Come, una volta,
la superiore
civiltà, così la
democrazia sembra oggi diventare un prodotto per la cui esportazione
si può invadere un qualunque Paese.
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Se, per quanto riguarda le istituzioni interne, il 2004 dovrà
fare i conti con una serie di riforme strutturali e costituzionali
che dovranno bene o male rimettere il nostro Paese al passo con
i tempi e soprattutto con l’Unione europea, a livello internazionale
si dovrà intervenire con lucidità per correggere una
serie di devianze a causa delle quali sono stati stravolti comportamenti,
relazioni e istituzioni che attenevano allo sviluppo della democrazia
e al rispetto dei diritti umani.
Qualche tempo fa, la regina del Regno Unito inventò l’espressione
“annus horribilis” per deplorare i comportamenti di
alcuni membri della propria famiglia, in particolare di qualcuna
delle proprie nuore. Il 2003 è stato “horribilis”
non per le vicende e i gossip che all’epoca scossero la casa
regnante britannica, ma perché i Paesi più prosperi
e potenti hanno fatto del loro meglio per sconquassare gli istituti
sui quali si era contato di più per edificare la pace e la
cooperazione internazionale, dopo due terribili guerre. Non si era
mai verificato che ciò avvenisse ad opera di governi democraticamente
eletti.

Fatti salienti del 2003: rottura dell’Onu, a New York, sulla
questione dell’intervento in Iraq, per abbattere il regime
di Saddam Hussein; rottura, a Cancun, dei negoziati sulla riforma
del commercio internazionale; rottura, a Bruxelles, della conferenza
sulla Costituzione europea, dopo serrati e tutt’altro che
mediocri confronti e dibattiti sui princìpi e sui contenuti
della nostra futura Magna Charta; lacerazioni dei diversi e per
tanti aspetti inconciliabili piani di pace per lo scacchiere mediorientale;
continue violazioni della Convenzione di Ginevra sui prigionieri
di guerra (in Afghanistan, in Iraq, a Guantanamo, in Indonesia,
ecc.) e dei diritti umani (a Cuba, in Cina, in Corea del Nord, in
Turchia, in Iran, ecc.). E poco prima: abbandono del trattato di
non proliferazione nucleare; revoca della firma posta al protocollo
di Kyoto sull’effetto serra.
La sopravvivenza della vita sul nostro pianeta, il rigoroso controllo
di armi capaci di distruggere il mondo, la convivenza e l’incontro
tra religioni e culture, l’esportazione di prodotti della
terra e del lavoro umano per lenire la povertà estrema, il
rispetto della dignità del nemico in guerra, la disponibilità
di farmaci a basso costo per debellare o limitare le stragi prodotte
da gravi malattie soprattutto nei Paesi dei cosiddetti Terzo e Quarto
Mondo, la ricerca di una forma politica per il Vecchio Continente
non sono lussi riservati a chi abbia soddisfatto i bisogni domestici.
Sono, per quasi ogni uomo sulla Terra, condizione vitale di sicurezza
e di giustizia, oltre che fonte primaria della speranza o dell’angoscia.
Nel 1914 fu sufficiente una settimana dal 28 luglio al 4 agosto
– perché all’attentato di un terrorista seguissero
una guerra e una “inutile strage” che durarono ben cinque
anni, annientarono otto milioni di soldati e produssero in seguito
dittature, nuove guerre e nuovi stermini, ancora di maggiore portata.
Il 2003 non ha colto di sorpresa chi sapeva da tempo quanto fosse
esile l’edificio che era stato eretto subito dopo il 1945;
è soltanto accaduto ciò che da anni si temeva e che
da altrettanti anni si ammoniva ad evitare. Ma quel che maggiormente
inquieta, e sembra preludere a rovesci più gravi, è
l’ottusa soddisfazione con cui i fatti avvenuti sono stati
salutati da alcuni dei potenti che li hanno causati; e inquieta
l’elogio di intellettuali e osservatori che, in nome del realismo,
vi hanno visto la meritata sconfitta di chi aveva creduto e tuttora
crede possibile un mondo di pace.
Preoccupa, soprattutto, il rapporto tra quanto sta accadendo e
l’istituto della democrazia. Come, una volta, la vera religione
o la superiore civiltà, così la democrazia sembra
oggi diventare un prodotto per la cui esportazione si può
invadere un qualunque Paese; sembra autorizzare la pratica ad annettere
territori conquistati in una “guerra difensiva”. Non
solo fatica a impedire questi sviluppi, ma è addirittura
invocata per legittimarli e per negarne la nefandezza. Accade oggi
in Iraq, Paese lontanissimo dagli Stati Uniti, ma era accaduto ieri
col Vietnam invasore di Stati confinanti; e con giustificazioni
diverse accade ancora in aree “di disturbo” –
come sono eufemisticamente definite le zone di scontro pressoché
permanente – negli scacchieri strategici (ad esempio, il Kashmir
o la Cecenia) o in quelli con forti connotazioni religiose (Indonesia,
ecc.) o tribali (Stati africani, in particolare).
Chiusa nel recinto troppo angusto dei singoli Stati, la democrazia
sembra ergersi a fredda ragione per rifiutare la cooperazione e
le istituzioni internazionali. Nata come antidoto all’utopia
di un governo fattore del “bene supremo”, e perciò
assolutista e oppressore, rischia attualmente di divenire essa stessa
utopia, assolutismo, oppressione. Cittadini di Paesi democratici,
europei, americani, mediorientali, asiatici, si chiedono con qualche
perplessità e con una certa dose di sgomento dove potrà
condurre la deriva in corso. Essi devono sapere che la speranza
in un futuro migliore è affidata, certamente, a chi li governa,
ma anche alla loro capacità di tradurre in azione politica
la loro coscienza di essere cittadini del mondo. A loro è
affidato, in ultima istanza, il compito di far cessare la demolizione,
di riprendere la costruzione, di consolidare la democrazia. Tre
condizioni, queste, dalle quali dipenderà il futuro nostro
e dei nostri figli.
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