Settembre 2003

DAL TEATRO DIALETTALE DI GIUSEPPE PACELLA

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La memoria assediata
Gino Pisanò
 
 

 

 

 

Incalzano le odierne dinamiche di una società
industrializzata
che insidia quel
patrimonio
di valori
trasmesso dai padri nello scenario della campagna
salentina o del borgo antico.

 

Tra gli autori di opere teatrali in vernacolo, attivi, oggi, in provincia di Lecce, merita sicuramente l’attenzione della critica letteraria Giuseppe Pacella.
Nato a Casarano nel 1952, esordisce come attore della Compagnia “La Cittadella” intorno alla metà degli anni Novanta. Nel biennio 1998-‘99 inizia la sua attività creativa scrivendo e firmando il copione di A casa noscia, nonché adattando al teatro dialettale il film Letto a tre piazze di Totò, che, nella versione scenica da lui curata, viene presentato col titolo Tra i ddoi liticanti.
Nel primo caso, trattasi di una pièce incentrata nello spazio domestico di una realtà familiare piccolo-borghese, i cui componenti sbarcano il lunario…alla giornata, “sfruttando” gli scarni proventi del capofamiglia: la moglie non bada a spese, tantomeno i figli. L’unico, con i piedi per terra (si fa per dire), è solo lui: marito e padre parsimonioso e accorto che cerca di supplire con rinunce e sacrifici all’allegra gestione del magro reddito prodotto dal suo lavoro occasionale. Dopo una serie di argute, sorprendenti, paradossali gag, la cui natura esilarante è calibrata intorno alle vicende sempre infauste di un figlio disoccupato e passaguai, il padre si ribella e taglia i rifornimenti ai suoi mantenuti, imponendo un regime di vita tanto austero, quanto grottesco. Si ritorna…alle origini.

Ma a risanare e restaurare tutto ci pensano i nonni, pensionati, fatti convergere nello spazio familiare da un’astuta trovata che, sotto la specie di un falso pietismo larico, mira a sfruttare le loro pur modeste risorse. Alla fine, i poveri vecchi, scoperto l’inganno, preferiscono ritornare alla propria onesta solitudine, lasciando sul lastrico gli scialacquatori dei loro risparmi. E proprio nella soluzione finale riposa il messaggio morale dell’autore, che, opponendo vecchi e giovani, ossia mentalità e costumi propri di generazioni diverse, indica nell’onestà, nel lavoro, nella misura gli unici valori idonei a fronteggiare le difficoltà della vita e capaci di dare ad essa un profondo sostegno di moralità e di fiducia.

Ma l’opera maggiore, di per sé rivelatrice della raggiunta maturità artistica e creativa di Pacella, è senza dubbio il terzo, in ordine cronologico, dei suoi lavori, sempre ispirati da un intento educativo, che va oltre l’aspetto ludico, in grazia di quella costante che è una forte esigenza di moralità: Furneddhi, Zacareddhe e Patarnosci, scritto e rappresentato, per la prima volta, nel 2000 (con la medesima Compagnia) presso la Fondazione “E. Filograna” in Casarano.
E’ una commedia dialettale in tre atti, veramente degna di questo nome. Non si tratta di una farsa, dunque, ma di un’opera in cui il vernacolo, con le sottese trame scenico-drammatiche, assurge alla dimensione di piena dignità letteraria.
Eppure, l’autore non è un letterato di professione, sicché il suo talento creativo trova alimento esclusivamente nella sua grande passione per la drammaturgia, sulla quale si innesta un profondo, viscerale amore per una terra arcaica, larica, archetipica che oggi non c’è più: il Salento dei padri, in cui si assolutizza, fino a farsi categoria etico-antropologica, una visione del mondo non angustamente moralistica, ma ricca di un autentico ordito valoriale.
Da qui la scelta del vernacolo come lingua materna, ma anche come lingua della realtà, espressiva di una lettura veristica di un microcosmo (il paese) nel quale si copulano tradizione e innovazione. Ossia, resistono, da un lato, i segni di una millenaria esperienza antropologica, incalzano, dall’altro, le odierne dinamiche di una società industrializzata e, ormai, “globalizzante” che insidia quel patrimonio di valori, di tradizioni, di canti e di “cunti” trasmesso dai padri nello scenario della campagna salentina o del borgo antico, trapunto di cortili e case a corte, forse destinate all’abbandono o alla rovina.
In questo passe-partout di attualità e di problematica coscienza, si iscrive il messaggio teatrale di Giuseppe Pacella, quindi la sua scelta di ambientare un “dramma di carattere” nel perimetro di un ambiente sociale subalterno, storicamente collocabile negli anni Cinquanta del Novecento, allorché si manifestarono i primi processi evolutivi della società italiana che modificava strutture e linguaggi sotto la spinta imponente del nuovo. Anni “sospesi” fra passato e futuro, momento di incubazione di fermenti novatori accanto a radicati e secolari modelli di vita. Periodo di transizione, nel quale trascolorava il vecchio mondo (con il suo carico di gioie e dolori) a beneficio del nuovo che si annunziava foriero di benessere, perfino di ricchezza, ma che occultava sotto la sua maschera il volto demolitore di tradizioni e valori propri di una civiltà georgica, rurale, medesima, per secoli, nei tratti iconici del paesaggio, del costume, del sacro.
Furneddhi, zacareddhe e patarnosci assurgono, qui, a segni di una tradizione folclorica che oggi non c’è più, ignorata dai giovani, insospettata dai giovanissimi ai quali la terra dei padri si presenta ormai nelle forme omologate e mistificanti di un vivere sociale che ha perso i suoi connotati storici più autentici e radicali, alimentando, in loro, la perdita della memoria collettiva e sradicandoli da quella cultura millenaria che pure li ha prodotti. In questo mondo, spesso miope, se non cieco, abbagliato dai miti della tecnologia e del futuro, il dramma di Pacella trova una sua dimensione educativa e una sua giustificazione storica. L’autore, che di quel vecchio mondo terragno e feudale ha conosciuto da bambino le fasi del definitivo crepuscolo, oggi lo rivisita con contenuta e segreta (dietro le quinte neoveristiche) adesione sentimentale, riscoprendolo e riproponendolo come ultima traccia di radici antichissime e di umane, dolorose misure esistenziali.

