Siamo di fronte ad un nuovo modello socio-politico
che la società civile non può indossare come un capo
d’abbigliamento.
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Scuroveggenti, li chiamano così quelli che azzardano previsioni
politiche. I politologi di solito abbaiano alla luna, ma quelli
di casa nostra hanno difficoltà a farlo, costretti a ragionare
su slogan, interviste e dichiarazioni carichi di simbolismo, ermetismo,
fatalismo mistico. Devono lavorare su stati d’animo più
che su razionali valutazioni politiche e percorrere itinerari civili
tormentati, sospesi tra delusioni e speranze impossibili, tra tensioni
dello spirito e pulsioni dell’istinto.
Sul destino degli italiani brillava un tempo il sole dell’avvenire,
offrendo idee e sentimenti ad un grande sogno di carta. Adesso prevalgono
le brume delle Langhe, ma la linea dell’orizzonte resta sempre
segnata da ambiziosi sogni di carta.
Può esserci inadeguatezza nella strategia comunicativa del
governo e può essere che i suoi ministri siano costretti
a girare a vuoto per l’impiego di regole e procedure sclerotizzate.
Ma proprio sul funzionamento delle regole e delle istituzioni interviene
ogni giorno il giudizio delle agenzie di rating, delle istituzioni
internazionali e dell’opinione pubblica. Un giudizio che attiene
al tema cruciale di ogni democrazia liberale, quello dell’accountability,
delle responsabilità del buon governo.
Al giro di boa di metà legislatura appare doverosa una riflessione
in senso crociano, mettendo sotto lente d’ingrandimento la
rosa dei potenti sulla base dell’attività svolta. Non
un bilancio economico ma un bilancio sull’esercizio delle
funzioni. Adempiendo semplicemente ad un compito di galateo politico
e istituzionale.
L’elettorato, in linea con le sue aspettative, aveva ritenuto
di dare credito ad un programma di governo centrato sulla modernizzazione.
Meno tasse, più dinamismo economico, più uguaglianza
sociale, più sicurezza, più innovazione. Ora si trova
a fare i conti con un senso della legalità fortemente impoverito,
reso precario dai continui strappi istituzionali, con privatizzazioni
effettuate senza liberalizzazioni, con un tessuto industriale indebolito
dalla flessione della produttività e dalla mancata crescita
degli investimenti, con un risparmio tradito da speculazioni finanziarie
ad alto rischio e fuori controllo (fino alla drammatica insolvenza
Cirio e Parmalat), con l’innovazione impigliata nei grovigli
di uno sviluppo inceppato, con un mercato del lavoro che forse perderà
spezzoni di rigidità ma non salva i migliori dal destino
dell’esilio, non perde il valore “nobile” della
raccomandazione, non riduce nel lavoro autonomo il tasso elevato
di “ereditarietà”. Lavoro e risparmio restano
in sofferenza, gestiti con disinvoltura e scarsa trasparenza, mentre
si consolida il dominio della finanza privata sul pubblico interesse
e si ampliano le dissonanze cognitive sul concetto di bene comune.
In questo modo si mandano segnali distorti ad una società
e ad un mercato che, inseriti nel frenetico dinamismo competitivo
della globalizzazione, dovrebbero crescere in senso moderno e non
medioevale, guidati dalle stelle polari della concorrenza, della
trasparenza, della professionalità, dell’efficienza,
della riduzione delle diseguaglianze tra i livelli di reddito.
Lezione numero uno: i risultati non sono pari alle aspettative.
Lezione numero due: l’eccessiva competitività tra partiti
indebolisce l’esercizio della funzione dirigente e rende evanescenti
gli obiettivi di lungo periodo. Dopo il semestre europeo, infarcito
di pause di riflessione gridate, lo stato di fibrillazione continua.
Il governo è sotto stress per i continui attacchi di fuoco
amico (è difficile pensare ad un appeasement tra quadrunviri
callosi e biliosi in nome della stabilità). I soci di maggioranza
hanno la testa altrove, essendo quotidianamente impegnati a promuovere
o a sventare faide politiche. Mentre incidenti che non sono incidenti
percorrono tutto l’arco economico e istituzionale.

