Settembre 2003

TOMMASO FIORE E IL “SUO” POPOLO DI FORMICHE

Indietro
Terra, che urge dentro
Nicola Carducci
 
 

“La spiegazione
segreta di un’opera
va cercata nella vita
del suo autore”.

(Ch. A. Sainte-Beuve)

 

Si identificò,
lui, grande
intellettuale del Mezzogiorno,
umanista raffinato, con tutti i reietti
della sua terra,
condividendone le ragioni antiche della liberazione dalla servitù padronale e del riscatto sociale.

 

Chi si accosti a questo libro di Tommaso Fiore senza alcuna preliminare informazione, può essere tratto in inganno dal titolo: che si tratti di una più o meno piacevole favola allegorica, sul tipo, poniamo, dei Viaggi di Gulliver di Gionata Swift, autore, per altro ben noto, allo scrittore pugliese, tra le cui prime giovanili letture vanno annoverate proprio quelle degli umoristi inglesi, anche per una certa affinità di predisposizione mentale. Del Gulliver, sin dalle prime pagine, rimbalzano in contrapposizione i semantemi “lillipuziani” e “giganti”.
Riferiamo un passo: «Non bisogna andare molto lontano per trovare una strana terra, dalle casettine lillipuziane [...]. Sono minuscole capanne tonde, dal tetto aguzzo, in cui pare non possa entrare se non un popolo di omini [...]. Mi chiederai come ha fatto questa gente a scavare ed allineare tanta pietra. Io penso che la cosa avrebbe spaventato un popolo di giganti. Questa è la Murgia più aspra e più sassosa; per ridurla a coltivazione, facendo le terrazze [...], non ci voleva meno della laboriosità di un popolo di formiche»1: le sedulae formicae del suo Virgilio, la cui presenza letteraria attraverserà variamente le sei Lettere pugliesi che costituiscono il libro, come vedremo. Di esse, le prime quattro sono inviate a Piero Gobetti, per la sua rivista “La Rivoluzione Liberale”, tra il gennaio e il luglio 1925; le altre due, del luglio e agosto 1926, al valdese calabro-romano Giuseppe Gangale, direttore della rivista “Conscientia”, dopo la soppressione del periodico torinese, voluta dal fascismo. Non c’è tuttavia soluzione alcuna di continuità programmatica e metodologica tra le une e le altre, anche perché è comune ad entrambe le riviste l’intento di promuovere iniziative culturali mirate a realizzare nelle istituzioni pubbliche e nelle coscienze quella riforma morale e intellettuale, la cui mancanza, in Italia, aveva provocato la decadenza e poi il crollo dello Stato liberale: motivo, peraltro, ricorrente nel pensiero di Croce e di Gramsci, pur nella diversità delle soluzioni prospettate.
L’indagine sociologica si sarebbe allargata ad altre zone della regione, oltre la Murgia e il Salento, con l’invio di altre Lettere, se non fosse sopraggiunta la cessazione anche della rivista di Gangale, a seguito della promulgazione delle Leggi speciali. Ne è comunque prosecuzione, l’altro libro del Fiore, Il cafone all’inferno, che raccoglie dati, impressioni e documenti demologici dell’area garganica, in gran parte elaborati fra le due guerre, e che vedrà la luce nel 1955, con l’editore Einaudi. Interessante su di esso il giudizio di Calvino, valido anche, implicitamente, per un Popolo di formiche: «Mi sembra un libro esemplare, un libro come ce ne sarebbe bisogno se ne scrivessero tanti, per ogni regione, per ogni problema [...]; un libro insieme di alta civiltà letteraria e di intelligenza poetica di paesi e cose». Nella scrittura di Fiore, infatti, coesistono organicamente puntuale precisione sociologica e catturante genialità di artista: caratteri che distanziano notevolmente i due libri dalle inchieste sulla condizione meridionale di Franchetti-Sonnino, Jacini, Villari, fermi sui referti statistici, dei quali peraltro, quando occorre, si avvale anche Fiore. Il “formicone” di Altamura, piuttosto, può essere accostato all’illuminista Giuseppe Maria Galanti, le cui Relazioni sull’Italia meridionale si affretta a pubblicare nel 1952, a ridosso della prima ed. di Un popolo di formiche, nella milanese “Universale Economica”, al fine di accendere con altri stimoli il dibattito meridionalistico del dopoguerra .
Basta poi inoltrarsi di qualche pagina già dalla prima Lettera, perché alla illusione della dilettevole favola allegorica subentri l’amara realtà delle “lacrimae rerum”, «le lagrime di venti secoli che aspettano», dei contadini e dei braccianti pugliesi, la constatazione «che del tempo è passato inutilmente», dall’epoca «delle tante pubblicazioni meridionaliste di venti, trent’anni fa», che insomma «la Puglia è anzitutto una espressione archeologica».
E’ da questo ristagno socio-economico e politico che muove la penna di Tommaso Fiore, che tuttavia trema di commossa trepidazione al pensiero delle potenziali risorse celate nella classe contadina, sol che acquisti una compiuta coscienza di sé: «Ognuno vive in campagna, fiero del suo lavoro e della sua indipendenza, e grande è l’amore pel loro paese: nessuna nostra plaga ha contadini più fieri, più indipendenti, più spregiudicati. Non oserei dire che da sé arrivino più in là, ma è chiaro che questi figli della terra, una volta non più sviati ed intristiti da preoccupazioni di salari e di tasse, svolgerebbero rapidamente un vero spirito di autonomia, che, divenuto conscio di sé, opererebbe politicamente, come ha sin ora operato economicamente». In questa esaltazione della funzione redentrice del lavoro non alienato nei campi, si avvertono congeniali echi virgiliani: «labor omnia vicit / improbus et duris urgens in rebus egestas» (Georgiche; I, 145-46: «Ha sempre vinto tutto, il lavoro costante, e l’urgente bisogno nelle dure circostanze»).
E’ questo labor improbus che commuove ed esalta insieme Fiore, che ne dà notizia agli amici di “Rivoluzione Liberale”, auspicio di prodigiosa risorsa, unica ma decisa, per risollevare le sorti del Mezzogiorno, autonomamente, senza la corruttrice mediazione dello Stato accentratore. Con un sobbalzo affettivo che tradisce le proprie radici contadine, attacca: «Ma io ho bisogno di vedermela tutta, passo passo, questa terra redenta dai contadini, nessuno dei quali è senza il suo poderuccio coi suoi trulli», di contro, e quasi sfidando «i nostri deliziosi agrari che fan vita a Napoli e da lì si occupano di agricoltura riscuotendo le rendite».

