Nello scenario
evolutivo, il dottore commercialista è chiamato a svolgere
il ruolo strategico di advisor finanziario, nella progettazione
di soluzioni
efficienti in tema di finanza aziendale.
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Il dibattito sul rapporto banca-impresa ha tradizionalmente coinvolto
operatori economici, politici, comunità sociale, consulenti,
ricercatori. L’argomento merita ora un particolare approfondimento
da parte dei dottori commercialisti non solo per fare il punto sull’attuale
configurazione del rapporto, ma soprattutto per delineare gli sviluppi
dei radicali mutamenti, di carattere normativo e regolamentare (quali
il nuovo diritto societario, il Decreto Legislativo sui ritardi
nei pagamenti, la riforma fiscale e quella sul nuovo diritto fallimentare
e il Nuovo Accordo sui requisiti patrimoniali delle banche, noto
come “Basilea 2”), che andranno a incidere sulla struttura
finanziaria delle imprese e sulla politica dei prestiti delle banche.
Il presente contributo ha l’obiettivo di analizzare i principali
contenuti tecnici e funzionali di uno di tali provvedimenti, Basilea
2, e le implicazioni professionali che l’Accordo comporterà
per i dottori commercialisti.
1. L’attuale configurazione del rapporto banca-impresa
Il rapporto banca-impresa ha assunto configurazioni diverse tra
i principali Paesi industrializzati. Ad esempio, in Paesi come Germania
e Giappone, la finanza d’impresa è stata gestita con
una forte integrazione con il sistema bancario (sistemi banking
oriented), mentre nei Paesi anglosassoni le esigenze finanziarie
delle imprese sono state soddisfatte prevalentemente nei mercati
(sistemi market oriented).
L’Italia ha registrato un’esperienza abbastanza particolare.
Pur avendo le imprese come principale interlocutore finanziario
le banche, le relazioni con il sistema bancario non sono state in
genere stabili e basate su reciproca fiducia. A questo si è
aggiunto il fatto che il sistema delle imprese non ha potuto contare,
in alternativa, su di un mercato dei capitali ampio, spesso e trasparente.
In Italia pertanto la relazione banca-impresa è stata impostata
secondo un modello di finanza povera incentrato sulla pratica del
multi-credit, collegato a forme di credito a breve termine e al
transactional banking. Il ricorso a tale modalità di finanziamento
ha comportato per le imprese diversi vantaggi, quali ad esempio
mettere all’asta il debito acquisibile, spuntare tassi passivi
pro-tempore più bassi, mascherare la propria situazione di
illiquidità sottraendosi a valutazioni approfondite del rischio
di credito, nonché sostenere gli investimenti con debiti
bancari a breve termine riducendo gli impegni di capitale proprio.
L’ampio ricorso al multi-credit ha sollevato però anche
diversi aspetti critici legati a problemi di instabilità
finanziaria che spesso hanno compromesso lo sviluppo degli investimenti,
nonché all’onerosità dell’indebitamento,
estremamente variabile rispetto alla quantità di rapporti.
A livello di sistema, invece, tale prassi ha spinto le banche ad
applicare ai rapporti creditizi tassi medi non differenziati rispetto
al diverso merito di credito e a fare affidamento sempre più
sulle garanzie, piuttosto che sulla qualità effettiva del
prenditore, penalizzando le imprese più sane e alimentando
fenomeni di selezione avversa e di potenziale fallimento del mercato.
Proprio per superare la prassi del multi-credit, la recente letteratura
ha proposto il modello del relationship banking, che implica per
la banca l’orientamento dell’offerta al servizio della
relazione con il cliente e la ricerca della redditività aziendale
sui margini del rapporto nel suo complesso, piuttosto che della
singola transazione. Il passaggio ad un approccio basato sul corporate
relationship banking si basa sulla fidelizzazione della clientela
attraverso un’offerta globale e integrata di servizi creditizi
e finanziari che consente economie informative, maggiore trasparenza
e un più efficace controllo dei rischi. Poiché la
prospettiva del consolidamento della relazione implica che la banca
segua costantemente l’impresa nel suo percorso di sviluppo,
il corporate banker diventa l’interlocutore privilegiato non
solo rispetto alla gestione della finanza ordinaria, ma anche nel
sostenere i processi di crescita dell’impresa.

