Settembre 2003

SPECCHI

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Una donna
Antonio Errico
 
 

 

 

 

Pensai così:
come un silenzio senza fondo,
nero, come
un abbandono, una rovina, come se tu fossi eclissi
distanza paura nello scuro delle notti di bambina.

 

Io devo andare ora. Se vuoi tu puoi restare. Cerca di riuscire un po’ a dormire. Non dormi da vent’anni. Ti conosco. Nemmeno questa notte hai dormito. Hai fatto sempre tutto in fretta. Tutto. Hai inseguito te stesso ogni momento.
So che anche stavolta devi andare. So che non riuscirei a trattenerti. Avrei dovuto farlo un’altra volta, la prima volta che scappasti.
Adesso non è più tempo, e poi non mi interessa. Sei troppo lontano, adesso. Sei diverso.
Non so quanto ti abbia insegnato l’esperienza, gli uomini, le strade, le donne, le battaglie. Non so quanto ti abbia insegnato la scoperta che non c’è mai nulla di nuovo da nessuna parte.
Lo hai detto tu, non io. Io non conosco altro luogo che questo. Non conosco altra terra che quest’isola dispersa nel vuoto di una storia senza scopo.
Certe notti, guardando il punto bianco degli aerei, in quelle tante notti che neanch’io ho dormito, mi son chiesta che senso avesse il tuo continuo andare, verso che direzione andassi veramente.
Non sono mai riuscita a darmi una risposta.
Vedo che nemmeno tu sai darne una, adesso.
Dopo vent’anni.
Non lo capirai più, lo so, lo sai.
Era un altro il tempo in cui avresti dovuto capire quello che è indispensabile capire.
Quel tempo ora è passato. Che cosa hai fatto, dimmi. Dimmi che cosa hai avuto, quello che hai perduto.
Fai il conto adesso, qui, davanti a me.
Per una volta smetti di mentire. Mentire a chi, poi. Perché.
Io te lo posso dire: non hai saputo crescere. Io soltanto te lo posso dire. Io soltanto ti conosco bene.
Non hai saputo crescere.
Lascia stare, ti prego, lascia stare la gloria, la fama, lascia stare il tuo nome che si spande per il mondo, tutte queste buffonate, lascia stare.
Io soltanto ti conosco bene. Non hai saputo crescere.
Si sta facendo tardi.
Ogni mattina il lampeggiante dei camion dei netturbini mi segna l’ora di uscire.
Mi accompagni tu in ufficio stamattina?
Il mio nome significa anitra Non lo sapevo. Me lo disse una volta Femio, il cantore. Mi disse: è goffa l’anitra quando cammina. Guardala se vola, invece. Guardala volare.
Non ho volato mai. Non è un rimpianto. Sono stata bene così, in fondo. Certo, come si può stare bene quando si è da soli.
Però, sai, alla solitudine dopo un poco ci si abitua. Ti sembra di essere stato sempre solo.
Ora lo sono un po’ di più, è vero.
Telemaco lo vedo sempre più di rado, pochi giorni l’estate, pochi giorni a Natale.
Non saprei dire se ti rassomiglia. Probabilmente no. Spero di no, comunque.
Non volevi partire. Ti pesava lasciare l’isola, la casa. Pensavi di tornare non appena ti sarebbe stato possibile tornare. Poi forse ti sei lasciato stringere da quell’ansia di conoscere che dicono, che io non avevo mai capito, che io non avevo nemmeno intuito.
Sarò stata distratta, sarò stata banale.
Però io ti conosco, ti conoscevo. Per questo adesso penso che anche quest’ansia sia stata una finzione, nonostante non riesca a vedere una ragione, non riesca a trovare una giustificazione.
Io devo andare adesso.
In vent’anni non ho mai fatto un minuto di ritardo.
Credo che non sia rimasto niente più da dire.
I dolori macinano i rimpianti.
Tu di cosa potresti parlarmi, in fondo, ancora. Io di che cosa ti potrei parlare.
Non servirebbe a niente raccontare di come siamo stati, di cosa siamo stati in questo tempo.
Io di te so quel che ho letto sui giornali, e mi basta. Mi è sempre dovuto bastare.
A te basta quello che di me riesci a ricordare, se qualcosa ricordi.
Ti deve bastare.
Ci hai messo un po’ di tempo a trovare questa casa, dici.
Nell’altra non ci potevo più restare. Troppi nodi al cuore. Troppe storie.
I ricordi a volte sono un’ossessione.
Così son venuta a vivere qui. Non è lontano. Però è diverso. Sto meglio.
Non sopportavo gli sguardi pietosi, la consolazione del vicinato.
Mi manca solo tuo padre, sì, Laerte mi manca.
Ha sofferto quanto me, quanto tuo figlio, forse ha sofferto anche di più.
Quando andai a salutarlo non si fece trovare.
Non so se ti ricordi di Eurinone. Un pomeriggio la incontrai per caso in tram.
La prima cosa che mi disse fu che Laerte aveva bruciato il letto che avevi costruito, il giorno dopo che andai via io.
Mi manca più lui di mio padre Icario.
Perfino le assenze hanno un diverso peso.
Se devi ripartire, non andarlo a trovare.
Lasciagli il dolore senza rinnovarlo.
Io devo uscire, adesso
E’ tardi, adesso.
Non ti aspettavo più. Si è messo in mezzo il tempo. Ha fatto tutto il tempo: ha scorticato. Io gli ho consegnato tutta la memoria. Che m’importava, ormai. Che avrei dovuto fare.
