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Un libro e una rivista settimanale riportano in primo piano vicende
e tragedie della nostra emigrazione verso quel pozzo senza fondo
che erano gli Stati Uniti d’America, raggiunti dalle “bare
galleggianti” partite dai porti di Genova e di Napoli (quante
inghiottite dalle tempeste atlantiche?) e approdate in un’isola-ingresso
verso New York e gli States.
Il libro, intanto. Scritto tra il 1986 e il 1987, dato alle stampe
probabilmente nel 1992, famoso anno delle celebrazioni colombiane,
ma diffuso solo tre anni più tardi, “Astoria”,
di Robert Viscusi, ha riscosso un grande favore di critica negli
Usa non solo come esempio aggiornato di una classica forma di narrativa
italo-americana grondante di ricordi immigratori, dallo sbarco ad
Ellis Island, alle navi, all’antica povertà, ai nuovi
lavori, alle comunità etniche e ai loro mille linguaggi,
ma anche per la prospettiva colta e a tratti sofisticata con cui
l’autore guarda ad Astoria, il quartiere del Queens dove Viscusi
è nato, e alla storia di alcune generazioni di italiani trapiantati
nel Nuovo Continente.
Il libro ha finito anche per proporsi come romanzo-saggio di forte
e voluta contaminazione. Racconta, infatti, un complesso itinerario
di rivisitazioni e illuminazioni che Viscusi ha modo di azzardare
in una zona solo apparentemente “franca”, cioè
Parigi, dove si è trasferito come “visiting professor”
del Brooklyn College, e dove scopre una sua personale visione della
“sindrome di Stendhal”, relativa, qui, all’irrisolto
nodo dei processi di formazione identitaria generati dall’emigrazione
o sorti a ridosso delle sue conseguenze, demografiche, mentali e
culturali, in America.

Scelte stilistiche a parte, come i lunghi periodi che possono svilupparsi
senza interpunzioni né soste d’alcun genere per più
pagine, il testo si propone come autobiografia, ma anche come memoria
collettiva di un’intera nazione che, «uscita dal Medioevo»,
avrebbe «dormito attraversando l’oceano», e si
sarebbe poi risvegliata «a New York nel ventesimo secolo».
Vi è dichiarata la matrice decisamente filosofico-letteraria,
con ampie concessioni a una sorta di lirismo in prosa, degli intendimenti
e della scrittura di Viscusi. Il quale, del resto, pratica da anni
la sperimentazione poetica e ha in mente sia l’Europa e la
sua civiltà sia l’Italia contadina, ma anche colta,
con tutti i loro retaggi. Luogo di emigrazione, perdita, esilio,
naufragio, il quartiere etnico di Astoria è dunque «la
forma fisica che assume la storia, il modellarsi di una realtà
italiana in un ricordo inglese», dove l’italiano rimane
la “lingua degli dei» e dove ritornano, dopo essersene
ripartite, quasi tutte le circonvoluzioni cerebrali e la mole avvolgente
delle citazioni eruditissime e raffinate che l’autore assembla,
forte anche di ulteriori passaggi compiuti nella terra dei padri
fra la provincia di Benevento e un Veneto “asolano”,
in omaggio a Bembo e a Browning, ma colto anche nel momento della
sua massima espansione industriale da piccola impresa.
La «gloria degli emigranti» sta «in ciò
che essi fecero e che nessuno sa come menzionare». Si consuma
e appaga infine il debito filiale di Viscusi nell’evidente
ribollire di speranze e di voti tesi a salvare l’essenza di
un passato fatto di sacrifici e di lavoro, ma anche di ricordi orgogliosi
e umanissimi di tante persone che contribuirono a costruire negli
Stati Uniti un futuro diventato poi il presente dell’autore
e dei suoi connazionali.
La rivista, poi: “Gente d’Italia”. E la memoria
ritrovata di una tragedia rimasta senza nome. Per trent’anni
era tornata in miniera a scavare anche con le mani, alla ricerca
del corpo del marito. Quando è morta, dietro casa sua hanno
trovato una montagnola di carbone alta sei metri: non si era mai
rassegnata, questa giovane donna rimasta vedova a Monongah, West
Virginia, il 6 dicembre 1907, quando una fuga di gas aveva fatto
saltare in aria una grossa miniera di carbone. I morti ufficiali
erano stati 361, di cui 171 italiani. Era la più grande sciagura
mineraria della storia, che vedeva coinvolti i nostri connazionali.
Molto più grande di Marcinelle, in Belgio, dove nel 1956
morirono 136 minatori emigranti dalla Penisola. Una tragedia forse
ancora maggiore di quella ufficialmente registrata negli annali
del dolore: perché, secondo il settimanale degli italiani
all’estero, “Gente d’Italia”, appunto, che
ha ricostruito l’intera vicenda, in realtà i morti
sarebbero stati 900, di cui almeno 500 italiani.
Morti in gran parte occultate? Approssimazione del drammatico elenco
dovuta a scarsa conoscenza dei numeri reali? Una cosa e l’altra
insieme. I nostri minatori non venivano pagati a giornata, ma in
base alla quantità di carbone estratto. Quindi, ognuno si
portava giù i figli maschi o anche degli amici, per cercare
di guadagnare il più possibile. Per tutti questi anni sono
rimasti sepolti in una striscia di terra di Monongah, senza neanche
una croce. Ma di recente il settimanale degli italiani all’estero
e i sindaci di 25 paesi del Sud, da dove provenivano gli emigrati,
hanno finalmente depositato delle croci: 171 avranno un nome e un
cognome; 329 formeranno un gran recinto, e ciascuna porterà
incisa la frase: “Un emigrante del Sud d’Italia”.
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