Tale modello si concretizza in un’assistenza articolata e
personalizzata nella soluzione di tutte le esigenze finanziarie
delle imprese, sulla base di una relazione consulenziale di lungo
periodo che rende possibile una riduzione delle asimmetrie informative
tra banche e imprese e dei costi del credito grazie al parallelo
decremento dei costi di screening e di monitoring. Benché
il relationship banking presupponga teoricamente il ricorso ad una
“banca principale”, l’impresa operativamente deve
cercare di evitare fenomeni di hold-up o di cattura informativa
da parte della banca principale. In tal modo ad essa verrebbe “impedito”
di avvalersi, sia pure marginalmente, anche di altre banche, esponendola
al rischio di non poter controllare adeguatamente il costo del rapporto
con la banca principale.
L’approccio del relationship banking non è però
un modello valido in tutte le occasioni. Esso implica preliminarmente
una segmentazione delle imprese che tenga conto dei bisogni specifici
e della propensione della domanda alla costruzione di una relazione
forte con il sistema bancario, che può instaurarsi ad esempio
con la clientela corporate, caratterizzata da adeguate dimensioni
e un modello di domanda di servizi finanziari complesso. L’approccio
del transactional banking, volto invece alla massimizzazione a breve
dei ricavi di vendita di ogni operazione, non viene considerato
superato, ma circoscritto a particolari segmenti di clientela, retail
e small business, caratterizzati da esigenze finanziarie di tipo
elementare e, conseguentemente, da una domanda di prodotti di natura
semplice e standardizzata.
Nello scenario evolutivo brevemente descritto, il dottore commercialista
è chiamato a svolgere il ruolo strategico di advisor finanziario,
nella progettazione di soluzioni efficienti in tema di finanza aziendale,
attesa la vasta gamma di prodotti-servizi offerti dal corporate
banker. Nel rapporto che si instaura tra impresa e consulente aziendale,
infatti, la dottrina ha evidenziato che viene a cadere la criticità
avanzata dall’analisi teorica in relazione al rapporto principale/agente.
Ciò in quanto, con riguardo al modello di corporate governance
delle imprese di piccole e medie dimensioni, la relazione tra imprenditore
e professionista non può essere descritta come un classico
rapporto di agenzia, ma come un rapporto di carattere fiduciario
che si sviluppa progressivamente nel lungo periodo. Il dottore commercialista,
condividendo una base valoriale comune alle imprese di piccole e
medie dimensione e possedendo i requisiti necessari perché
gli sia accordata la fiducia nel senso specificato, rappresenta
un caso tipico di soggetto esterno che diventa progressivamente
insider dell’azienda.
Una recente indagine condotta su un campione di imprese localizzate
in provincia di Milano ha evidenziato la rilevanza del ruolo del
commercialista dell’impresa all’interno dei rapporti
con il sistema bancario. La quasi totalità delle imprese
intervistate (98,56% delle piccole imprese e 95,83% delle medie
imprese) ne segnala la funzione di interfaccia con le banche. L’autore
della ricerca osserva che l’attività finanziaria dell’impresa
è in molti casi coordinata dal commercialista, il complesso
delle relazioni con il sistema finanziario non si qualifica, quindi,
quale processo di scambio impresa-banca, ma piuttosto come relazione
articolata in cui tre attori interagiscono con ruoli, tempi e margini
d’azione differenti (Caselli, 2003). La maggiore diversificazione
e fungibilità dell’offerta dei servizi di corporate
banking crea vieppiù spazi per l’intervento di un advisor
terzo, il dottore commercialista, che, facendo perno sulle proprie
competenze fiscali e finanziarie si candida come selezionatore delle
offerte provenienti dal mondo bancario. Per poter svolgere la funzione
di advisor finanziario, il dottore commercialista deve però
possedere una serie di competenze tecniche e relazionali, risorse
materiali e immateriali e una struttura organizzativa, tradizionalmente
rivolte ad altre attività professionali, quali la consulenza
amministrativa, contabile e tributaria.