 

Meminisse iuvabit

Appunto, è l’improbus labor che ha segnato, lasciando tracce profonde, le esistenze di suo padre e di sua madre, e Fiore, sin dagli anni più teneri, ne serba la memoria, traendone via via una lezione imperitura, sino ad identificarsi, lui, grande intellettuale del Mezzogiorno, umanista raffinato, poligrafo insaziabile, con tutti i reietti e diseredati della sua terra, condividendone e propugnandone le ragioni antiche della liberazione dalla servitù padronale e del riscatto sociale. Egli stesso, del resto, adolescente, aveva scontato le sue umili origini familiari con la forzosa rassegnazione a intraprendere e perseguire i suoi studi in ambienti non proprio congeniali, nel Seminario vescovile di Conversano, senza alcuna predisposizione all’attività sacerdotale, e poi nel Collegio Teologico di Anagni, per decisione del prelato di Altamura. Gli pareva che il suo avvenire fosse alla mercé di volontà altrui; donde lo scatto appena represso della ribellione, nel trascegliere per le sue letture autori e opere sospette: da Paolo Sarpi a Giosuè Carducci, da Victor Hugo a Felice Cavallotti, dalla Pulcella d’Orleans di Voltaire alle Operette morali di Leopardi. «Il sapere bisognava rubarselo da sé, soprattutto in quel luogo disgraziato», ricorderà poi.
Tuttavia quelle letture e le numerose di Virgilio, Orazio, Catullo, Rousseau, Shakespeare, Shelley lo plasmavano nella mente e nel carattere e insieme rappresentavano l’avvio di una cultura intesa e praticata come strumento di lotta politica, quale non tarderà a sfoderare, subito dopo la laurea conseguita a Pisa, col suo rientro tra la sua gente ad Altamura. Si aggiunga il consentaneo entusiastico impatto, nello stesso arco di tempo, con Antonio Labriola, il cui Saggio sul materialismo storico gli fa sentire di «aver finalmente messo piede sul saldo», e con Benedetto Croce, che gli fornisce «il senso dell’operare storico», dileguandogli dall’animo «le nebbie insistenti del pessimismo, sorbito in collegio».
Una formazione eterodossa, dunque, e la dolorosa memoria familiare sono la matrice del suo precoce programma d’azione, anche per il tramite della scrittura; gli studi non dovevano servire ad altro. Ci si consenta qui una non breve citazione, esemplare per la sua intensa carica di pietas di figlio non immemore, che sa già «legger di greco e di latino».
«Questa vita è una schiavitù: tale era il ritornello di un capomastro del posto [...]. Quante volte ho riflettuto a questa cosa, alla ribellione che, fra quattro mura, sussurrava a un ragazzetto, un uomo senz’alfabeto, senz’alcuno spirito di cupidigia, incapace, fuori di casa, di levar gli occhi dolci contro chiunque. Quando sposò, aveva la spalla destra rotta a sangue, diceva, arrossendo, vent’anni dopo, la moglie, per via dei tufi che aveva trasportato sino a trent’anni e più![...]. Ma anche la povera donna aveva avuto la vita troppo dura, e anche ora viveva spartanamente e quasi rassegnata [...]. Quanta fame non aveva sofferto nella sua giovinezza di orfana, per venti anni di seguito, 365 giorni all’anno, allo scopo di imparare e insegnare un’arte, di tenersi legata alla realtà della vita [...]