Sai dirmelo, ora, tu, che avrei dovuto fare, ora che sei tornato scancellando la serenità della dimenticanza, ora che mi ridai un’immagine, un riflesso di quello che sei stato, che son stata, sai dirmelo ora tu che avrei dovuto fare?
Tu non sai come ho passato i giorni. A volte mi sembrava di vederti all’angolo del bar che dava sulla piazza o su quello scoglio di mare dove andavi a sederti quando dovevi pensare, da solo. Più solo.
Tu hai voluto essere sempre solo. Gli altri intorno a te non erano che un caso. Ti comparivano davanti attraversandoti i pensieri, quei pensieri soliti che avevi dentro gli occhi.
E’ passato tutto. E’ tutto lontano. Riparlare di questo è solo insensato.
Che cosa potremmo dirci.
Potremmo dirci dei compleanni di Telemaco in cui non ci sei stato. Che non conosci sua moglie. Potremmo dirci che non gli hai mai telefonato. Potremmo dirci dei tuoi capelli bianchi, della tintura ai miei.
Poi, che altro?
Potremmo dirci che ti ho aspettato.
Ora però non ti aspettavo più.
Non ti aspettavo più. Eri già perso. Eri sembianza muta, affanno già placato, eri passione sfinita, ormai. Non eri.
Per me non eri più se non un nome. Per me non eri più se non qualcosa che mi restava come segno di morso o scalfittura, o bruciore che si attenua fino poi a passare. Eri la mia stanchezza di aspettare.
Tu per me ormai non eri vivo.
Per vent’anni, ogni giorno, ho scavato intorno al tuo ricordo vuoti fondi, per separarmi da te, per liberarmi, per riuscire a non illudermi mai più.
Ho scavato seppellendoti ogni giorno, non pensandoti mai com’eri stato, ho chiuso gli occhi, ho soffocato il grido, scordando le tue mani, il tuo respiro.
Non ti ho rimpianto. Non ti ho più sentito sprofondare dentro me, cercarmi il cuore.
Tu per me ormai non eri vivo.
Cosa possiamo dirci ancora, ora.
Posso dirti che ho spento le lampade ogni sera, ho tirato le tende, ho chiuso le persiane, mi sono addormentata, mi sono risvegliata, ogni. notte, alle tre di ogni notte, con un dolore nel fianco, e ho aspettato il crescere dell’alba, mi sono guardata allo specchio ogni mattino, alla luce acerba del mattino, e mi sono detta dio mio dio mio, poi ho messo il cuscino all’aria sul davanzale.
Spesso ho pensato che la solitudine aveva la dolcezza che ha un dolore passato, e ho continuato a tessere e a disfare i giorni a uno a uno, legando e sbrogliando il passato e il futuro, nell’afa delle estati, nell’assedio degli inverni, ho pettinato i capelli, ho innaffiato i gerani, ho passato ogni sera la crema alle mani.
Quando Euriclea mi telefonò per dirmi che eri qui io ti pensai come si pensa uno sconosciuto, a volte.
Ti pensai così: come un’ombra di viandante che t’inquieta, ferita che ti sanguina quando è già guarita, pensiero inabissato che riaffiora, ti sale fino agli occhi, si aggruma, ti ossessiona, sbatte alle tue tempie, è sangue che sconquassa, è brace viva nella mente.
Quando Euriclea mi telefonò ti pensai così: come un silenzio senza fondo, nero, come un abbandono, una rovina, come se tu fossi eclissi distanza paura nello scuro delle notti di bambina.
E’ tardi adesso, devo andare.
Cosa potremmo dirci ancora, ora.
Qualche volta ti ho anche sognato.
Nei primi tempi ti ho anche sognato.
All’improvviso una notte ti vidi accanto al mio letto. Sentii il tuo respiro ansioso pesante affannoso.
Stavi lì, non riuscivi a parlare, tremavi, sudavi.
Io ti guardai intorpidita, ti passai tra i capelli le dita.
Chiudesti gli occhi, si quietò un poco il tremore. Ti asciugai il sudore col lenzuolo azzurro di lino. Accarezzai le tue palpebre tenere, le tue braccia di uomo. Scivolò il mio pensiero in non so che confusione. Scivolò quel sonno in un tempo senza confine. Un riflesso di vetri portò la luna ai miei piedi.
Fu ebbrezza e tristezza, vertigine, un assalto del cuore. Fu anima avida e abbandono a un estenuato delirio. Non avevo età dentro il sogno, non avevo storia né nome, non avevo paura, pudore, pensiero del tempo, non avevo parole da dire, avevo solo il silenzio, in silenzio assaporai le tue labbra, abbracciai il tuo corpo di vento.
Guarda l’anitra se vola, invece, guardala volare. Così mi disse Femio.
Io quella notte ho volato: fuori dalla torbida fumea di questa città, al di là del mare, verso il calore, oltre il sentore di morte che da quando eri partito mi sentivo come un grumo nella gola che non riuscivo a vomitare.
Si è fatto tardi, adesso. Io devo andare.
Se vuoi tu puoi restare qui a dormire. Puoi dormire tutta la mattina.
Se vai via prima che io ritorni, lascia le chiavi sotto lo zerbino.

 

Posso dirti che ho spento le lampade ogni sera, ho tirato le tende, ho chiuso le persiane, mi sono addormentata, mi sono risvegliata, ogni notte, alle tre di ogni notte, con un dolore nel fianco, e ho aspettato il crescere dell’alba

   
   
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