Nell’attuale fase di evoluzione del rapporto banca-impresa,
caratterizzato dalle diverse modalità di offerta del transactional
e del relationship banking, oltre che da Basilea 2, al dottore commercialista
sono infatti richieste competenze particolari non solo per l’attività
di presentazione e valutazione dei prodotti-servizi offerti dal
corporate banker, ma anche per poter rispondere (o anticipare) le
esigenze delle imprese che intendono prepararsi adeguatamente ai
nuovi metodi di valutazione del merito creditizio delle banche e
ai conseguenti mutamenti nelle procedure di selezione, di monitoraggio
e di determinazione del pricing del credito. A tale scopo, il dottore
commercialista deve partire dall’esame dei contenuti tecnici
dell’Accordo di Basilea 2.
2. I contenuti di Basilea 2
Il tema dell’Accordo di Basilea è tuttora in piena
evoluzione. Il terzo documento di consultazione (CP3) è infatti
ancora all’esame dei diversi soggetti interessati (autorità
di vigilanza, soggetti vigilati, ecc.), prima della pubblicazione
della versione definitiva del “Nuovo Accordo” entro
fine giugno 2004 (prevista inizialmente entro la fine del 2003)
e della successiva entrata in vigore a fine 2006. Parallelamente,
la Commissione Europea in luglio 2003 ha emesso il suo Terzo documento
di consultazione, che indica come Basilea 2 verrà implementato
nell’Unione Europea dalla Direttiva “Risk-based capital
requirements”.
L’innovazione regolamentare introdotta da Basilea 2 è
finalizzata a creare una maggiore correlazione tra il patrimonio
delle banche e i principali elementi di rischio dell’attività
bancaria. A questo scopo, l’Accordo si basa su un insieme
unitario di tre strumenti di controllo del rischio, definiti pilastri
(pillar), per una maggiore tutela della stabilità degli intermediari
finanziari. Tali pilastri sono rappresentati: 1) dai requisiti patrimoniali
minimi; 2) dal sistema di controllo prudenziale dell’adeguatezza
patrimoniale; 3) dai requisiti di trasparenza delle informazioni.
Ai fini dell’attività professionale del dottore commercialista,
interessa maggiormente esaminare il contenuto del primo pilastro,
con particolare riferimento alle novità introdotte circa
le diverse metodologie di determinazione del requisito patrimoniale
a fronte del rischio di credito, per le notevoli implicazioni che
avranno sul rapporto banca-impresa. Le disposizioni dell’Accordo
incentivano infatti le banche ad adottare le nuove metodologie di
misurazione dei rischi di credito non soltanto per finalità
(esterne) di vigilanza, ma anche per finalità (interne) di
natura gestionale, implicando, tra l’altro, nuove modalità
di affidamento e di pricing dei prestiti alle imprese.
L’attuale normativa di vigilanza sul capitale delle banche
(Basilea 1) è fondata sulla determinazione di un coefficiente
patrimoniale (non inferiore all’8%), in cui il numeratore
è rappresentato dal Patrimonio di Vigilanza (PV) e il denominatore
dalle attività ponderate per il rischio (Risk Weighted Asset
– RWA) di credito e di mercato.
Con riferimento al rischio di credito, la determinazione del requisito
patrimoniale in termini analitici può essere rappresentato
dalla nota formula:
PV RWA * 8%
dove PV = Patrimonio di Vigilanza assorbito dall’attività
in prestiti, RWA = sommatoria delle attività in prestiti
ponderate per il rischio; 8% = coefficiente minimo richiesto. In
particolare, l’aggregato RWA viene ottenuto dal prodotto della
singola esposizione per un coefficiente di ponderazione basato sul
teorico rischio di credito delle singole attività, determinato
in funzione del settore d’appartenenza e/o del Paese d’origine
del debitore.