La trama: una famiglia contadina, costituita da numerosa prole, vive una vita grama, ma dignitosa, nell’aspro lavoro dei campi. Questa situazione, che si tramanda per generazioni, da padre in figlio, sempre coloni di un facoltoso proprietario terriero, viene, un brutto giorno, infranta dalla volontà del padrone di alienare il terreno sul quale lavora l’intera famiglia, fatta eccezione per uno dei suoi figli, emigrato in Belgio per cercare migliore fortuna.
Fin dalle prime battute dell’ambientazione scenica, si possono intravedere i connotati della società ancora rurale del basso Salento negli anni Cinquanta: la sopravvivenza dell’istituto della colonia nel quadro di strutture latifondiste, la progressiva disgregazione di queste ultime a beneficio di una riconversione finanziaria del capitale in un clima politico (la democrazia) meno favorevole alla tutela di antichi privilegi e attraversato dalle prime lotte sindacali sorte sulle macerie dell’antico regime, l’ancora intatto mondo larico (la famiglia) della civiltà contadina, nella quale unica ricchezza erano le braccia che producevano lavoro, infine il fenomeno dell’emigrazione, che rappresentò la foce di flussi intensi verso il nord e l’Europa come reazione a una secolare condizione di servaggio.
Su questo sfondo irrompe il nuovo con i primi segni di una metamorfosi epocale che determina il modificarsi di mentalità e strutture: il figlio emigrato ritorna dal Belgio insieme con la fidanzata transalpina, quasi a significare l’avvio di modificazioni antropologiche, ossia il passaggio da una società chiusa mononucleare (furneddhi) ad un’altra aperta multietnica come quella odierna. Così l’oscura, insana trama di passioni che lega la figlia del colono al “fattore” simboleggia il primo sgretolarsi della morale dei padri in una logica di istinti fusi con vaghe aspirazioni di emancipazione femminile.
Accanto a tutto ciò, l’antico, ossia il sopravvivere di una forte coscienza solidaristica che unisce e conforta gli umili, il materializzarsi di essa coscienza nella piccola comunità della vita rurale aggregata intorno al sacro (il rosario), la fraterna comunanza di animali, uomini e cose, la forte corda di moralità che è retaggio dell’esperienza dei padri, il sentimento religioso come sostegno a una vita di sacrifici cui solo il soprannaturale poteva recare soccorso, i giochi umili e ingenui sull’aia, “colorati” dalle zacareddhe iridate (delle quali i fanciulli di oggi non hanno memoria), il senso di una vita votata al duro lavoro dei campi per chissà quale destino di espiazione, lo scenario rude e aprico della campagna salentina non ancora devastata dal cemento, il focolare domestico baricentro di gioie e dolori. Il lieto fine riscatta un’accolta di umili che trovano nel lavoro, nell’adesione agli antichi valori, le ragioni della propria dignità e della speranza.
Ultimo dramma, in ordine di tempo, Cci ssi strong papà (2001) nel cui titolo è già evidente un calembour (strong = forte, risulta assonanzato con un ben noto, ma taciuto lemma del turpiloquio triviale) che la dice lunga circa il tessuto di sketch e di gag interno all’intreccio.
Anche qui Pacella ripropone il confronto generazionale sotteso alla dialettica passato-presente, iconizzata da padri e figli, questi ultimi plagiati dal mistificante e illusorio mondo massmediatico.
Ma, soprattutto, egli è il cantore del Salento operoso, epperò sfortunato, delle classi subalterne: in Furneddhi i contadini lottano contro l’esproprio della dignità e del lavoro dovuto alla crisi della società georgica riflessa nella crisi del latifondo e della colonìa. Qui, a distanza di cinquant’anni, medesima cornice scenica: gli operai cassintegrati vivono sulla loro pelle la débâcle del settore industriale (nello specifico, il calzaturiero), sicché Pacella ripropone, con la stessa drammaticità, (sia pure risolta e alleggerita dalla vena umoristica) il problema della sicurezza, della stabilità economica il cui venir meno fa ricadere in una medesima (il riferimento è a Furneddhi) situazione di disagio sociale ed esistenziale quanti, attraverso un pur duro lavoro, ne hanno tratto sostentamento e argomento di dignità e di agiatezza. La crisi dell’economia agricola negli anni Cinquanta è speculare, dunque, a quella dell’industria sul finire degli anni Novanta. Questa la lettura in chiave sociologica dei drammi di Pacella. Ma, anche, la forza del suo messaggio ideologico e morale, sempre risolto in chiave ilarotragica, scoppiettante di verve plautina, sotto la cui coltre, tuttavia, vibra un “teatro di denuncia” che ripropone con intelligenza e con metaforico impianto l’annosa questione meridionale organica alla vicenda del Mezzogiorno e al verghiano mondo dei deboli, vinti pur sempre dalle forze egemoni e spietate dell’economia, della storia e, soprattutto, dell’umano egoismo.

   
   
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