Il fatto più allarmante è che i veleni quotidiani
seminati in un Tempio ormai privo di Propilei vengono digeriti e
archiviati senza conseguenze apparenti. O meglio, con la conseguenza
certa di produrre un costante logoramento di leadership lungo tutta
la filiera dei pubblici poteri, mettendo a repentaglio l’integrità
del tessuto sociale.
Il nodo dei nodi sta nell’assemblaggio delle coalizioni (con
vincoli sistemici tra partiti in quotidiana concorrenza di audience),
nelle schegge del bipartitismo immaturo che colpiscono indiscriminatamente
la squadra attuale e quella potenziale, facendo vittime eccellenti
senza necrologio (anche il governo Prodi fu impallinato dall’interno,
aprendo la crisi dell’Ulivo nel 1998). Quando una maggioranza
è in crisi spuntano i corvi in attesa delle spoglie, ma le
“questioni di pelle” restano sempre senza risposta.
Nelle chiese laiche la liturgia sopravvive ai dogmi e continua a
disegnare con riga e compasso la geometria dei poteri. Allargando
il fossato tra pluralismo sociale e democrazia istituzionale, operando
sempre in bilico tra fede borbonica e devozione absburgica.
Ragioni oggettive spiegano la linea di galleggiamento che si esprime
con l’affabulazione minimal chic della “politica dell’annuncio”.
Questa alimenta a sua volta il rituale celebrativo degli schieramenti
e crea la “società dello spettacolo”, mobilitando
tempo e sentimenti della società civile su castelli di carta
che poi è difficile buttar giù. Si pensi alla sindrome
cinese con cui si cerca di spiegare la crisi dell’industria
tessile nel Nord-Est e nel Mezzogiorno (invocando dazi per bloccare
le importazioni), alla radicalizzazione dei ragionamenti d’ufficio
sui temi dell’immigrazione, allo stillicidio dei dibattiti
sterili sul conflitto d’interessi e sulla crisi della giustizia,
alla guerra delle parole sul riformismo costituzionale, ecc. Così
anche la voce della piazza finisce per diventare flebile e senza
nervo sociale, caratterizzata da uno spirito di crociata populista
che mette la sordina alle legittime ragioni del buonsenso.

Inoltre, si va diffondendo nel lessico politico l’uso di
una cortina linguistica di stretta pertinenza economica, con scarsa
aderenza alla realtà. Si pensi al project financing, pubblicizzato
per accelerare la realizzazione delle grandi opere, difficilmente
praticabile per il groviglio di veti locali e vincoli normativi,
al marketing urbano, collegato ad un astratto fabbisogno estetico
di massa.
L’informazione a sua volta dà eco a questa realtà
ovattata e surreale, proponendo una lettura degli eventi “pedagogicamente
corretta”. Quella televisiva, in particolare, cerca di accreditare
un’Italia spensierata, affascinata dal culto dell’intrattenimento
(con un po’ di fortuna si può sfuggire a proiettili
e bombe, ma non si può sfuggire alla retorica e ai quotidiani
cocktail di melassa).
Purtroppo gli incantesimi prodotti da un’atmosfera inamidata
non aiutano ad uscire dalla classifica dei Paesi “gambero”.
Gli economisti di casa non amano la parola “declino”.
Per le difficoltà attuali puntano l’indice sull’avvento
dell’euro, sul problema demografico, sulla piccola dimensione
aziendale. Tutte ipotesi plausibili, se riferite al breve periodo.
In realtà, il “declino di sistema” era già
evidente negli anni Settanta, quando una forte instabilità
sociale aveva posto freno agli indici della crescita e aveva iniziato
a privilegiare la gestione della finanza rispetto alla gestione
dei prodotti.
Questo trend negativo è arrivato sino a noi, passando indenne
tutti gli esami della politica economica e della politica aziendale.