L'attuale configurazione dei coefficienti patrimoniali ha suscitato
numerose critiche, soprattutto con riferimento alle distorsioni
che possono sorgere dalle sue applicazioni alla realtà quotidiana.
Le debolezze riscontrate sono riassumibili nel modo seguente:
- differenziazione delle categorie di prenditori non basata sul
profilo di rischio individuale;
- mancata previsione della struttura a termine del portafoglio crediti
(per cui non c’è differenziazione tra un credito della
durata di un giorno rispetto ad un credito di 10 anni);
- scarsa considerazione del valore delle garanzie e delle operazioni
di copertura;
- riconoscimento del beneficio della diversificazione inadeguato
rispetto al potenziale di riduzione del rischio complessivo (per
cui il capitale necessario a fronte di 100 crediti da un milione
è lo stesso richiesto per un credito da 100 milioni);
- limitata possibilità di compensazione tra le prestazioni
attive e passive della stessa controparte;
- visione complessiva del rischio di credito che spinge a tenere
separati il banking book dal trading book, incoraggiando fenomeni
di arbitraggio regolamentare.
Basilea 2 prevede di modificare la determinazione dell’attuale
coefficiente minimo, sia mutando la metodologia di stima del requisito
patrimoniale a fronte del rischio di credito che inserendo, sempre
al denominatore del coefficiente, un nuovo requisito a fronte del
rischio operativo.
Con riferimento al rischio di credito, vengono definite tre diverse
metodologie per calcolare l’aggregato RWA in modo da renderlo
più coerente all’effettivo grado di rischio della controparte.
I metodi tra i quali le banche possono optare sono quello standard
e quello dei rating interni; quest’ultimo si distingue ulteriormente
in metodo base e avanzato, a seconda delle modalità con cui
vengono determinate le diverse componenti del RWA. Altre novità
sostanziali sulla determinazione del requisito patrimoniale a fronte
del rischio di credito riguardano una nuova e più stringente
definizione di default (90 giorni di ritardo nei pagamenti, con
una specifica deroga per l’Italia sino a 180 giorni) nonché
il riconoscimento, anche ai fini regolamentari, di una gamma più
ampia di tecniche generalmente utilizzate dalle banche per mitigare
i rischi di credito (garanzie reali, garanzie personali e derivati
su crediti, disallineamenti di scadenza, strumenti compositi, compensazioni
di posizioni di bilancio e accantonamenti), che consentono alle
banche una sensibile riduzione dei requisiti patrimoniali regolamentari.
Il Metodo standard definito da Basilea 2 stima l’aggregato
RWA moltiplicando l’esposizione (al netto di eventuali accantonamenti
specifici) per un coefficiente di ponderazione che è più
sensibile al grado di rischio effettivo della controparte. Nel caso
di imprese, a ciascuna esposizione viene assegnato un coefficiente
di ponderazione (20%, 50%, 100% e 150%) basato sul rating (da AAA
a CCC) ricevuto da agenzie di rating indipendenti. Le esposizioni
verso imprese che invece non sono dotate di rating esterno (in Italia,
la quasi totalità) sono ponderate per un coefficiente standard
del 100%; per quelle invece che, per determinate caratteristiche,
rientrano nelle esposizioni definite al dettaglio (retail) è
previsto invece un coefficiente di ponderazione del 75%. Un’esposizione
viene considerata retail se concessa nei confronti di individui
e piccole imprese; se di importo inferiore a € 1 Mln; se utilizzata
mediante forme tecniche non sofisticate; se granulare rispetto alle
altre esposizioni retail.

In alternativa, le banche possono optare per l’innovativo
metodo dei rating interni (IRB). In tal caso, l’aggregato
RWA viene calcolato seguendo una metodologia più sofisticata,
idonea a garantire una misurazione del rischio di credito più
precisa e più coerente con le caratteristiche individuali
di solvibilità di ciascun prenditore. Tale metodologia deve
comunque essere approvata e validata sia a livello interno, dal
management, che esternamente, dalle autorità di vigilanza.