. Chiusa a otto anni nel convento di Santa Lucia, non aveva mangiato che fave, fave, mattina e sera, ch’era già un lusso per chi non conosceva che il pane, sino a vent’anni, allorché ne uscì per andare a marito. Ma quante belle cose ha appreso quella vivace piccola ricciuta dai grandi occhi, ha voluto apprendere da sé, allorché nessuno voleva insegnarle nulla e l’arte bisognava rubarla»; l’arte della tessitrice, per far poi quadrare in qualche modo il gramo bilancio domestico futuro. Il figlio, allora, «deve portare (necessariamente) in ogni casa, sin dall’infanzia, uno spirito critico, di opposizione [...]. Egli continua, senza saperlo, il sogno paterno di liberarsi dalla schiavitù» .
La figura del padre resta per Fiore il simbolo vivente di un destino non più tollerabile di vittima di un iniquo secolare assetto sociale. E quando è in guerra, cui è andato volontariamente, da interventista democratico, come Salvemini, soldato dell’Utopia non dell’Intesa, per stare, anzitutto, al fianco dei “cafoni” analfabeti della sua terra, la cara e buona immagine paterna gli ricompare nella memoria in un alone di mito rigeneratore, di santo laico, per il «suo profondo ardore di carità [...]. Come mai (riflette) si è formato quest’uomo, unico più che singolare? Eppure la sua educazione è cominciata in istrada, dove a 8 anni lo cacciò di casa la fame, al lavoro»; e poi i suoi «70 anni di dirittura ostinata [...]. Dove ha attinto tanta forza morale? Che cosa gli ha dato la vita? Nulla. Che le ha chiesto? Nulla. E come mai non ha disperato un solo momento? [...]. Egli non ammette nemmeno le ricchezze... il denaro. Che sia un anarchico? Un anarchico francescano? [...]. Lui dice solo: – Le ricchezze, il denaro corrompono... e si contenta, per sé, di non avere, di non cercare né le une né l’altro»12. Come il saggio antico di Democrito, «che non si rammarica di ciò che non ha, ma gode di ciò che ha».
Ma non ha influito meno sul suo umanesimo militante e sul suo impegno civile, la giovanile dimestichezza con i dialoghi platonici e con la figura di Socrate, centrale per la personalissima elaborazione della sua tesi di laurea. Come acutamente osserva Domenico Fazio: «Fiore ha condotto in realtà una riflessione filosofica sul ruolo degli intellettuali nella società: una sorta di esame di coscienza ante litteram, che non solo si conclude con il riconoscimento della necessità di un impegno civile, ma lascia anche intendere con precisione come tale impegno vada concretizzato. Fiore, infatti, tra le righe della sua tesi, parlando di Socrate e di Callicle, ha detto che la nuova politica deve avere come scopo la giustizia e il miglioramento dei cittadini e non già il potere, il prestigio e l’arricchimento personale».
Sono i princìpi che animano il Fiore, amministratore della sua città; il Maestro e lo studioso, per il quale le questioni filologiche diventano questioni morali e civili: che rifugge dalla turris eburnea, per collocarsi in linea con le sue “formiche”, debellando la boria del dotto, perché la cultura, come Fiore la intende, è un «abbraccio universale a tutte le creature che soffrono, anche nei deserti dell’Africa, nei piani sconfinati dell’America e dell’Asia, tra le isole degli Oceani».
Tra Pascoli e Tolstoj

