Tutte le forze
politiche italiane sembrano essere espressione
dell’incapacità
dell’Italia
di predisporre
le condizioni per frenare il declino
e per rilanciare lo sviluppo.
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Proprio in questa prima metà del 2004, la Commissione europea
ha all’esame un Rapporto sullo stato della concorrenza nelle
professioni liberali (avvocati, notai, commercialisti, ingegneri,
farmacisti e architetti). «Il Rapporto – ha specificato
il Commissario Mario Monti – dovrà evidenziare la razionalità
economica che deriva dalla concorrenza». E’ possibile,
ha poi precisato, che suggerisca «azioni da parte degli Stati
membri o delle stesse professioni». Ma la Commissione non
proporrà un’armonizzazione delle regole, «anche
se il bene pubblico e la competitività in questo settore
non mi sembrano garantiti dalle norme attuali».
Dunque, si sta tornando a discutere degli ordini e degli albi professionali,
che i liberalizzatori come l’eurocommissario Monti vorrebbero
riformare. Impresa nella quale nel nostro Paese non sono riusciti
i governi che si sono succeduti negli ultimi vent’anni. Si
tratta, infatti, di una riforma difficilissima, e non soltanto per
le “resistenze” (che vengono normalmente definite “corporative”),
che indubbiamente ci sono, ma anche per l’obiettiva complessità
della materia.

Ai nostri occhi, le Corporazioni odierne rappresentano le ultime
vestigia del Medio Evo: evocano l’immagine di una società
soffocata da regole ingombranti. Invero, la loro realtà è
piena di luci e di ombre, che si sono infittite con il trascorrere
dei secoli, ma che non possono far dimenticare il ruolo positivo
svolto all’apice del loro sviluppo.
L’età d’oro delle Corporazioni delle arti e dei
mestieri si ebbe, appunto, nel Medio Evo. I loro compiti erano quelli
di addestrare gli apprendisti, di regolamentare la qualità
delle produzioni, di fissare i prezzi e i salari, di garantire il
rispetto degli statuti, di soccorrere i membri bisognosi e di prendere
parte attiva alla vita politica, rappresentando gli interessi dei
“corporati”.
Sembra il perfetto elenco di quei “lacci e lacciuoli”
che vennero giustamente stigmatizzati da Guido Carli. Ma, a ben
vedere, nei secoli che videro nascere il capitalismo, quei vincoli
non rappresentavano un ostacolo allo sviluppo. Al contrario, assicuravano
la trasmissione del sapere in un’epoca in cui non esistevano
scuole tecniche e professionali; tutelavano la qualità di
tutte le produzioni, anche per muovere alla conquista di nuovi mercati
nella Penisola e in Europa; fissavano i prezzi al fine di evitare
una rovinosa concorrenza fra imprese che, in tempi di crisi, avrebbe
potuto compromettere il fragile equilibrio economico e sociale;
offrivano ai ceti emergenti una ribalta prestigiosa per affermare
i loro interessi e per partecipare attivamente alla vita pubblica.
E inoltre, in un periodo in cui lo “Stato sociale” si
limitava alla carità pubblica e privata, e alla generosità
non disinteressata dei ceti abbienti, alimentavano il senso di solidarietà
fra i propri aderenti: «Ogni fratello della gilda»,
si legge negli Statuti della Knuts Gilde di Flensburg, redatti prima
del XIII secolo, «deve essere pronto ad aiutare il suo confratello
in ogni giusta questione».
Il termine “arti” deriva dal latino “ars”,
e significa “attività umana, occupazione”. Le
Arti, o Corporazioni, erano associazioni riconosciute dallo Stato
anche in epoche remote. Fin dai tempi degli Egizi si ha notizia
della presenza di Corporazioni, ma solo in Roma queste assunsero
un vero e proprio valore politico. Erano dette “Collegia opificum”
(Corporazioni delle arti), e godettero di privilegi, come l’esenzione
dalle tasse straordinarie e dal servizio militare. Avevano loro
rappresentanti legali per eventuali conflitti giudiziari e una casa
in comune dov’era custodita la cassa con i contributi degli
associati.
Anche dopo il crollo dell’Impero d’Occidente le Corporazioni
continuarono a funzionare nelle città, dove ancora le istituzioni
romane resistevano: al seguito delle popolazioni germaniche, si
affermarono nell’Europa del Nord, appunto, le Gilde, associazioni
che avevano inizialmente un compito di difesa degli associati e
di vendetta in caso di torti subìti, ma che in seguito (nel
secolo XII) si dedicarono agli interessi di artigiani e mercanti.
Le Gilde avevano un carattere democratico ed erano rette da un’assemblea
convocata più volte nel corso dell’anno: in queste
circostanze venivano riveduti i conti e si impartivano le direttive
per il futuro.
Con l’affermarsi del fenomeno comunale, le Corporazioni divennero
numerosissime, fino a coprire tutte le attività lavorative.
Nel secolo XIII, Venezia ne annoverava ben 142, ma Firenze fu la
città in cui le Arti raggiunsero la massima diffusione. A
seconda delle categorie rappresentate, le Corporazioni erano distinte
in maggiori e minori. Maggiori erano quelle dei potenti mercanti
di seta e di oro, dei fabbricanti di tessuti preziosi, degli intellettuali,
dei giudici, dei notai e dei medici. Minori erano le Arti che raggruppavano
i lavoratori di basso livello sociale e che non avevano alcun peso
politico ed economico. Nei Comuni più potenti, come Venezia,
le Arti erano strettamente subordinate allo Stato, ma altrove riuscirono
a formare un vero e proprio movimento politico volto alla conquista
del potere, oppure alla costruzione di un potere parallelo a quello
delle istituzioni comunali. In quest’ultimo caso, non riuscendo
a ottenere una rappresentanza politica ufficiale, le Corporazioni
formarono delle comunità, che furono dette “Comune
del popolo” e furono poste sotto la guida di un capitano del
popolo.
