Il cattivo odore dell’ancien régime
ristagna ancora
in molte zone del nostro continente: molti becchini si danno invano
da fare senza riuscire a sbarazzarsi delle spoglie.
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Confondere la civiltà europea con la civiltà universale,
è una tentazione ben nota in Europa. Dare ad una realtà
concreta e contingente un significato quasi assoluto è un
errore comune. Sarebbe più utile in quest’occasione
discutere delle aspettative e delle attese di una parte dell’Europa
nei confronti dell’altra. Occorre, forse, innanzi tutto definire
o chiarire alcuni concetti e termini.
Europa dell’Est è stata una designazione più
politica e ideologica che geografica e culturale, imposta dalla
Seconda guerra mondiale e dalla Guerra Fredda. Questo nome è
diventato desueto, viene sostituito da un altro, altrettanto impreciso:
Europa centrale e orientale. L’Europa centrale comprende anche
Paesi che – come l’Austria o la Svizzera – non
sono stati assoggettati dai regimi “comunisti” dell'Est.

L'Altra Europa è anch’essa una nozione mal definita,
forse di proposito. Che cos’è altro in questa parte
dell’Europa e che cos’è europeo in questa alterità?
Nessuno ha risposto a questa domanda, non so nemmeno se sia mai
stata formulata. L’Europa nel suo insieme non è più
ciò che era una volta. Anche quello che chiamavamo il Terzo
Mondo è cambiato e alcuni parlano già di un Quarto
Mondo.
Una parte dell’Altra Europa dei giorni nostri fa apparentemente
parte del Terzo Mondo: resti dell’impero sovietico, vestigia
dell’antica Russia, della Bielorussia o dell’Ucraina,
gran parte della ex Jugoslavia disgregata, i confini dei Balcani,
della Bulgaria, dell’Albania o della Romania, fors’anche
della Grecia o della Turchia. Dopo un rivolgimento tanto violento
quanto inatteso, le nozioni di Europa occidentale e orientale sembrano
finalmente corrispondere ai punti cardinali. Ci si potrebbe rallegrare
di questo buon uso delle parole se le cose in sé si presentassero
diversamente.
Se l’Altra Europa è una denominazione ambigua, la realtà
cui si riferisce non lo è di meno. Oggi questa realtà
la possiamo scorgere come è o come dovrebbe essere. La retorica
si adatta a queste ambivalenze. La politica ne trae vantaggio. La
retorica politica ne abusa.
Si tratta di pensare l'Europa prendendo in considerazione i valori
della cultura e della civiltà che la caratterizzano. Evitare
di adottare solo i progetti particolari, che talvolta nascondono
piatti interessi politico-economici. Questo sembra essere di massima
urgenza nel momento in cui l’Europa stessa crea la sua definizione
e prepara, non senza difficoltà, una Convenzione sul futuro
dell’Europa, specie di Costituzione per i suoi membri (o un
Trattato di costituzione, come è stato detto in queste ultime
settimane). L’allargamento dell’Unione europea conferisce
ad un tal compito una straordinaria rilevanza.

Ogni tentativo simile esordisce o si conclude con una domanda ad
un tempo banale e imprescindibile: «Quale Europa?».
L’abbiamo sentita, tante volte, in diversi contesti, dall’Europa
del carbone e dell’acciaio fino a quella di Maastricht e dell’euro.
Forse è utile rievocare alcuni termini in cui quella domanda
era posta e salvare dall’oblio alcune idee dei nostri predecessori.
Alcune di esse hanno conservato tutta la loro attualità.
«L’Europa sarà seria o non sarà... Sarà
più scientifica che letteraria, più intellettuale
che artistica. Per molti di noi questa lezione sarà crudele».
Così ci ammoniva Julien Benda nel suo Discorso alla nazione
europea, scritto alla vigilia di una guerra che sarebbe stata europea
prima di diventare mondiale. Potremmo modificare alcuni accenti
di tali messe in guardia o apportarvi, nello stesso spirito, qualche
aggiunta.
Sarebbe auspicabile che l’Europa odierna fosse meno eurocentrica
di quella del passato, più aperta al cosiddetto Terzo Mondo
dell’Europa colonialista, meno egoista dell’«Europa
delle nazioni», più Europa dei cittadini e meno Europa
degli Stati che si sono fatti tante guerre fra loro. Un’Europa
più consapevole di se stessa e meno soggetta all’americanizzazione.
Sarebbe utopistico aspettarsi che diventasse, in un futuro prevedibile,
più culturale che commerciale, più cosmopolita che
comunitaria, più comprensiva che arrogante, più accogliente
che orgogliosa e, in fin dei conti, perché no, più
socialista dal volto umano (nel senso che i dissidenti dell’ex
Europa dell’Est, per esempio un Sameno capitalista senza volto.
L'Europa dei valori non permetterebbe che si chiedesse, per entrare
nell’Unione europea, di passare per la Nato: è un tipo
di purgatorio che avrebbe rifiutato.

