Dopo le memorie amare dei Paesi mitteleuropei,
Bruxelles, per le
nazioni che stanno per approdarvi,
rappresenta un grande traguardo, una conquista.
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Chi pensa che farà più soldi. Chi vuole dimenticare
il comunismo. Chi vede la TV e sogna l’Occidente. Sono i tanti
volti dell’Europa che verrà. Il primo maggio 2004 segna
la fine di un’epoca. L’Unione apre le porte a dieci
nuovi inquilini. Tutti Paesi con storie, cultura e tradizioni assai
diverse dagli attuali membri dell’Ue, che in un modo o nell’altro
sono stati legati al blocco sovietico, quindi nemici dell’Europa
filo-atlantica. Ma ora, a distanza di quindici anni dal crollo del
Muro di Berlino, quei tempi sono ormai lontani. Rispetto allo squallore
e alla penuria in cui furono immerse per oltre quattro decenni di
comunismo, le loro capitali – Budapest, Praga, Varsavia, tanto
per fare qualche nome – sono irriconoscibili, assai più
vicine alle città occidentali. Realtà metropolitane
già competitive, con un’elevata diffusione dell’alfabetizzazione
e un’edilizia di qualità.
Certo, a ben guardare, le disparità soprattutto economiche
con i Quindici sono ancora abissali. E altre ve ne sono di natura
sociale e culturale. Ma i Dieci, candidati ad entrare nella Ue già
da un decennio, sono stati considerati dalla Commissione europea,
a fine novembre, ormai pronti. Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia,
Slovenia. E poi, ancora, la Polonia che, pur non essendo dentro
a tutti gli effetti, già fa sentire la propria voce e punta
i piedi sul sistema di voto in Consiglio, per non perdere quei vantaggi
tanto faticosamente strappati a Nizza, facendo così fallire
il progetto di Costituzione europea. Le tre repubbliche baltiche,
che hanno raggiunto l’indipendenza dall’Unione Sovietica
solo nel ‘91, l’isola di Cipro, ancora divisa in due,
e infine la piccola Malta. Hanno tutti raggiunto le condizioni politiche
ed economiche necessarie, i famosi criteri di Copenaghen: solida
democrazia, rispetto dei diritti umani e delle minoranze etniche,
economia di mercato. Oltre naturalmente ad essere disposti ad adottare
le norme del diritto comunitario. Lo stesso non vale per Romania
e Bulgaria, che rimarranno fuori sino al 2007. Mentre la Turchia
dovrà attendere nel corso di quest’anno il responso
definitivo.

Se, infatti, il processo di preparazione della Bulgaria risulta
nettamente migliore rispetto a quello della Romania, ma entrambe
non avranno problemi a mostrarsi pronte per il 2007, la Commissione,
pur lodando i progressi fatti da Ankara, non considera però
la Turchia ancora in grado di garantire i diritti politici, civili,
economici e socio-culturali indispensabili per aderire all’Ue.
Singole debolezze rimangono, è vero, anche all’interno
dei dieci futuri membri. Nessuna comunque tale da ostacolarne l’ingresso.
Come dimostra l’entrata di Cipro, anche senza che sia stata
raggiunta una soluzione sulla divisione dell’isola.
E se i Dieci resteranno comunque fuori dall’euro e dal trattato
di Schengen sulla libera circolazione delle persone per almeno altri
cinque anni, non mancano dubbi e perplessità sulla difesa
comune. Sin dalla guerra in Iraq è apparso chiaro che i futuri
membri sono profondamente filo-atlantici, anche se i sentimenti
pro-Nato nell’Europa ex comunista non sono radicati in modo
omogeneo. Come dimostra l’atteggiamento tenuto sempre riguardo
all’Iraq. Mentre Repubblica Ceca e Ungheria hanno continuato,
infatti, a sottolineare l’importanza del mandato Onu e si
sono astenute dal partecipare ad operazioni di guerra, la sola Polonia
– tra l’altro l’unico Paese che conterà
come uno Stato di media grandezza in seno all'Ue, gli altri sono
considerevolmente più piccoli – ha in effetti inviato
truppe sul campo. E nessuno dei Dieci ha pienamente abbracciato
l’idea di una più stretta collaborazione per la difesa,
come proposto da Francia, Germania, Belgio e Lussemburgo.