In non poche città, per favorire la concordia sociale, furono
attribuiti alle Arti o Corporazioni compiti di amministrazione della
giustizia in settori specifici che riguardavano controversie di
lavoro tra rappresentanti dello stesso mestiere o della stessa professione.
In sostanza, i capi delle Corporazioni venivano considerati come
“esperti” in grado, proprio perché del mestiere,
di dirimere conflitti di ogni tipo nel settore di propria competenza.
A Genova, nel 1257, e a Firenze, nel 1282, il Comune del popolo
prevalse sulle istituzioni comunali ed escluse i nobili dal governo
della città: venne stabilito infatti che, per essere eletto
agli alti gradi del governo, era necessario appartenere ad un’Arte
e ad esercitarla. Quando però le Signorie riuscirono ad affermarsi
definitivamente, le Corporazioni perdettero quasi del tutto importanza
nella conduzione politica delle città.
In altri termini: poiché col passare del tempo ogni organizzazione
tende ad irrigidirsi e ad essere meno flessibile e meno permeabile
alle novità, anche le Corporazioni restarono vittime dell’ossificazione.
Regole troppo rigide finirono per frenare l’innovazione; la
pretesa di controllare sia le manifatture urbane sia la produzione
delle aree circostanti ostacolava la nascita di nuovi poli; la fissazione
dei salari si scontrava con la crescente mobilità del lavoro;
la dialettica politica spesso degenerò in aperto scontro
tra corporazioni. Per queste e altre ragioni, a partire dal Cinquecento,
le organizzazioni iniziarono a declinare, e quando la Rivoluzioni
francese le spazzò via, erano ormai ridotte a scatole vuote.
Nel 1856 Alexis de Tocqueville lamentava che dalle rovine di quella
Rivoluzione e dalla fine delle Corporazioni era «nato un potere
centrale immenso, che ha attratto e inghiottito nella sua unità
tutte le parcelle d’autorità e di prestigio prima diffuse
in una moltitudine di poteri secondari, di ordini, di classi, di
professioni, di famiglie, di individui, e come sparpagliate in tutto
il corpo sociale». L’intellettuale transalpino aveva
un’invincibile nostalgia dell’Ancien Régime,
ma metteva il dito su una piaga reale: l’eccesso di accentramento
che tendeva a impoverire la vita sociale. Era il prezzo da pagare
per l’ingresso nell’età industriale.
Oggi le parti sono invertite. La difesa a oltranza degli interessi
particolari si ritorce contro i cittadini che non possono beneficiare
per intero del progresso tecnologico. Se i liberalizzatori come
l’eurocommissario Monti riusciranno a vincere la loro battaglia,
col tempo i monopoli si attenueranno e, sulla loro scia, forse verranno
riformati anche gli ordini professionali.
Impresa quanto mai difficoltosa. Attualmente, infatti, tutte le
forze politiche italiane, di maggioranza e d’opposizione,
sembrano essere espressione della stessa sindrome dell’incapacità
dell’Italia di predisporre le condizioni per frenare il declino
e per rilanciare lo sviluppo. Perché? Risponde Angelo Panebianco:
gli uni vennero sconfitti perché, riusciti nell’impresa
dell’euro, non realizzarono gli interventi strutturali che
ne derivavano: non potevano tradire la fiducia delle corporazioni
che componevano il loro blocco elettorale, dunque non potevano liberare
da un eccesso di pressione fiscale quelle classi medie indipendenti
che sono l’unico possibile motore, da noi e ovunque nel mondo,
della crescita economica, né potevano generare risorse con
riforme del sistema pubblico da investire nella ricerca scientifica
e nell’istruzione, perché ciò avrebbe destabilizzato
le corporazioni di cui erano i rappresentanti; gli altri vinsero
perché sembrarono più convincenti come possibili riformatori,
con promesse però fino a questo momento disattese, anche,
ma non solo, per la congiuntura economica internazionale negativa,
per l'11 settembre, per due guerre, per la crisi Fiat, per le tegole
Parmalat, Cirio, Finmatica e altro ancora, per le quali non hanno
alcuna colpa o responsabilità: anche se hanno fatto cose
buone, dalla riforma del mercato del lavoro a quella della scuola,
a dispetto della guerra scatenata dalle irriducibili corporazioni
di riferimento e dei pochi soldi disponibili, resta l’incapacità
di ridurre i vincoli (fiscali e burocratici) sempre sulle classi
medie indipendenti che avevano dato loro fiducia.
La ragione principale di questa seconda delusione è nel
fatto che si è sottovalutato lo stesso fenomeno del primo
fallimento: gli uni e gli altri portavano dentro di sé interessi
più favorevoli al mantenimento dello status quo e alla difesa
delle corporazioni esistenti, che al suo superamento. E il sistema-Paese
procede, più o meno vischiosamente, verso quel declino al
quale sembriamo votati ormai da molti anni. Sapremo mai venirne
fuori?
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