Ma c’è anche di peggio: c’è
l’uso della finanza come scorciatoia per
aggiustare bilanci, quando l’attività industriale
non riesce più
a sostenerli.
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La finanza è nata e si è evoluta come supporto all’attività
produttiva. E’ la funzione attraverso la quale il risparmio
generato da chi non è in grado o non è interessato
ad impiegarlo direttamente in un’attività produttiva
viene indirizzato verso chi un’attività produttiva
desidera svolgere, ma non ha il capitale necessario per avviarla
o per incrementarla. Il fulcro della produzione di ricchezza era
la produzione di beni e servizi: quello e null’altro era lo
scopo dell’attività economica, perché quella
e nient’altro era necessaria per accrescere il benessere materiale
delle popolazioni.
Da alcuni anni, però, questo ordine logico è stato
profondamente turbato, e, in numero crescente di casi, invertito.
La globalizzazione ha trovato nell’attività finanziaria
le manifestazioni più eclatanti e dirompenti, com’è
logico che sia per il fatto che l’immaterialità della
finanza e delle sue tecniche ben si presta ad avvalersi in tempo
reale della possibilità di correre da un qualsiasi punto
del globo a qualsiasi altro, attraverso la telefonia, prima, e ora
attraverso le reti telematiche.
Su quanto invece postula trasferimento di beni fisici, come nelle
attività commerciali, la globalizzazione ha agito più
lentamente, e ancora più lentamente agisce sulla dislocazione
degli impianti produttivi. Si sono dunque prodotti due ordini di
conseguenze. Il primo è che l’attività finanziaria
ha avuto una dilatazione epocale, per il fatto che la rapida moltiplicazione
delle possibilità che ha offerto ha attratto verso di essa
risorse e ingegni che prima si indirizzavano verso altre destinazioni:
si pensi agli ultimi anni del decennio passato, quando anche le
massaie (e sia detto senza alcuna offesa per loro) disquisivano
sulla convenienza ad investire nel Nasdaq piuttosto che in Cina.
La seconda, che almeno in parte è un corollario della prima,
è che il rendimento delle attività finanziarie ha
subìto anch’esso un salto, superando quello che normalmente
può essere generato dalla produzione di beni e di servizi.
Nella misura in cui prospetta rendimenti più elevati, il
rendimento delle attività finanziarie è più
rischioso, ma il corretto rapporto tra rischio e rendimento è
stato alterato, riducendo il primo ed esaltando il secondo, proprio
dall'epocale dilatazione dell’attività finanziaria
che ha connotato gli anni recenti in tutto il mondo.

C'è poi un terzo ordine di conseguenze, che è la
sintesi finale dei primi due, ed è che la finanza ha prevaricato
la produzione di servizi e soprattutto di beni manifatturati, svilendola
ad attività superata, faticosa, complessa, rigida, da lasciare
dunque ai Paesi emergenti. Gli esempi ormai non si contano: quelli
degli industriali che entrano nelle banche sono i più evidenti.
Vi investono capitali che certo non possono essere destinati nello
stesso tempo ad incrementare e a sviluppare la loro attività
industriale; e così il sistema industriale deperisce, e si
assottiglia sempre più in modo particolare la grande industria,
vale a dire quella che ha la condizione necessaria, seppure non
sufficiente, della dimensione per potersi misurare con un mercato
globale.
Ma c’è anche di peggio: c’è l’uso
della finanza come scorciatoia per aggiustare bilanci, quando l’attività
industriale non riesce più a sostenerli. Il caso Parmalat
sembra essere uno di questi: per sostenere una redditività
che l’attività industriale non riusciva più
ad esprimere, anziché investire risorse per accrescere l’efficienza
degli stabilimenti, per conquistare nuovi mercati, per cercare nuovi
prodotti – tutte soluzioni faticose e lente – sono state
impiegate risorse per ottenere reddito da un’attività
finanziaria (c’è da presumere) altamente speculativa,
che può aver fruttato rapide e cospicue plusvalenze con la
stessa facilità con la quale poi può aver fatto svanire
centinaia di milioni, o miliardi di euro.
Quando la ferita è aperta, i prati dei vicini sembrano sempre
più verdi: e allora forza a vedere quali norme vigono negli
altri Paesi, in quelli anglosassoni soprattutto; e forza ad invocare
nuove norme, a chiamare in causa la vigilanza della Banca d’Italia,
come se vigilare sulle banche significasse dir loro a chi devono
concedere il credito e a chi no, o addirittura ad interpretare i
rischi che corrono i risparmiatori quando cercano rendimenti più
elevati di quelli sui Buoni del Tesoro come un vulnus al dettato
costituzionale sulla protezione del risparmio.
In materia, il nostro Paese ha una legislazione riformata nel decennio
scorso, moderna, che possiamo considerare efficiente, se venisse
applicata più di quanto lo sia. Comunque, il risultato è
che da noi le crisi bancarie e finanziarie sono meno frequenti che
altrove, il che non è poco. Tutto è perfettibile,
certo. Ma rimane il dubbio che in ogni caso si stiano guardando
gli alberi piuttosto che la foresta, e che ogni soluzione sia destinata
a rimanere parziale fino a quando la finanza sarà lasciata
libera di generare tentazioni più attraenti di quella della
produzione di beni e di servizi; e fino a quando la cultura diffusa
non si libererà della presunzione che la ricchezza finanziaria,
quella di carta o stivata nei supporti magnetici di qualche data
base, possa avere una propria consistenza senza rappresentare una
florida ricchezza reale fatta di beni, servizi, brevetti, impianti,
innovazione tecnologica, ricerca.
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