Ha motivazioni serie e profonde, riconducibili alle difficoltà
(forse crisi) di due culture complementari: del capitalismo familistico
(ampiamente presente nella realtà italiana) e delle scelte
di governo neo-liberiste.
L'idea di “fare impresa” intrattenendo rapporti privilegiati
con il potere politico, oltre a creare compromessi imprinted, rende
difficilmente difendibili le posizioni acquisite sul mercato (si
legga la cronaca dei casi Cirio e Parmalat). Anche per la lentezza
dei tempi politici (subordinati sempre più al benestare della
tecnocrazia europea) di fronte alla rapidità imposta al processo
decisionale delle imprese dalle spinte competitive dei mercati globalizzati.
E’ ormai obsoleta l’idea di un “mercato-circuito”
in cui vince chi ha le frequentazioni giuste nei salotti buoni.
Come è pericolosa la tendenza a separare nella gestione d’impresa
il comparto della produzione dal comparto della finanza, soprattutto
quando quest’ultimo è supportato da una forte dipendenza
banco-centrica.
La realtà economica contemporanea è dominata dai fattori
internazionali più che dalle decisioni interne di apparato
(politico-governativo-bancario). Altra cosa sono le difficoltà
nate dall’improvvisa convergenza su ricette di governo neo-liberiste,
impostesi all’attenzione del mondo politico dopo il collasso
del sistema comunista e il crollo dei vecchi organigrammi di partito.
Un’idea buona in sé, che in Italia marcia su gambe
anchilosate. Siamo di fronte ad un nuovo modello socio-politico
che la società civile non può indossare come un capo
d’abbigliamento simil-british. Non possiamo improvvisamente
convertirci ad un modello neo-liberista dopo aver avuto una capillare
formazione statalista, che ha permeato la vita associativa sin dai
primi passi della storia unitaria. I contraccolpi più evidenti
si avvertono sul versante macro-economico e istituzionale. In questo
senso, il Paese attraversa una fase di transizione epocale e ha
bisogno di una forte partecipazione collettiva e di un senso elevato
di responsabilità individuale.
Il nostro disagio è fotografato dai giudizi impietosi delle
istituzioni internazionali. Nell’ultima classifica sulla competitività
elaborata dal World Economic Forum l’Italia è scesa
dal 33° al 41° posto. Un complesso di giudizi negativi vengono
anche dalla lettura dell’IMD World Competitiveness Yearbook:
il prodotto interno lordo perde un punto, l’indice demografico
cinque punti, il consumo di energia due punti, il tasso di disoccupazione
undici punti, l’efficienza del settore pubblico cinque punti,
ecc. L’unico dato positivo riguarda l’impennata della
telefonia mobile, che guadagna quattordici posizioni. Tanti indizi
faranno pure una prova. E’ vero che sono variazioni quinquennali,
poco significative per qualcuno, poiché evidenziano una retrocessione
annunciata, in linea con la crisi economico-finanziaria della comunità
internazionale. Va ricordato tuttavia che mentre l’Italia
arretra, altri Paesi vanno avanti, in costanza di ciclo recessivo.
Non a caso la Banca d’Italia ha visto ridurre la sua partecipazione
azionaria alla Bce, perdendo il terzo posto a vantaggio della Gran
Bretagna (partecipa al capitale Bce ma resta fuori dall’eurozona).
Un’altra classifica poco edificante vede l’Italia al
primo posto tra i Paesi inadempienti alle decisioni della Corte
europea dei diritti dell’uomo (Strasburgo). Il Comitato dei
Ministri del Consiglio d’Europa ha un dossier con 3.500 casi.
Di questi, 2.424 riguardano l’Italia (segue la Turchia con
317, la Francia, la Polonia, ecc.). Le sentenze disapplicate si
riferiscono in maggioranza all’eccessiva durata dei processi,
ma vi sono anche violazioni per l’affidamento di minori, per
il trattamento delle minoranze, per la carcerazione preventiva.
