La differenza tra
Occidente e Islam non è alimentata
da destini opposti,
bensì da un semplice rapporto tra
un’egemonia
tecnologica
schiacciante
e un’umiliazione
assoluta.
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Avviare una riflessione sui rapporti tra Islam e Occidente porta
a navigare tra l’islamofobia dei partiti ultraconservatori
e dei movimenti populisti, da una parte, e le diverse tendenze del
fondamentalismo religioso islamico, dall’altra. Inoltre, si
tratta di evitare le tendenze alla demonizzazione espressa dagli
uni e le velleità di angelizzazione degli altri. Ma in primo
luogo mi sembra molto importante riconoscere che il problema esiste.

E'stata rimproverata a Huntington la sua formula sullo scontro
delle civiltà, che indigna o fa paura. Ma, come ricorda H.
Vedrine, «gli elementi dello scontro sono all’opera
dall’una e dall'altra parte. Attualmente il cocktail dei rancori,
delle incomprensioni reciproche e delle reciproche paure rimane
esplosivo. Mentre si delinea il ritorno all’ingerenza con
le sue conseguenze imprevedibili, noi occidentali non amiamo ricordare
quei secoli in cui l’ingerenza occidentale è stata
la regola e la non-ingerenza l’eccezione. Fra noi il rimorso
coloniale e terzomondista è stato tenuto a distanza dall’amnesia
e dalla buona coscienza. Ma i musulmani non hanno dimenticato. Si
può tentare di rassicurarsi osservando come coloro che, in
Islam come in Occidente, cercano di venire alle mani sono ultraminoritari
e come il ricorso alla violenza sia condannato ovunque. Ma trovano
nel loro mondo un’eco».
Oggi l’Islam e l’Occidente sono spesso collocati in
posizione antinomica, come se si trattasse di due “nemici
irriducibili”. Va precisato che si tratta di una religione
di cui Maometto era al tempo stesso un leader spirituale e un leader
politico. Un Islam confrontato ad uno spazio culturale costituito
dall’Europa e dagli Usa, in cui in maniera variabile ma definitiva
si è imposta l’idea della separazione tra potere spirituale
e temporale.

L’11 settembre 2001 ha fatto precipitare il XXI secolo nel
terrore. Nulla è più “come prima”. L’evento
è importante anzitutto per la condanna senza ambiguità
che ha suscitato. L’imputazione di questo atto terroristico
a un gruppo che agisce in nome dell’Islam è stata la
manifestazione estrema di un proselitismo integralista iniziato
più o meno vent’anni fa. Scopo dei mandanti dell’attentato
era senza alcun dubbio quello di provocare lo scontro tra le religioni
e le culture. Essi hanno puntato sull’irritazione e sull’inquietudine
dell’Occidente di fronte ad una forma deviata dell’Islam,
la cui pretesa, chiaramente ostentata, è di invadere il campo
del temporale e di estendere il suo potere nella conduzione degli
Stati. Ma la reazione unanime della comunità internazionale
ha dimostrato che le loro azioni hanno avuto l’effetto contrario.
Noi abbiamo serrato i ranghi. Abbiamo respinto qualsiasi confusione
tra il terrorismo e qualsivoglia cultura o religione. Occorre peraltro
rallegrarsi del fatto che molti Paesi arabi si siano uniti alla
coalizione contro il terrorismo. Ciò ha evitato di consacrare
un malinteso che sarebbe stato assai pericoloso.