In particolare, nel metodo IRB, la determinazione dell’aggregato
RWA si basa su quattro componenti del rischio di credito: l’esposizione
al momento dell’inadempienza (Exposure at Default - EAD),
la probabilità di inadempienza entro un anno (Probability
of Default - PD), la perdita in caso di inadempienza (Loss Given
Default - LGD) e, in alcuni casi, la durata effettiva (Maturity
- M). In particolare, all’“esposizione” del metodo
Standard, si sostituisce l’EAD; alla classe discreta dei coefficienti
di ponderazione stabiliti dalle autorità nel metodo Standard,
si sostituisce una classe continua di coefficienti stimati sulla
base di una specifica funzione di ponderazione che converte i tre
componenti di costo PD, LGD e M in coefficienti regolamentari. Come
già evidenziato, il metodo IRB a sua volta si distingue in
due varianti, una versione base e una versione avanzata, proprio
sulla base delle diverse modalità (endogene della banca o
esogene delle autorità) con cui vengono stimati le componenti
del rischio di credito indicate in precedenza. In particolare:
b1) il metodo base (foundation) prevede che la banca utilizzi stime
endogene della PD, calcolate per ciascun grado interno di merito
o ciascun pool di esposizioni sulla base della propria esperienza
ed evidenza empirica; le altre componenti (EAD, LGD e M,) sono invece
stimate dall’Autorità di vigilanza;
b2) il metodo avanzato (advanced), invece, prevede una stima endogena
alla banca di tutte le quattro componenti del rischio di credito;
si tratta di un’opzione certamente più sofisticata
della precedente, che implica ingenti investimenti (in tecnologia
e in competenze) e un ampio database sulle singole esposizioni.
Anche nell’IRB sono previsti infine specifici aggiustamenti
per ridurre, a parità di rischio, il requisito patrimoniale
previsto per esposizioni verso imprese di dimensioni minori. In
tal caso, per quelle imprese con esposizioni superiori a €
1 Mln, ma con fatturato inferiore ai € 50 Mln, è prevista
l’applicazione alla funzione di ponderazione di correttivi
che riducono i requisiti fino al 20%; per le imprese considerate
retail (esposizioni inferiori a € 1 Mln) sono previste specifiche
funzioni di ponderazione per pool di esposizioni simili.
Come si è osservato, i tre metodi per la determinazione dei
requisiti patrimoniali per il rischio di credito sono caratterizzati
da un crescente livello di sensibilità. Conseguentemente
le banche avranno elementi via via più risk-sensitive per
fare le proprie scelte di selezione, di pricing e di gestione dei
prestiti delle imprese.
3. Le implicazioni di Basilea 2 sul rapporto banca-impresa
I principali elementi tecnico-operativi di Basilea 2 – delineati
sulla base delle best-practice a livello internazionale –
lasciano ipotizzare un notevole impatto sulla tradizionale prassi
bancaria della gestione del rischio di credito. Ad essere coinvolte
non saranno soltanto le aree responsabili delle segnalazioni di
vigilanza, ma più in generale le funzioni strategiche, operative
e organizzative relative all’attività in prestiti:
dai processi di concessione/revisione dei fidi, a quelli di diversificazione
e quindi alle condizioni di pricing.
Il grado di pervasività della norma sul sistema imprese dipenderà
comunque dalle scelte di ciascuna banca in ordine alle modalità
di segmentazione della clientela e ai metodi di determinazione dei
requisiti patrimoniali sulla base di precise opzioni strategiche
(influenzate, tra l’altro, anche da variabili interne quali
la dimensione, la localizzazione, ecc). Si potrà verificare,
ad esempio, che una stessa impresa venga considerata small e trattata
con il metodo standard da una banca e, allo stesso tempo, essere
considerata, da un’altra banca, sempre nel segmento small
ma trattata con un metodo IRB. L’impresa, se sana e affidabile,
appartenendo a classi di rating migliori, sarà più
avvantaggiata scegliendo la banca che la tratta con una metodologia
IRB, in quanto sarà valutata con un metodo più preciso
e sofisticato che farà emergere più chiaramente il
suo minor grado di rischio, potendo contare su volumi e condizioni
di prestito migliori rispetto al metodo standard.