Ma come vedono i nuovi Stati membri il futuro della Ue? Di certo,
accanto a un sospetto di usurpazione da parte di Bruxelles, provano
un’intensa avversione per quella che viene chiamata l’Europa
a due velocità o a geometria variabile. I sacrifici e i cambiamenti
che sono stati loro imposti per diventare degni di far parte del
progetto europeo hanno, infatti, reso i nuovi acuti osservatori
dei fallimenti a cui gli attuali membri sono andati incontro. La
difficoltà dei grandi nell’applicare le regole del
patto di stabilità, vedere la Francia trattare con disprezzo
quelle stesse regole, la sospensione del patto, poi, nei confronti
di Parigi e di Berlino, non fanno che accrescere in loro la preoccupazione
di diventare membri di seconda classe del club europeo.

I dieci Paesi dell’Est che stanno per entrare saranno anche
– come borbottano infastiditi alcuni vecchi inquilini di Bruxelles,
soprattutto francesi – un po’ troppo filoamericani,
proprio mentre pongono il piede sulla soglia tanto anelata dell’Unione.
E’ vero. Ma come dargli torto?
A pochi giorni dall’ingresso dei nuovi convivranno, allora,
all’interno dell’Unione due gruppi di Paesi. Uno meno
Pentagono-dipendente, deciso anzi a sviluppare progetti propri,
finora piuttosto confusi, di difesa europea che ruota intorno alla
Francia e alla Germania. L’altro che si fida invece soltanto
del sostegno militare americano. Certo, a parole, anche i Paesi
ex satelliti dell’Unione Sovietica si dicono convinti e si
mostrano disposti ad esaminare il progetto di un sistema di difesa
europea. Ma nei fatti la loro sicurezza intendono affidarla solo
alla Nato. Una Nato per così dire storica, con le redini
strette in mano a Washington.
Per capire i motivi per cui i Paesi dell’Est si mostrano ancora
così tanto sensibili in tema di sicurezza basta ripercorrere
con la memoria la storia del Novecento. Tra gli europei occidentali
e quelli dell’Est c’è una differenza da non sottovalutare.
Per i primi la guerra è finita quasi sessant’anni fa.
Le cause che la provocarono e le conseguenze che ne derivarono sono
ricordi lontani, indolori, sbiaditi nel tempo. Per l’Europa
dell’Est gli effetti del secondo conflitto mondiale sono durati
fino all’89. Il comunismo e l’assoggettamento alla Russia
sono memorie recenti, che ancora pesano. Di qui la diversa sensibilità
in tema di sicurezza. Di qui il loro guardare all’America
come a una certezza.
Inoltre, la storia dei piccoli Paesi mitteleuropei è intessuta
di memorie amare. Arroganze francesi, occupazione tedesca, sino
ad arrivare ai quarant’anni di regime comunista. Naturalmente
Bruxelles, per le nazioni che stanno per approdarvi, rappresenta
un grande traguardo, una conquista. «Un salvagente e, se non
lo afferriamo, affonderemo nella nostra storia», afferma l’ex
presidente dell’Ungheria post comunista, Árpád
Gönez. E l’integrazione economica nell’Unione è
una garanzia di sviluppo. Ma la loro storia nel corso del Novecento,
le frontiere continuamente ritoccate, i confini incerti, spingono
questi Paesi a preoccuparsi del problema della difesa.
Come diversa è la percezione che hanno della stessa Russia:
non tanto una potenza da coinvolgere nelle politiche dell’Occidente,
un possibile partner, quanto un vicino che un giorno potrebbe tornare
a farsi minaccioso. Senza contare, poi, che anche i negoziati per
entrare nella Ue per molti di questi Paesi non sono stati certo
rose e fiori. «Sono gli europei che ci hanno insegnato a negoziare
in modo duro – ammettono i polacchi – adesso saremo
noi a non fare complimenti». E ancor prima di entrare fanno
muro e non sono disposti a barattare il loro voto ponderato, che
pesa quasi quanto quello dei quattro grandi, con il sistema della
doppia maggioranza.

