilità quale prodotto della moderna società di massa, sottolineando invece come ne derivi una sempre più limitata capacità di interrelazione». Suggeriscono di «restituire centralità all’insegnamento nelle scuole allo scopo di arricchire il bagaglio espressivo degli studenti», nonché di «riscoprire i grandi classici della letteratura italiana per riportarli nella scuola e nella società». In gioco, il fattore stesso di identificazione e di unificazione nazionale del popolo italiano. Senza gli “eccessi francesi”, i facili sciovinismi, gli anacronistici nazionalismi. Ma il rispetto per le proprie radici. Altro che background!

   
   
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