E’ vero che il Corano contiene disposizioni legali sacre
raggruppate sotto l’appellativo di “shari’a”
che, almeno secondo gli islamici radicali, non possono per principio
essere abrogate, e nemmeno emendate, da un’iniziativa umana,
né possono essere interpretate alla luce di un evoluzionismo
naturale che ha reinquadrato nel corso del tempo in linea generale
tutti i campi attinenti all’umano. A questa specificità
religiosa si aggiunge una configurazione socio-economica nuova:
da un lato, si estende dagli Usa alla Russia un mondo giudaico-cristiano-umanista
detentore dell’alta tecnologia. “Per contro”,
un miliardo di musulmani, molto ricchi e molto poveri, vivono ai
margini di questa opulenza scientifica e tecnologica. In larga parte,
essi ripiegano su una logica di esasperazione religiosa con intenti
dogmatici.
Dobbiamo ricordare che la “differenza” attuale tra l’Occidente
e l’Islam non è alimentata da destini necessariamente
opposti, bensì da un semplice rapporto tra un’egemonia
tecnologica schiacciante e un’umiliazione assoluta. Di conseguenza,
alcuni elementi dell’Islam si rifugiano in una religiosità
“immobile” o fatale, come se la certezza della rivelazione
e della protezione divina bastasse a garantire il destino dei popoli.
Poiché non è così, l’amarezza alimenta
la rivolta e l’eccesso. Questa “differenza” di
oggi fra Occidente e Islam non è alimentata da incompatibilità
originali fondamentali, ma dallo sfruttamento della frustrazione
di milioni di persone, ostaggio di alcuni individui perversi, folli
e calcolatori.
La questione dello spazio dell’Islam e dei musulmani nello
spazio europeo chiama in causa la Comunità europea. Per un
certo numero di musulmani che vivono in Europa l’Islam è
una “realtà globale” che rifiuta di separare
la sfera temporale da quella spirituale, lo spazio pubblico da quello
privato. Questo Islam privilegia la vita in una comunità
chiusa, conservatrice e diffidente nei confronti della modernità.
Per un’altra parte dei musulmani europei, Islam e laicità
appaiono come antinomici.
Siamo inoltre colpiti dalla straordinaria evoluzione dell’Islam
nell’ultimo ventennio. Le giovani generazioni e i neoconvertiti,
lungi dall’aspirare ad un Islam moderno, liberale e umanista,
tendono a ripiegare su un Islam chiuso in se stesso. L’esclusione
economica, un sentimento di paura e di mancanza di prospettive,
alimentano una sorta di fuga in avanti suicida, il cui fatalismo
aggressivo serve da giustificazione e da valvola di sfogo. In un’Europa
in cui le religioni monoteiste sono riuscite ad effettuare in maniera
accettabile un loro “aggiornamento” dove credenti e
non credenti possono convivere in uno spirito di reciproco rispetto,
l’esistenza di comunità islamiche sempre più
numerose che rivendicano il diritto di vivere secondo la shari’a
è inquietante.
Molti aspetti della shari’a, le cui norme giuridiche regolano
la vita delle persone, sono di fatto incompatibili con i “diritti
della persona umana”. Diritti che costituiscono la base dei
valori fondamentali del progetto politico e culturale europeo. Lo
sviluppo dell’Islam sul suolo non è stato uniforme.
I primi immigrati sono giunti in Europa negli anni Sessanta e hanno
vissuto discretamente ai margini della società senza che
l’Islam, poco esibito, costituisse un problema.
Con l'arrivo in massa delle mogli e dei figli di questi immigrati,
si è posto negli anni Ottanta il problema della trasmissione
dell’eredità culturale e religiosa. Sono apparsi a
questo punto predicatori, venuti spesso da fuori e non dall’immigrazione
stessa, i quali hanno esercitato una considerevole influenza, nel
senso di un ritorno al modello di vita descritto come ideale. Questi
predicatori hanno portato l’Islam europeo, inizialmente discreto,
a convergere parzialmente nel radicalismo militante. Sottolineo
peraltro che l’Islam europeo è anche, in parte, un
Islam laico, come la maggior parte dei turchi originari della repubblica
di Kemal.