Emerge un quadro preoccupante di violazioni di diritti umani, con
critiche di sistema rivolte da tempo a governo e magistratura. Per
un soggetto politico che intende avere un ruolo di primo piano nell’elaborazione
della politica europea non è un biglietto da visita encomiabile.

Un altro momento di riflessione lo offre l’Ufficio internazionale
del lavoro, che registra da tempo il declino del nostro sindacalismo,
mentre cresce il ruolo anomalo di istituzione pubblica, con annesso
potere “politico”, assunto dai sindacati (si pensi al
finanziamento pubblico dei patronati e dei Caf, alla presidenza
Inps, alle cariche pubbliche riservate ai sindacalisti, all’aspettativa
e ai permessi retribuiti accordati nel settore pubblico). Cresce
nel sindacato la crisi di rappresentanza e la cultura del ribellismo
ad un sistema di relazioni industriali fortemente centralizzato
(Piero Ostellino parla di «Gosplan all’italiana»,
in una fase politica, aggiungiamo noi, fortemente caratterizzata
da spinte federaliste). C’è il rischio concreto di
vedere i sindacati confederali sconfessati e scavalcati dalla base.
La recente protesta nel settore dei trasporti e gli spazi di autonomia
cercati dai metalmeccanici della Fiom s’inquadrano in questo
clima pericoloso, dagli effetti-sistema dirompenti.
Il percorso delle riforme coinvolge istituti decotti e istituzioni
delegittimate ma si continua a recitare un rosario con molte paternità
progettuali, affidate ancora all’agenda delle speranze prossime
venture. Per dirla con Claudio Magris, manca «una stazione
meteorologica delle grandi trasformazioni». Con il rischio
di assistere inermi ad una tarda serialità amministrativa,
senza governance effettiva.
Sui temi di civiltà giuridica, del mercato del lavoro e della
qualità della vita (riforma costituzionale, riforma dell’ordinamento
giudiziario, riforma degli ordini professionali, riforma fiscale,
riforma degli ammortizzatori sociali, riforma della formazione,
approvvigionamento energetico, difesa del territorio, acqua, stoccaggio
delle scorie radioattive) ci sono divisioni politiche profonde.
Ma ciò non è sufficiente a spiegare l’immobilismo
attuale.
E’ noto che la riforma costituzionale (bozza dei “Saggi”
per la maggioranza, bozza “Amato” per l’opposizione)
ha costi proibitivi per il bilancio pubblico. Ed è anche
noto che una riforma fiscale che voglia ridurre la pressione tributaria
può essere praticata solo in fase di sviluppo (dunque non
nell’attuale congiuntura di stagnazione).
In questo scorcio di legislatura, affollato da scadenze elettorali,
sarebbe più opportuno costruire tasselli: per elevare l’indice
di gradimento interno verso un progetto globale di riforme da introdurre
dopo il 2006, per attenuare i contraccolpi negativi che i recenti
dissesti finanziari producono sul mercato internazionale (l’internazionalizzazione
dell’economia italiana è tra le più basse dell’area
Ocse), per creare in breve un clima costituente affidabile.
L’era della pietra non è finita perché finirono
le pietre. Fu semplicemente sostituita da nuove tecnologie e nuove
aggregazioni sociali. Anche l’era polista ha bisogno di un
corposo tagliando di collaudo. Così com’è appare
ispirata da un forte talento scismatico e afflitta da un eccesso
di bricomania (do it yourself - home improvement). Queste qualità,
esercitate su dimensione nazionale, portano linfa all’eterna
giovinezza dell’anima giacobina producendo un sistema chiuso,
autoreferenziale.
Non fa storia il miracolo laico dell’unità nelle elezioni
e della trinità nel governo (siamo ottimisti per vocazione!).
Per lavorare sul reale superamento dei blocchi interni (quelli esterni
sono caduti da tempo) bisogna liberarsi dai guasti della cultura
cavouriana e mazziniana che caricando di ideologia la dialettica
politica tanto ha dato al percorso storico dell’unificazione
nazionale. Purtroppo quel metodo ha varcato i dopoguerra ed è
arrivato sino a noi, creando steccati e clonando semi di odio di
massa ancora attivi. Un lugubre vizietto che ha insidiato dalle
origini il Dna della “scuola” repubblicana.