Giovanni Pascoli, suo maestro a Pisa, non poteva certo andar confuso con altri nel ricordo che Fiore ne conserverà; e non soltanto sotto il profilo della didattica, d’indubbia presa sugli allievi, non molti, bensì per la complessa e contraddittoria compresenza in lui di interessi culturali, variamente stimolanti nell’animo e nella mente del provinciale di Altamura: «Di Matera, dov’era stato il suo primo insegnamento, e della Puglia, il poeta di Myricae rievocò soltanto l’ulivo, le immense distese di uliveti, con la povera gente lì sotto, curva sul suo lavoro»: notazione che colpisce la fantasia di Fiore, non meno dell’altra, cioè «l’attenzione al popolare contadino, l’intimità religiosa dei sofferenti» che poi si rimescolano nel «pacifismo, gadismo, scentifismo, ulissismo, utopismo: insomma uno scoppio irraggiante, anarchico, nell’età del positivismo, di forze nuove. E del resto, anche politicamente il Pascoli era stato anarchico, discepolo di Andrea Costa», conclude, consentendo, Fiore.
Ma il mite populismo pascoliano bastava sempre meno a Fiore, che perciò negli stessi anni pisani avvertiva, congenialmente, il fascino dell’anarchico Pietro Gori, e intanto raffinava i suoi strumenti conoscitivi della realtà, composita e in fermento, di quello scorcio di secolo, mediante la lettura delle Memorie di un rivoluzionario di Kropotkin, che gli accesero «la fantasia e anche il cuore».
D’ora in avanti il “formicone” pugliese guarderà ai fatti sociali e agli eventi storici dal «punto di vista degli oppressi». A tale scopo, gli apparivano più efficaci le sollecitazioni ideali che potevano pervenirgli dall’opera di Leone Tolstoj, alla notizia della cui morte, avvenuta il 7 novembre 1910, fece seguire un suo densissimo saggio, frutto di una remota e assidua frequentazione del pensiero del grande scrittore russo.
La originalità dell’approccio di Fiore all’autore di Guerra e pace consiste nel fatto che esso si distacca dall’altro, più comune e diffuso alla letteratura russa in chiave prevalentemente misticheggiante, a cavallo dei due secoli. Nella evoluzione del pensiero tolstojano, Fiore coglie le ragioni ideali e l’ideologia del ribelle, del “populista” rivoluzionario, che sogna la rigenerazione universale nel segno della eguaglianza evangelica e della giustizia sociale nel mondo, di là dagli statuti codificati del potere e della sua fenomenologia. La terra ai contadini ne era il presupposto, e Tolstoj stesso coltivò a lungo l’idea di rinunciare, per essi, ai suoi beni, sino allo scontro aperto con la moglie: «Dalle parole di Cristo, secondo le quali gli uomini son figli di Dio, cui debbono render conto delle loro azioni, egli conclude all’anarchia e all’obbligo dei cittadini di non servire lo Stato e di non ubbidire che alla propria coscienza, giacché per lo Stato l’uomo si crede obbligato a confiscare, imprigionare, esiliare, dannare ai lavori forzati o a morte».

L’antagonista naturale dello Stato è dunque, per Tolstoj, come per Fiore, la figura del contadino, in forza della sua conservata innocenza civile, del suo intatto ethos ancestrale. E’ il riemergente, ad ogni svolta epocale, bisogno di utopia come «mondo umano altro», come progetto avveniristico che infranga il reticolato dei percorsi storici preordinato dai potenti della Terra; progetto che muova, per la creazione del “mondo nuovo”, dai dettami evangelici della fratellanza e della concordia fra le classi e fra i popoli: miraggio palingenetico e presagio di un’èra di pace e di giustizia, della Légende des Siècles di Victor Hugo, dell’ultimo Pascoli di Odi e Inni e dei suoi Poemi cristiani. Del romanzo Anna Karenina impressiona maggiormente Fiore il personaggio di Levin, in qualche misura l’alter ego di Tolstoj, nel suo ruolo di interprete del vincolo d’amore, che s’instaura nel lavoro dei campi, e del diritto naturale dell’istituto della piccola proprietà, che scongiura l’insorgenza del conflitto di classe, con la concordia d’intenti fra padroni e contadini.
L’istituto della piccola proprietà, che è mito poetico dei Poemetti del Pascoli, e poi ferma rivendicazione politica del Fiore, in Un popolo di formiche. Come sottolinea Francesco D’Episcopo: «il socialismo letterario e libertario dello scrittore russo esercitava anche su Fiore una presa profonda, chiamata tra l’altro a confrontarsi con una consentanea condizione meridionale, legata ad una specifica situazione morale».

