E'evidente che nel lungo periodo il Sud si depaupererà
ulteriormente. Perde capitale umano,
che difficilmente
torna indietro.
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I poveri hanno storie diverse, ma una geografia precisa. Nel Sud,
ad esempio, a dover fare i conti con pochissimi soldi sono due famiglie
su dieci, mentre al Nord è una su venti, e al Centro poco
meno. Secondo una radiografia di chi vive al di sotto della cosiddetta
“soglia della povertà” effettuata dall’Istat
con la ricerca su La povertà e l’esclusione sociale
nelle regioni italiane, sono complessivamente due milioni e 456
mila le famiglie alle prese con l’indigenza: sette milioni
e 140 mila persone, pari al 12,4 per cento della popolazione italiana.
Si tratta della solita “media”. Scendendo nei dettagli,
infatti, vediamo che la regione col minore numero di famiglie povere
è la Lombardia, con appena il 3,7 per cento, seguita dal
Veneto con il 3,9 per cento. Invece la Calabria, con il 29,8 per
cento, è la regione con la percentuale più alta di
povertà, prima della Basilicata (26,9 per cento), del Molise
(26,2 per cento) e della Campania (23,5 per cento).
Al Nord, i valori più alti sono in Trentino (9,9 per cento),
in Friuli (9,8 per cento) e nel Piemonte (7 per cento). Al Centro,
sola differenza significativa è quella tra il Lazio (7,8
per cento) e le Marche (4,9 per cento).

Infine, nel Mezzogiorno, la migliore situazione è quella
della Sardegna, che con il suo 17,1 per cento mostra una diffusione
della povertà assai minore rispetto alla Campania, al Molise,
alla Basilicata e alla Calabria. In ultima analisi: nel Sud l’intensità
della povertà supera sempre il 22 per cento, ad esclusione
della Puglia (20,2 per cento). Per capire e per capirci: è
in piena soglia della povertà la famiglia che può
spendere al massimo 500 euro al mese, poco meno di un milione delle
vecchie lire.
Dati importanti, questi, perché a quarant’anni dai
grandi flussi migratori, diretti allora verso il “triangolo”
Torino-Milano-Genova, i meridionali hanno tirato fuori le valige
e continuano a prendere i treni che li trasferiscono al Nord, questa
volta verso un poligono che include le aree di Bergamo, Brescia,
Verona, Vicenza, Padova, Bologna, Modena, Reggio Emilia.

La storia si ripete: i meridionali risalgono lo Stivale. Non solo
uomini, ma anche donne (55 e 45 per cento, rispettivamente). I dati
segnalano la ripresa del fenomeno a partire dal 1997, e da allora
la crescita sembra inesorabile. Per quantificare la novità,
si deve partire anche questa volta dai rilevamenti Istat sui cambi
di residenza. L’ultimo è stupefacente: nel solo 2002,
più di un milione e 200 mila italiani l’ha cambiata.
Molti sono andati via dalle grandi città per abitare in campagna
o nei piccoli comuni limitrofi, altri hanno lasciato i piccoli centri
per i capoluoghi di provincia, ma il fenomeno più consistente
è il trasferimento dalle regioni meridionali verso quelle
del Nord e del Centro. La regione che subisce la maggiore emorragia
è la Calabria, mentre l’Emilia-Romagna è l’approdo
più attrattivo.
Quanti sono ogni anno i nuovi immigrati? I ricercatori della Svimez,
depurando i dati sui cambi di residenza, sono arrivati a calcolare
che nel 2000 ben 147 mila persone hanno abbandonato il Sud, trasferendosi
al Nord. Non esistono ancora dati certi per gli anni successivi,
ma alla Svimez sono convinti che il trend sia continuato e che si
possano stimare in 180 mila i nuovi immigrati del 2002: come se
un’intera città come Reggio Calabria o Foggia si svuotasse
e si trasferisse nel giro di dodici mesi. Forse il fenomeno di per
sé non è negativo, ma è evidente che nel lungo
periodo il Sud si depaupererà ulteriormente. Perde capitale
umano, che difficilmente torna indietro.
Ci si muove perché Modena, Bologna, Reggio, come le province
più attrattive del Veneto, hanno tassi di disoccupazione
bassissimi, tra i migliori del pianeta. Per avere un termine di
paragone, è bene ricordare che il tasso medio di disoccupazione
nelle regioni meridionali è mediamente del 18 per cento.
Chiariscono alla Svimez: «Nel Sud sono venute meno alcune
reti di protezione statale, come i fondi statali e le politiche
di intervento straordinario, e per di più nelle grandi città
meridionali il costo della vita è salito, mentre la qualità
dei servizi è rimasta scadente.
L’11 per cento dei nuovi emigranti meridionali, secondo le
elaborazioni della Svimez, è laureato; il 37 per cento è
diplomato; oltre la metà (52 per cento) porta con sé
al massimo una licenza media o elementare. Che lavoro vanno a svolgere?
Una larga fetta va a finire nel terziario, diventando infermiere,
addetto alla ristorazione collettiva, impiegato nelle piccole e
medie imprese, agente fieristico. A Reggio Emilia i conducenti di
autobus sono quasi tutti meridionali, per lo più campani.
Nel Veneto i meridionali un giorno facevano gli insegnanti e gli
impiegati dello Stato, mentre oggi forniscono quadri intermedi alle
piccole e medie imprese.
Ma c’è una sorpresa: nelle province lombarde i nuovi
emigranti vanno a fare il lavoro di coloro che li avevano preceduti
quarant’anni fa, vanno nelle fabbriche. A Bergamo e a Brescia
gli immigrati dal Sud diventati tute blu superano in numero gli
extracomunitari. Sopravvivono, infine, tutti i problemi di socializzazione,
cioè di integrazione con gli indigeni (lungo i corsi, la
domenica i meridionali passeggiano di qua, gli autoctoni di là),
e quelli connessi al costo delle case in affitto. Frazionando gli
appartamenti e affittando posti-letto, i proprietari di appartamenti
massimizzano gli incassi, che spesso sono in nero.

Dalle province con più alta disoccupazione (Reggio Calabria,
29 per cento; Vibo Valentia, 27; Napoli, 24,7; Palermo, 23,4; Caltanissetta,
22,6; Agrigento, 22,4; Catanzaro, 22,3; Catania, 22,1; Cagliari,
21,9) sopraggiunge la nuova massa di immigrati, età media
tra i 24 e i 30 anni, la meglio gioventù, con un’antologia
di odissee che ricorda fin troppo da vicino quelle degli anni Cinquanta-Sessanta:
valige sempre pronte, per trasferirsi da una città all’altra,
secondo le offerte di lavoro; inenarrabili solitudini e persistenti
discriminazioni; tentativi di dialogo, come quello – tutt’altro
che facile – organizzato con incontri bilaterali con le istituzioni
di Modena e di Vibo Valentia, quasi si trattasse dell’associazione
d’amicizia Italia-Cuba; difficoltà di realizzare, e
comunque di frequentare, punti d’incontro, centri comuni,
di carattere dopolavoristici e persino culturali; non osmosi, ma
muri di diffidenza, e nel migliore dei casi, di indifferenza tra
le diverse antropologie, che invece dovrebbero essere emblematiche
di una ricchezza e di una riflessione creativa di ben altra caratura
e profondità.
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