In ogni caso, nell’ultima versione dell’Accordo, i pericoli
di un potenziale overpricing e/o razionamento del credito erogato
a favore del mercato retail si sono ridotti considerevolmente. Con
riferimento al metodo standard, ad esempio, il requisito di capitale
per lo small business è pari al 6% (75% * 8%) contro l’attuale
8% (100% * 8%). La riduzione a favore di tale segmento è
dovuta al fatto che il portafoglio di crediti di piccola dimensione
presenta, a parità di perdita attesa, perdite inattese inferiori
a quelle di un portafoglio con imprese di medie e grandi dimensioni,
in ragione del maggiore impatto della congiuntura economica negativa
su queste ultime realtà. Per le banche che utilizzano, viceversa,
l’approccio IRB avanzato, recenti indagini hanno confermato
che il costo del credito alle PMI è ancora più basso
in tutte le ipotesi in cui la funzione regolamentare rispetti le
seguenti condizioni:
• PD 2%; LGD 45% · requisito IRB 5,5%
• PD 0,4%; LGD 85% · requisito IRB 4,9%.
In sintesi, il nuovo approccio produrrà un impatto certamente
positivo sulle imprese più solide e solvibili, nonché
su quelle in grado di fare un corretto uso delle garanzie: tali
imprese riusciranno ad ottenere giudizi favorevoli, rating bassi
e quindi tassi più convenienti. Le imprese con standing creditizi
peggiori, invece, saranno penalizzate perché subiranno un
rialzo dei costi della provvista o addirittura una riduzione dei
volumi dei prestiti; a tali imprese converrà quindi migrare
verso le banche che opteranno per una metodologia standard. Il sistema
delle imprese deve comunque saper rispondere adeguatamente alle
nuove logiche delle banche, a vantaggio di un nuovo modello di partnership
banca-impresa. Verranno premiate quelle imprese che sapranno ridurre
i tradizionali comportamenti “opportunistici” e aumentare
il livello di trasparenza nei confronti delle banche.
A tal fine, le imprese dovranno produrre un maggior flusso di informazioni
e di dati, non soltanto contenute nei tradizionali documenti pubblici
(es. statuti e bilanci), ma anche nei documenti interni (budget,
report, business plan, ecc.) – peraltro non sempre formalizzati
esplicitamente dalle imprese per finalità interne di gestione
– in modo da poter dare informazioni esaurienti sul complessivo
“progetto di impresa”.
Certamente lo sviluppo della funzione finanza diventerà la
leva del cambiamento. Essa dovrà accrescere la propria importanza
rispetto alle altre funzioni aziendali e dovrà essere integrata
nell’ambito del processo di pianificazione strategica. In
particolare, la funzione finanza dovrà ridisegnare la struttura
finanziaria dell’impresa per adeguarla alle nuove modalità
di valutazione del merito creditizio delle banche; dovrà
periodicamente verificare le condizioni di equilibrio dell’impresa
al fine di correggere eventuali situazioni problematiche, senza
subire passivante il giudizio/rating delle banche. Questo nuovo
atteggiamento spingerà le imprese ad arricchire la funzione
della domanda nei confronti delle banche con servizi finanziari
più complessi e a maggior valore aggiunto. In prospettiva,
l’impresa, ormai rafforzata nella struttura, potrebbe anche
ricorrere direttamente al mercato mediante l’emissione di
titoli, con sensibili vantaggi economici e di immagine.