E' legittimo chiedere quale sarebbe l’altra Europa che si
trova di fronte a queste alternative. Nella maggior parte dei cosiddetti
“Paesi dell’Est”, il post-comunismo non è
ancora riuscito a “raggiungere” i regimi che si dicevano
comunisti (come livello di vita e di produzione, scambi economici,
sicurezza sociale, regime pensionistico, eccetera). Per citare solo
un esempio: la Slovenia, uno dei nuovi Stati meglio partiti, con
uno statista illuminato a capo, ha impiegato quasi otto anni per
raggiungere la stessa Slovenia – la sua produttività
dell’inizio degli anni Novanta. Questa considerazione non
ha lo scopo di riabilitare le pratiche ben conosciute di un socialismo
che si è autoproclamato “reale”. Le transizioni
di questi Paesi durano molto più a lungo del previsto. Riescono
soltanto eccezionalmente a diventare vere trasformazioni (occorre
distinguere meglio queste due nozioni: la transizione è basata
su ipotesi, la trasformazione è un risultato).
Il cattivo odore dell’ancien régime ristagna ancora
in molte zone del nostro continente e fuori di esso. Si tratta di
una realtà che sembra già compiuta pur senza concludersi
o raggiungere una forma accettabile. E’ una situazione difficile
da sopportare e dalla quale non ci si riesce ad affrancare. Molti
becchini si danno invano da fare, senza riuscire a sbarazzarsi delle
spoglie. E’ un ruolo tutt’altro che gradevole.
Più di un regime proclama in modo ostentato la democrazia
senza pervenire a fornire un’apparenza appena credibile: tra
passato e presente si determina uno iato, tra presente e avvenire
si svolge l’ibrido incontro tra un auspicio di emancipazione
e un residuo di assoggettamento. Da più di otto anni, io
chiamo questo non-luogo ambiguo con il nome di “democratura”.
Vi si fanno spartizioni senza che rimanga granché da spartire.
Si è creduto di conquistare il presente e non si riesce nemmeno
ad avere ragione del passato. Vi nascono certe libertà senza
che si sappia sempre cosa farne, rischiando di abusarne. In questi
Paesi è stato necessario difendere un patrimonio nazionale
– e oggi bisogna, in molti casi, difendersi da quello stesso
patrimonio. Altrettanto di asi per la memoria: si doveva salvaguardarla
– ed essa sembra adesso voler punire quelli stessi che l’avevano
salvata.

So bene che non si possono generalizzare queste constatazioni un
po’ forzate: ciò che vale per l’Albania, o per
certe componenti dell’ex Jugoslavia, non può essere
applicato allo stesso titolo per la Bulgaria, la Romania o la Russia.
La situazione bulgara, rumena o russa non è comparabile con
quella dell’Ungheria, della Polonia o, soprattutto, con quella
della Repubblica Ceca o della Slovenia. Il ritorno al passato è
soltanto una chimera, il ritorno del passato è una vera tragedia.
Riprendere le forme più primitive del capitalismo selvaggio
– che lo stesso capitalismo contemporaneo ha abbandonato –
non può sostenere nessun tipo di ricostruzione né
incoraggiare rinnovamenti. L’idolatria dell’“economia
del mercato” dà scarsi risultati laddove manca lo stesso
mercato e qualche volta, fatalmente, la mercanzia! I risultati della
democrazia borghese, che quelle “democrature” cercano
di fare propri, non possiedono, nemmeno essi, valori universali.
I riformatori trascurano questo fatto, le loro conoscenze in materia
sono limitate.