Ma i polacchi non sono certo i soli. Quale più, quale meno,
questi Paesi ex comunisti, oggi accusati di essere filoamericani,
non vogliono più restare ai margini entro cui li aveva costretti
la storia del Novecento. Non ci stanno ad essere un’Europa
di serie B.
Se l’allargamento senza precedenti – gli altri in passato
erano stati di dimensioni ben più ridotte – continua
a destare perplessità e inquietudini, è pur vero che
l’immenso mercato che ne deriva moltiplicherà le opportunità
economiche, dando impulso agli investimenti e aumentando il volume
degli scambi e i posti di lavoro. I consumatori beneficeranno, allora,
di una maggiore scelta di prodotti a prezzi inferiori. In questo
modo viene consolidato il processo politico ed economico che sta
avendo luogo nell’Europa centrale e orientale a partire dal
1989. L’allargamento, infatti, non è altro che il naturale
coronamento dello scopo originale dell’Ue: abbattere le divisioni
e garantire la pace nel continente. Ma saranno in grado le istituzioni,
se non adeguatamente rafforzate e rese autenticamente democratiche,
di sostenere l’impatto di un centinaio di milioni di nuovi
cittadini che vedono l’Europa come un grande salvadanaio al
quale attingere? In questo senso, i giusti reclami nei confronti
delle alte gerarchie europee che non sembrano essere state capaci
di spiegare l’allargamento ai cittadini colgono nel segno.
Secondo un sondaggio di Eurobarometro, infatti, il 50 per cento
dei cittadini comunitari non conosce il nome dei nuovi Stati membri.
Mentre oltre il 66 per cento non ne ha mai visitato uno. E la massiccia
immigrazione è uno degli aspetti più temuti dell’allargamento.
Senza dimenticare l’effetto dirompente che l’ingresso
dei nuovi Dieci economicamente più deboli, e perciò
bisognosi degli aiuti europei, avrà sulla politica regionale.
Con le regioni italiane, in particolare il Mezzogiorno, insieme
al sud d’Europa, che perderanno gran parte dei fondi comunitari
a loro destinati in favore dei nuovi. E, ancora, da maggio in poi
avremo un’Europa sicuramente più grande, ma anche più
agricola. Dal momento che l’agricoltura continua ad avere
un ruolo rilevante in quasi tutti i futuri Stati membri ed è
concentrata su alcune produzioni dove fortissima è la concorrenza
con numerosi Paesi dell’Ue. Diverse, poi, sono le condizioni
del mercato del lavoro non solo tra le “matricole” e
gli Stati veterani. Ma anche tra gli stessi nuovi arrivati. Se a
Cipro è occupato il 68,5 per cento della popolazione, in
Polonia la quota scende al 51,7 per cento. E differenze analoghe
si riscontrano nel tasso di disoccupazione, che in Polonia raggiunge
il 19,9 per cento. Una situazione aggravata dal peso demografico
del Paese, il più popoloso dei dieci. Diversi, infine, i
rischi in materia di sicurezza e salute sul lavoro.

La sfida per la nuova, grande Europa consiste, allora, nel cercare
di colmare il divario ancora esistente. E se per qualcuno, come
ha sottolineato Gianfranco Fini all’indomani del fallimento
della Costituzione, l’Europa allargata «parte zoppa»,
diversa sembra essere la linea di Ciampi: «I nuovi Paesi sono
accolti a braccia aperte. Il processo di integrazione è inarrestabile.
La locomotiva non può rallentare o rischiare di fermarsi
perché il treno è diventato più lungo».
Collaudato sul campo dal braccio di ferro sul sistema di voto, l’asse
Spagna-Polonia è infine la vera novità degli equilibri
europei. La partita che si gioca ora è sul governo dell’Europa
a 25. Dove Varsavia, insieme a Madrid, potrebbe fare da calamita
per molti Paesi minori con l’obiettivo di contrastare lo strapotere
franco-tedesco.
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