Tra Virgilio e Orazio

L’interesse di Fiore per i classici risale certo agli anni del suo brillante curriculum scolastico, a Conversano e ad Anagni (con letture clandestine), ma non v’è dubbio che le lezioni pisane e la conoscenza delle due antologie pascoliane Lyra ed Epos lo abbiano rafforzato anche filologicamente, sì da diventare, in breve volgere di tempo, ambito privilegiato dei suoi studi successivi, oltre che materia del suo insegnamento liceale, e infine, negli anni bui della clandestinità politica, risorsa estrema di sollievo spirituale. Tra il 1925 e il 1926 veniva stendendo le sue Lettere pugliesi, e già lavorava alla monografia critica La poesia di Virgilio, che vedrà la luce nel 1930, in ricorrenza del bimillenario del poeta latino. L’accademico d’Italia Ettore Romagnoli pontificava sui destini imperiali dell’antica e nuova Roma, e il “formicone” pugliese celebrava la poesia dei vinti, dei «victi tristes», interpretazione pressoché isolata nell’Italia littoria e non littoria, ma che trovava il riscontro di analogie illuminanti in altri studi d’oltralpe, come informa Marcello Gigante. In quei «victi tristes», il Fiore includeva anche la condizione storica di emarginazione dei “cafoni” del Mezzogiorno. E’ un’analisi dell’opera virgiliana, scrutata sin nei recessi di un’ispirazione più dolente che esaltante, che rovescia gli schemi esegetici più frequenti di “epopea degli eroi” («Tantae molis erat Romanam condere gentem»), per insistere piuttosto sugli orrori della guerra, sul rifiuto della politica, come gestione del potere delle élites. Arcadia e Antiarcadia sono gli estremi tematici fra i quali si muove l’immaginazione del poeta: l’una, sinonimo di un ideale di sana vita campestre, di grazia e di ingenuità (l’eco tolstojana non è spenta); l’altra, sinonimo di coscienza turbata del male di vivere, di sentimento doloroso della storia.

Non si può escludere dunque che la singolare simpatia umana di Fiore per il mondo contadino, l’ansia del riscatto sociale dei «dannati della Terra», si alimentino anche dell’assidua frequentazione della poesia del suo Virgilio, col quale ha, innanzitutto, in comune il sogno dell’agellus, che allieti i giorni e attenui le fatiche campestri. Si è accorto per primo, di tale ascendenza, ed è rimasto unico a tutt’oggi tra i lettori di Un popolo di formiche, Gabriele Pepe, quando ha osservato che Fiore, vissuto a lungo tra i suoi “cafoni”, ha tratto da Virgilio «l’animo di simpatia georgica agli umili, fruges consumere nati», tratteggiandoli con amorevole fraternità.
Ma in verità il “formicone” pugliese si spinge oltre in sintonia col poeta latino, per stemperare il suo pessimismo storico. Nel secondo libro delle Georgiche, Virgilio, con la sua consueta mitezza contadina, contrapponendosi al verticismo speculativo dell’autore del De rerum natura, esclama pensoso: «Felix qui potuit rerum cognoscere causas / atque metus omnis et inexorabile fatum / subiecit pedibus strepitumque Acherontis avari» («Felice colui che riuscì a conoscere le cause del mondo e a calpestare ogni terrore e il fato inflessibile e lo strepito dell’ingordo Acheronte»); per affrettarsi poi a soggiungere: «Fortunatus et ille, deos qui novit agrestis / Panaque Silvanumque senem nymphasque sorores» («ma fortunato anche quello che seppe conoscere i Numi agresti e Pane e il vecchio Silvano e le Ninfe sorelle», ossia l’agricoltore che comprenda a fondo i suoi beni della terra).
E’ il sogno contadino del campicello, «il poderuccio coi suoi trulli», nella terra redenta dall’improbus labor, che insegue Virgilio e non meno Tommaso Fiore nel percorrere le sue Murge. E’ il Virgilio che celebra la serena e pudica felicità del “Senex Corycius” (il vecchio di Taranto), che sulle rive del Galeso possiede pochi iugeri di terra abbandonata, e la dissoda, la libera dal pietrame e dalla sterpaglia, e la fa rinascere a una nuova rigogliosa vita impensata; e poi, in primavera, coglie le rose e i pomi, in autunno, e accudisce agli alveari, e a sera ricopre la mensa di cibi non comprati, e in cuor suo gli sembra di eguagliare le ricchezze dei re.