C'è dunque da stupirsi se qualche volta i nostri discorsi
sono così disperati? Probabilmente sono più disillusi
che disperati.
La Mitteleuropa è per sicuro uno spazio più sereno.
Vi rimangono comunque le tracce e le cicatrici della storia moderna:
i postumi della Guerra Fredda, l’incertezza del post-comunismo,
le identità incompiute e l’irritabilità delle
coscienze nazionali, il timore di una nuova egemonia esercitata
dai vicini unita a un sentimento di impotenza, la natura degli Stati
che si sono appena formati e delle ideologie che riaffermano, i
conflitti nazionali o etnici che hanno infuocato i Balcani e che
rischiano di estendersi: tutti questi fattori sono doppiamente legati
al passato e al presente. Non bisogna stupirsi se a volte l’Europa
centrale si abbandona ai ricordi malinconici, lottando con difficoltà
contro il provincialismo che la minaccia, mal preparata a dare un
nuovo splendore alle tradizioni di un tempo.
Da un lato l’Europa centrale non si lascia circoscrivere in
una rappresentazione di se stessa. Dall’altro, una presa di
coscienza della sua particolarità non si può fare
se non all’interno dei suoi confini. Alcune sue componenti
sono sentite più come “scorie della storia” che
come “soggetti storici”. L’auto-identificazione
centro-europea appartiene, in gran parte, alla sfera della memoria.
Un riesame del passato risulta difficile.
Occupata dai propri problemi organizzativi e dal suo allargamento
verso l’Altra Europa, l’Unione europea non dovrebbe
dimenticare che il Mediterraneo è la culla della nostra civiltà.
Purtroppo, questo mare assomiglia sempre di più ad una frontiera
che si estende da Levante a Ponente per separare l’Europa
non solo dall’Africa e dall’Asia Minore, ma anche dalle
sue sponde meridionali.
C’è forse un interesse economico prevalente nei rapporti
con i Paesi europei più sviluppati, finora esclusi dallo
scambio, ma esistono ragioni profonde storiche, culturali e tante
altre per non lasciare il Mediterraneo ad un destino che non merita.
Pur sapendo che la Russia odierna c’entra poco negli affari
della zona Alpe-Adria, aggiungerei qualche accenno che riguarda
questo Paese da cui proviene la mia famiglia paterna.
La sorte dell’Est europeo non dipende più, come prima,
dall’ex Unione Sovietica. Tuttavia, sono molti coloro che
non smettono di interrogarsi sull’avvenire del nuovo Stato
russo e sull’influenza che potrà esercitare.
Come sarà, in realtà, la Russia di domani? Tradizionale
e conservatrice come un tempo, oppure moderna e liberale? “Santa”
o profana, ortodossa o scismatica? Più “bianca”
che “rossa” o viceversa? Meno slavofila che occidentalista?
Europea e asiatica? Più collettivista che “populista”?
Mistica e messianica a modo suo, oppure laica e secolarizzata?
Una Russia che «non si può comprendere con l’intelletto»
e nella quale «si può soltanto credere» (come
diceva il poeta Tjutcev nel XIX secolo) o la Russia «dura»
e «dal grande culo» (tolstozadaja) cantata da Aleksandr
Blok? Con Cristo o “senza croce”? Una vera democrazia
o una semplice “democratura”? Solo russa (russkaia)
oppure “di tutte le Russie” (rossiskaia)? Quale che
debba essere, dovrà comunque tener conto sia di quel che
rimane dopo l’Unione Sovietica sia di ciò che in essa
ha forse irrimediabilmente perduto.

Sarebbe presuntuoso, e forse arrogante, concludere quest’intervento.
Questo compito spetta alla Storia.
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