Credo che una proporzione importante (la maggioranza silenziosa!)
dei musulmani europei di oggi, senza negare la propria identità
culturale, non si riconosca nel radicalismo militante. Si accontenta
di vivere la propria fede nell’intimità, rispettando
sia gli altri credenti sia i non credenti. E’ fra loro che
vediamo emergere dei pensatori musulmani risolutamente orientati
verso una rilettura moderna del messaggio coranico. Questi pensatori
trovano eco nell’interrogativo dell’imam Tantoui, rettore
dell’Università al-Azhar in Egitto, una delle più
grandi università coraniche del mondo, il quale si chiede:
«Come può il Corano, rivelato nel VII secolo, risolvere
i problemi di una società all’alba del XXI secolo?».
E’ questa maggioranza silenziosa che fa sentire la propria
voce attraverso la campagna di riforme a favore dell’emancipazione
delle donne, una campagna nella quale si sono impegnati il re del
Marocco e la regina della Giordania.
Il fatto è che ai giorni nostri, da questo punto di vista,
lo spazio pubblico europeo resta quasi esclusivamente occupato da
una minoranza islamica attiva, divenuta quasi la sola interlocutrice
del mondo politico negli Stati membri. E’ questa minoranza
che le autorità interrogano su tutto ciò che concerne
l’Islam. E’ questa che consultano al minimo incidente
nelle periferie o fra le comunità religiose. E’ ancora
questa che tenta di controllare tutti gli aspetti della religione
musulmana, dalla nomina degli imam delle moschee fino ai programmi
di educazione religiosa nelle scuole pubbliche. Io posso capire
il ruolo di questi interlocutori, ma è necessario che i dirigenti
politici allarghino la concertazione ai cittadini e all’intera
comunità. La questione è, dal mio punto di vista,
fondamentale. I “mandatari” possono essere senz’altro
utili, ma non possono pretendere di rappresentare tutti su qualsiasi
problema. Si può sperare di vedere emergere un Islam europeo,
liberale e umanista? O, al contrario, bisogna abbandonare il terreno
ai radicalismi religiosi, in nome del diritto alla differenza o
della neutralità dello Stato in materia di libertà
religiosa? Sono queste le domande alle quali deve rispondere la
nostra laicità europea. L’Europa non è stata
unificata intorno a un concetto univoco dei rapporti tra la religione
e lo Stato: la Francia vuole la separazione; altri Paesi, come la
Germania, auspicano una collaborazione; la Chiesa d’Inghilterra
vede infine la regina alla propria testa. Queste diverse forme di
articolazione tra le Chiese e lo Stato nei vari Paesi europei possono
oggi convergere tuttavia su un principio comune: in materia religiosa
lo Stato è neutrale e non privilegia né combatte alcuna
concezione della vita.
Quale politica europea nei confronti dell’Islam? Una politica
europea responsabile deve sostenere gli Stati islamici moderati.
Il sorgere di un Islam rispettoso dei valori moderni dello Stato
costituisce la risposta più adeguata al fanatismo religioso
o alla cieca condanna dell’altro, dello “straniero”.
E’ la nascita e il permanere di un Islam in presa diretta
con il mondo moderno che io auspico con tutte le mie forze. Quando
si parla di Europa e di Islam, si apre la porta a un grande dibattito:
si deve ammettere la Turchia nell’Unione? La Turchia costituisce
– bisogna riconoscerlo – un caso particolare nella prospettiva
dell’allargamento: per alcuni è una sorta di “frontiera
naturale” dell’Europa. Alcuni osservatori politici ritengono
che le differenze culturali fondamentali tra la civiltà giudaico-cristiano-umanistica
e i valori islamici, per quanto rispettabili siano, rendono impossibile
l’ingresso di Ankara nell’Unione. Da parte mia, penso
che la Turchia sia da tempo rivolta verso l’Europa: fin dall’inizio
del XX secolo ha fatto la scelta di uno Stato laico e di un’apertura
ai valori europei.
A quanti tendono a parlare di un’alterità radicale
dell’Islam in rapporto alla “nostra Europa” per
rifiutare l’adesione della Turchia, si può replicare
che la loro argomentazione è quanto meno storicamente errata.
E non c’è bisogno di evocare per questo la trasmissione
all’oscuro Medio Evo europeo della prestigiosa cultura greca,
ma anche della medicina, dell’algebra, dell’astronomia...
tramite i sapienti arabi.
Nel contesto mondiale, l’integralismo musulmano è divenuto
dall’11 settembre il demone che rimpiazza l’Urss. Ma
occorre sottolineare che la demonizzazione non è mai stata
buona consigliera e porta a minare le regole del diritto internazionale
e a invalidare qualsiasi istanza sovrannazionale di regolazione
dei conflitti. Tutt’altro è l’orientamento seguito
dalle Nazioni Unite, che hanno fatto del dialogo tra civiltà
il tema della loro azione. La dimensione che questa scelta ha assunto
dopo l’11 settembre 2001 ci ha fornito l’occasione per
interrogarci. Siamo sempre rimasti fedeli alla nostra cultura e
ai valori che la sostengono? La nostra cultura occidentale è
stata vissuta come aggressiva e dominante, allorché la maggior
parte dell’umanità la osserva e la fiancheggia senza
avervi accesso?

Il principio direttivo di questo dialogo tra civiltà presuppone
innanzitutto un ritorno su se stessi. Gli altri due princìpi
su cui si fonda questo dialogo sono: il diritto alla differenza
e all’identità culturale, e la pari dignità
di tutte le culture. E’ in questa prospettiva che l’Unione
europea concepisce il dialogo tra civiltà. Ed è in
questa prospettiva che gli Stati membri hanno deciso di unirsi mezzo
secolo fa in Sei, per diventare tra poco Venticinque.
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