Allorché poi accade a Fiore di ripensare, nelle sue peregrinazioni, alla condizione dei fittavoli analfabeti ma non privi di una naturale assennatezza, il pensiero gli corre all’oraziano “rusticus Ofellus”, concittadino del poeta, «abnormis sapiens crassaque minerva», ma che pure insegnò all’amico di Mecenate «quae virtus et quanta [...] sit vivere parvo», coltivando il suo campicello spartito di umile fittavolo; e non soltanto a lui, ma anche ai potenti d’ogni tempo25. Esempio di parsimonia, questo grossolano venosino, anche quando – come ricorda ancora Orazio – il suo patrimonio era ancora intatto: «Quo magis his credas, puer hunc ego parvus Ofellum / integris opibus novi non latius usum / quam nunc accisis» («Affinché mi si creda ancor più a queste parole, sappi che, quand’ero ragazzetto, ho conosciuto questo Ofello, allorquando la sua proprietà era ancora integra, ed egli non se ne serviva con maggiore larghezza di quanto faccia ora che gliel’hanno decurtata»). E di un campicello, nella Sabina, avuto in dono da Mecenate, è più che pago anche il poeta: «Hoc erat in votis», esulta ad apertura di un’altra confidenza sermocinante: «Modus agri non ita magnus / hortus ubi et tecto vicinus iugis aquae fons / et paulum silvae super his foret» («Un pezzo di terra non tanto grande dove ci fosse un orto e una fonte di acqua perenne vicina alla casa e un po’ di bosco poco oltre»). Il fascino, infine, di un angolo di terra sulle rive del Galeso preme ancora nella immaginazione e nella poesia di Orazio, che ne scrive all’amico Settimio, come l’agognato asilo estremo al termine dei suoi giorni: «Unde si Parcae prohiben iniquae, / dulce pellitis avibus Galaesi / flumen et regnata petam Laconi / rura Phalantho. // Ille terrarum mihi praeter omnes / angulus ridet, ubi non Hymetto / mella decedunt viridique certat / baca Venafro» («Se le Parche ostili mi tengono di là lontano, potessi almeno vivere in prossimità del fiume Galeso, grato alle pecore ricche di pelli, ed alle campagne su cui regnò lo spartano Falanto. Quell’angolo della terra mi sorride più di tutti gli altri, dove il miele non cede a quello dell’Imetto e le bacche gareggiano con la verde Venafro»).
Da entrambi i poeti, Virgilio e Orazio, infine, anche Giovanni Pascoli ha poi ricavato materia di ispirazione per il suo poemetto latino Senex Corycius, certamente noto a Fiore e il cui motivo centrale è la pace dei campi e la letizia interiore, lontano dalle metropoli; e non è un caso, ci sembra, che le sei Lettere pugliesi si chiudano con il quadretto rasserenante di «una casa di campagna», entro cui, aperta su un tavolo, si poteva leggere, da ogni pur raro ospite, questa epigrafe: «Colui che coltiva i campi, coltiva la santità; colui che coltiva le leggi della natura, coltiva la santità; colui che coltiva la religione della natura, coltiva la santità».

I nostri richiami a Virgilio e ad Orazio rivelano, certo, non più che suggestioni letterarie, ma fortemente compenetrate in chi, come Tommaso Fiore, non ha mai dissociato la letteratura dalla vita e l’impegno civile dall’attività dell’intellettuale.