Il Papa da tempo ha avviato un tormentato processo di “purificazione
della memoria”. Ad esso ha fatto seguito, sul versante laico,
un’accelerazione delle mode revisioniste. A noi sembra che
questi percorsi siano utili per liberare la storiografia dai “pregiudizi
di congrega”, ma rendono servizi pochi o nulli ai percorsi
della politica. Non intendiamo proporre una congiura dell’indifferenza.
Siamo semplicemente convinti che per fare movimentismo politico
sia più proficuo un approccio pragmatico con la radiografia
dei sogni e dei bisogni collettivi. Per rendere praticabili strategie
e percorsi progettuali “decontaminati”.
E’ attesa una forte semplificazione del quadro politico che
si ottiene lavorando sul metodo, sugli assetti interni delle coalizioni.
Al momento ci sono progetti pensati in solitudine, c’è
un mosaico che si degrada consumando riti tribali tra un distillato
berlusconiano e una maionese dalemiana, confezionando enigmi che
talvolta entrano di soppiatto in prove di dialogo.
L’approccio ad una nuova identità politica parte dall’abbandono
dei dogmatismi che non fanno vedere ciò che accade nella
società, dall’abiura dei duopoli storici: comunisti/anticomunisti,
fascisti/antifascisti, laici/cattolici (lasciamo agli storici togati
questo patrimonio di ricerca). Non è casuale che i cittadini
si appassionino sempre più ai dibattiti di filosofia (si
guardi al successo dei convegni di Modena, Milano, Bari, Lecce).
Cercano in questa scienza un sapere di nuovo conio. Cercano risposte
che la politica degli schieramenti non riesce più a dare.
Per la dimensione virtuale in cui opera la società dell’informazione
il futuro diventa l’unica realtà paradigmatica, per
cui occorre fare attenzione a tutti i fenomeni sociali di tendenza,
nell’era grigia dei consumi di massa globalizzati. Inoltre
il processo di disintegrazione europea se per un verso produce appannamento
della sovranità nazionale, per un altro verso valorizza l’impegno
per la creazione di nuove euroregioni. Tutto ciò apre nuove
frontiere di dialogo alle infrastrutture politiche che, influenzate
dai processi di internazionalizzazione, sono costrette a cambiare
orizzonte agli spazi di potere e al raggio dell’azione politica.
Un esempio pratico è dato dal nuovo fronte conflittuale tra
garanzie del cittadino ed esigenze di sicurezza sotto la pressione
del terrorismo globale.
C’è ormai una lista di questioni urgenti che per essere
trattata seriamente dev’essere depurata dai parallelismi istintivi
tra passato e presente, dal gioco al massacro tra riforma e controriforma.
Il riformismo “utile” non può nutrirsi di grida
di dolore e della demonizzazione dell’altro. Occorre intraprendere
una via italiana alla modernizzazione che non sia un viaggio ulteriore
in fuga dalla logica e dal buonsenso.
Il termine modernizzazione, sdoganato dal sociologismo che ancora
lo pervade (si legga il recente “Rapporto Italia 2004”
dell’Eurispes), implica una religione della democrazia impegnata
a far emergere l’individuo, non l’apparato. Con tutto
ciò che ne consegue per la formazione e la selezione della
classe dirigente; per la definizione di diritti, garanzie e libertà
costituzionali; per l’incidenza dei cittadini sui processi
decisionali e sulla gestione della cosa pubblica; per una definizione
“intimista” del rapporto etica-finanza-politica senza
querule litanie savonaroliane. Forse un totem. Per noi il desiderio
“pagano” di seguire rotte di navigazione guidate da
sentimenti unitari senza smagliature. Disincagliandosi dai lidi
incantati del capitalismo di cerniera, con retrogusto di sòla.
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