4. Il ruolo del dottore commercialista nel nuovo accordo
Non tutte le imprese hanno però le risorse per sviluppare
al proprio interno la funzione finanza. Le PMI, ad esempio, sono
penalizzate dalle proprie caratteristiche strutturali (modello di
proprietà chiusa, sottocapitalizzazione, eccessivo indebitamento,
mancanza di una struttura organizzativa, esiguità delle garanzie
patrimoniali, assenza di adeguata cultura finanziaria, ecc.) e soprattutto
dalle ridotte dimensioni che non consentono di sfruttare le economie
di scala e rendere convenienti la creazione di una funzione finanza
interna. Gli small business dovranno quindi rivolgersi all’esterno,
con preferenza per i propri consulenti.
In tale contesto, il dottore commercialista assumerà il ruolo
cruciale di catalizzatore del nuovo modello di partnership banca-impresa
in quanto insider dell’impresa, dotato delle necessarie competenze
aziendali in tema di finanza aziendale e delle conoscenze tecniche
legate all’accordo di Basilea, che gli consentono di comprendere
compiutamente le nuove logiche con cui la banca si muove.
Tra le diverse opportunità e spazi economici dischiusi dalle
recenti innovazioni regolamentari, il commercialista potrà
svolgere ad esempio la nuova funzione di “rater aziendale”.
Atteso che i rating sintetizzano tutte le informazioni disponibili
sull’azienda su una scala ordinale di valori (da AAA a CCC),
a ciascuno dei quali associare una probabilità di default,
il dottore commercialista potrà divenire un efficace rater
aziendale se riuscirà a governare l’informazione quantitativa
contenuta nei dati economico-finanziari espressi nei valori e negli
indici di bilancio, l’informazione qualitativa sull’andamento
del settore e sulle pressioni competitive, sulla capacità
ed abilità del management aziendale, ma anche l’informazione
derivante dalla disponibilità di accesso, da parte dei soggetti
censiti, all’importante collateral reputazionale definito
dall’anagrafe della Centrale dei rischi (analisi andamentale).
La catena del valore nell’attività di rater aziendale
potrebbe quindi essere rappresentata attraverso le seguenti fasi
ordinate cronologicamente:
Fase I - Acquisizione della logica di funzionamento dei modelli
di rating.

Fase II - Predisposizione di una scheda di contatto per avviare
un processo di valutazione del profilo di rischio dell’impresa.
Fase III - Valutazione e controllo degli indicatori gestionali con
valenza sul rating.
Fase IV- Definizione della strategia di impatto di strumenti e tecniche
finanziarie evolute.
Fase V - Comunicazione del credit standing.
L’area a più elevato valore aggiunto per l’impresa,
che potrebbe peraltro qualificare maggiormente l’attività
del commercialista, sarebbe la IV. Partendo da un iniziale giudizio
simulato di rating, il commercialista consentirebbe all’impresa
attraverso interventi di ristrutturazione finanziaria di migliorare
tale giudizio. Nel seguito si indicano alcuni esempi di carattere
innovativo virtuosi ai fini di Basilea 2.
• I finanziamenti partecipativi (mezzanine finance). Sono
strumenti finanziari finalizzati al mutamento genetico del debito
in capitale proprio e a collegare il costo del finanziamento alla
redditività aziendale.
• Restrictive covenants. Sono micro-innovazioni metodologiche
riferite alla best practice bancaria operanti negli schemi contrattuali
relativi al mercato del credito a medio/lungo termine. L’utilizzo
di restrictive covenants, il cui valore viene assunto come clausola
modificativa o risolutiva del rapporto creditizio, consente di disporre
di un sistema di segnali tempestivi sul deterioramento della situazione
economico-finanziaria dell’impresa, di ridurre il peso delle
garanzie reali e di adeguare il costo del finanziamento all’effettiva
rischiosità aziendale, lungo l’intero arco di ammortamento
del prestito. Ad esempio, un covenant finanziario potrebbe prevedere
che il rapporto debt-equity dell’azienda non debba superare
in ogni anno di ammortamento del prestito, il valore soglia dell’1,2.