Pessimismo della ragione
e ottimismo della volontà

E’ innegabile che questi due aspetti, propri dell’uomo Tommaso Fiore, ricompaiano nelle Lettere pugliesi; l’uno, in considerazione del quadro nazionale presente, l’altro per effetto di una quasi fideistica certezza delle potenzialità “rivoluzionarie” delle plebi diseredate e insofferenti. La prima lettera, in data 15 gennaio 1925, riportava immediatamente all’«oggi», cioè ad appena dodici giorni dal discorso di Mussolini, nel quale dichiarava di assumersi tutta la responsabilità storica, politica e morale di quanto accaduto, l’assassinio di Giacomo Matteotti del giugno 1924: «Tu insisti dunque per la collaborazione mia e di amici di quaggiù a “Rivoluzione Liberale” [...], e sembri amareggiato del nostro silenzio [...]; non ci si vede ormai quasi più [...], e tutti pare abbiano smesso di scrivere, perché non è in nessun modo cosa prudente affidare i propri pensieri alla carta, peggio alla posta»30. Ma subito dopo, la sorprendente laboriosità delle “formiche” lo rincuora, e ripensando ai ragazzetti del paese dei trulli, che «van pulitini e ben calzati, con le loro cartelle, serii, compresi del loro compito ed anche più orgogliosi, si vede subito, della loro cittaduzza, che è grande e famosa presso tutti, e non mostrano molta curiosità per questi forestieri», esclama: «Bisogna senz’altro sperare nei nostri figli: noi abbiamo fatto la guerra; chi sa che essi non facciano qualcosa di più grande, la liberta».
Ma prima di procedere oltre, è opportuno porsi la domanda su come l’oscuro professorino di Altamura, cittadina del barese, abbia potuto mettersi in relazione con Gobetti e col gruppo di “La Rivoluzione Liberale”, operante all’altro capo della penisola, sino ad instaurare con essi un rapporto di sodalizio culturale militante, così intenso e luminoso quale mai, né prima né dopo, si è avuto nella storia d’Italia.
La risposta, necessariamente articolata, serve intanto a far luce sul carattere straordinariamente combattivo di Fiore, in ciò non dissimile dal più giovane amico, non meno che sull’animo col quale si sarebbe accinto alle sue escursioni delle Lettere pugliesi. Quando ha notizia della pubblicazione del settimanale torinese, avviato nel febbraio del ‘22, col Manifesto che enunciava il programma, ne avverte subito la consonanza d’intenti: «era proprio la formula – dice – che faceva per noi e significava cambiamento di rotta, per salvare l’eterna libertà». Quindi si affretta a scrivergli, il 7 ottobre 1922, per una maggiore informazione circa l’assetto legislativo proposto dal movimento fascista in materia di amministrazione locale, e prosegue: «I tempi sono tristi, e nazionalisti e fascisti parlano apertamente dei poteri reazionari dello Stato, cioè che lo Stato, che non sa reagire contro i cittadini che non la pensano come lui, non è uno Stato». Era ormai il suo fermo convincimento. Esprime, infine, la sua «speranza» e «l’augurio» che “La Rivoluzione Liberale” voglia riprendere in esame il problema dell’autonomia amministrativa, problema che, sin d’ora, più gli sta a cuore e che rimarrà, nell’elaborazione del suo pensiero politico, il nucleo ideologico più consistente.
Nel febbraio del ‘23, la rivista viene perquisita e il suo direttore arrestato; tornato libero alcuni giorni dopo, risponde con lettera del marzo, sia per informarlo dei due «incresciosi» e sintomatici episodi sia per invitarlo a «mandargli una corrispondenza, anche brevissima, obiettiva, sul fascismo in Puglia prima e dopo la marcia su Roma», chiudendo affettuosamente: «Cerchiamo di restar vicini in questi momenti difficili».

Ma occorre soffermarci su un’altra circostanza. Non meno di Gobetti era tenuto sott’occhio dalla sbirraglia nera il molfettese Gaetano Salvemini, il maestro incomparabile e ispiratore tanto del rivoluzionario torinese quanto del conterraneo Fiore, del quale, fuggendo in Francia, consegnò a Gobetti un lungo scritto su Giolitti, il «ministro della malavita», bersaglio costante della polemica salveminiana e gobettiana, cui ora si aggiungono gli attacchi di Fiore: giolittismo «incubazione del fascismo», fomite di pubblica corruttela, terreno di coltura del trasformismo.
Così, la collaborazione di Fiore, anche per l’impulso di Salvemini, stimola per un più puntuale e metodico interesse esplorativo della realtà meridionale, cui, appunto, si ispira il progetto gobettiano delle inchieste36: inchieste che non ignorano, certo, le ricognizioni fornite dai riformatori napoletani della scuola di Genovesi e poi dai moderati unitari, Franchetti, Sonnino, Jacini, Villari, nei quali però difettava la partecipazione umana, quel surplus “passionale” e, insomma, quella “più anima”, quel “più cuore”, che palpitano nelle nuove indagini. Ecco Tommaso Fiore, sentirsi “cafone” tra i cafoni, umiliato e offeso come i suoi “braccianti”, senza l’ombra della “boria dei dotti”; come, del resto, con questi sentimenti si era sentito accanto ai contadini sul Carso, nella Grande Guerra, e poi, col “movimento dei combattenti” nell’amministrazione della sua Altamura; e infine nelle sei Lettere, dense di memoria storica, di ricordi ancora vivi, di incontri, di impressioni.