In caso contrario lo spread inizialmente deliberato dalla banca
sarebbe maggiorato di una percentuale pari all’X% (clausola
di step up). Se l’azienda, adottando un comportamento virtuoso,
riducesse invece il proprio livello di indebitamento in modo da
far diminuire il summenzionato rapporto debt-equity al di sotto
dell’1,2, lo spread deliberato dalla banca sarebbe ridotto
di una percentuale pari a y% (clausola di step down). Da questo
esempio emerge chiaramente come sia sufficiente un’innovazione
nella predisposizione dei contratti di finanziamento per implicare
un forte impatto sul costo del credito.
• Le garanzie pubbliche e consortili private (confidi) associate
ad operazioni di cartolarizzazione degli attivi bancari. Quando
ad esempio un portafoglio prestiti a medio termine garantito da
un confidi dovesse raggiungere un’adeguata massa critica,
la banca potrebbe cederlo con una tecnica di true sale ad una società
veicolo, che, secondo lo schema classico, finanzierebbe l’acquisto
di tale portafoglio attraverso l’emissione sul mercato dei
capitali di una o più classi di Asset Backed Securities (ABS)
sottoscritte dagli investitori istituzionali e di una tranche Equity
garantita dal confidi, che si sarebbe nel frattempo munito di una
contro-garanzia di natura primaria da parte di un fondo pubblico
di garanzia. Tale tecnica di ingegneria finanziaria consentirebbe
alle PMI di accedere a finanziamenti di medio periodo ad un costo
contenuto del funding.
Conclusioni
Pur cruciale ai fini di un impatto “controllato” dei
nuovi requisiti patrimoniali di Basilea 2 sul sistema impresa, il
dottore commercialista è comunque soltanto uno degli attori
del cambiamento.
E’ necessario il concorrente impegno di altre componenti del
mondo politico, economico e sociale. Un ruolo centrale potrà
essere svolto dagli organismi di categoria di banche e imprese.
Questi dovranno diffondere la conoscenza sui contenuti dell’innovazione
normativa e sul suo potenziale impatto a livello aziendale; stimolare
i soggetti coinvolti ad operare gli investimenti necessari per poter
implementare i nuovi modelli anche a fini operativi; promuovere
e coordinare, a livello centrale, progetti e iniziative comuni per
consentire anche agli operatori marginali e di minori dimensioni
di operare i dovuti investimenti. Altri interventi saranno necessari
per ridurre il livello dei requisiti patrimoniali a fronte del rischio
di credito.
A tal fine, si dovrà stimolare il ricorso alle garanzie pubbliche
e ai confidi, quali strumenti di mitigazione dei rischi di credito.
Ai fini di un loro riconoscimento da parte delle autorità,
è necessario adeguare le strutture operative e le modalità
di intervento di questi organismi ai requisiti richiesti.
Un ulteriore vantaggio potrebbe derivare da altri progetti di riforma
in atto: quello della legge fallimentare, nella parte che prevede
una riduzione dei tempi di recupero delle posizioni in default;
quello del diritto societario che, se da un lato prevede per le
imprese una maggiore flessibilità nel ricorso al mercato
finanziario, dall’altro appesantisce il processo di valutazione
delle banche e “complica” la disciplina sulle responsabilità
patrimoniali dei soci e delle società; quello fiscale, che
ridisegna la convenienza fiscale all’indebitamento delle imprese.
Un’ulteriore leva è rappresentata dal sistema degli
incentivi (comunitari, nazionali e regionali). Con modalità
diverse, questi strumenti di intervento pubblico potrebbero, ad
esempio: consentire a categorie marginali di operatori (imprese
operanti in regioni svantaggiate, imprese di minori dimensioni,
ecc.) di operare i dovuti investimenti sfruttando specifiche forme
di agevolazioni o di contributi; perseguire, a livello di sistema,
finalità particolari come ad esempio l’aumento della
trasparenza dei mercati, riducendo l’incidenza di determinate
tipologie di costi per le imprese (ad esempio, costi di rating o
di certificazione di bilancio); migliorare le condizioni di accesso
al credito, concedendo specifiche forme di garanzie alle imprese.
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