Certo, la Puglia dell’alba del terzo millennio non è più l’«espressione archeologica», quale gli era apparsa nel 1925-26; non è più mortificata e avvilita dal secolare assenteismo parassitario degli agrari, ormai smascherato e battuto dalla presenza organizzata delle masse contadine, al seguito dei partiti di sinistra del secondo dopoguerra; ma è anche vero che ai vecchi mali son susseguiti i nuovi, non meno calamitosi per le sorti del Mezzogiorno; mali, peraltro, già denunciati dal Villari (nelle Lettere meridionali) e poi dal Fiore: mafia, camorra, trasformismo opportunistico, intreccio tra gestione politica dei potentati economici e corruzione, per cui la denuncia del Fiore conserva in gran parte la sua efficacia, pur nella diversa diramazione dei soggetti e dei centri di potere, rispetto a quel lontano passato. Per limitarci ad un solo esempio: il trasformismo del ceto medio, della borghesia degli affari e delle funzioni, e quello ancor più sfrontato di corpose frange della intellettualità.

Aveva annotato Fiore: «Sono usciti quasi tutti i deputati e gli esponenti attuali del fascismo locale, passati di punto in bianco, fra il ‘23 e il ‘24, dal radicalismo al fascismo, così come in altri tempi avevano tentato di passare al socialismo, come uno a Carnevale si veste da cinese, per null’altro che per assicurare più larghi proventi alla loro attività professionale, o per soddisfare ad una ambizione antica, sfrenata, ridevole nella sua sproporzione col valore degli uomini. Fenomeno di trasformismo comune in Italia, dove l’unica cosa che esiste è la propria persona, e a servizio di questa la famiglia, la città e possibilmente lo Stato». Così chiosa a riguardo Giuseppe Giacovazzo, nella presentazione del libro: «Facile il parallelo con l’esperienza dei nostri giorni, in una società che vede sempre più dilatarsi il ceto borghese attraverso l’istruzione e la crescita delle professioni. Basta osservare che nell’ultima legislatura si sono registrate qualcosa come centosettanta “migrazioni” di parlamentari di ogni versante politico, che hanno lasciato i partiti di provenienza, con larga percentuale di meridionali. E se molte cose sono mutate in Puglia e nel Sud in tutti questi anni, almeno la genia dei voltagabbana è rimasta prolifica e inalterata nel suo DNA».
Da salveminiano di antica data, Tommaso Fiore non ha mai separato, pur nella distinzione, l’esercizio della politica dall’imperativo dell’etica, che è lezione sempre valida e che perciò legittima e giustifica una rilettura oggi di quelle Lettere pugliesi. Di queste, poi, (ed è pregio riconosciuto dello scrittore nel sociologo Fiore), è il correlativo letterario l’originalità della sua prosa, che non si arena sulla freddezza dei dati ma dal “discorso” si frange in squarci colloquiali con i suoi destinatari reali (come Gobetti o Gangale o Dorso), o con i più, del tutto immaginari, che sono i comuni lettori, che se ne lasciano coinvolgere: una scrittura che non esita a cedere alla piena dei sentimenti, ai fremiti dell’indignazione, intervallati dalla riflessione critica o dalla rievocazione pensosa di personalità di grande rilievo del passato della regione o del Mezzogiorno in generale: da Archita di Taranto a Giustino Fortunato, dal Capecelatro a Francesco Nitti, ai Vallone, De Viti De Marco, Stampacchia, Rubichi, De Giorgi: al poeta dialettale “contadino” Giuseppe De Dominicis (più noto con lo pseudonimo di Capitano Black), all’anarchico tolstojano Cesare Teofilato, grande amico di Fiore e della medesima cerchia culturale e politica sin dai tempi de “La Rivoluzione Liberale” e “Conscientia”, nonché autore di due monografie sui congeniali Giordano Bruno e Giulio Cesare Vanini; che nella resa generale al regime, si ritira in un suo campicello, con la moglie, pronto a reagire agli assalti della teppaglia prezzolata, mentre si nutre dei frutti della terra e del «latte di capra».
Indimenticato il suo verbo: «Mi basta la consolazione di non aver mentito, ché l’uomo non vive di solo pane, ma anche di coerenza, di decoro e di carattere»; congiuntamente alla sentenza: «Per l’uomo osserva te stesso; per la natura tuo padre». E non è l’eco prolungata, nella coscienza dei “giusti”, del motto delfico nosce te ipsum?

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2003