Sul piano morale
e professionale, siamo di fronte a una nuova débacle di un
intero gruppo
di imprenditori, manager, consulenti di una diffusa
concezione
di fare economia
e di fare impresa.
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1989: Parmalat, da poco quotata in Borsa, entra in una grave crisi
finanziaria per eccesso di debiti dovuti a cattiva gestione industriale.
E’ salvata da una brillante operazione della Akros, che mobilita
capitali imprenditoriali non chiarissimi e facendo ricorso al mercato.
In una delle principali merchant bank del tempo, alcuni amministratori,
autorevoli e onesti, direttori generali di banche azioniste, propongono
con vigore di assumere una quota importante in Parmalat. Il presidente
e il consigliere delegato si battono contro la proposta. Motivazioni:
la società è opaca, la natura dei nuovi capitali è
ambigua, la fiducia in Tanzi, continuamente colluso con la politica,
è bassa. La battaglia è vinta.

2003: lo stesso presidente è a capo di una società
di fondi di investimento, una ventina, che nell’insieme gestiscono
oltre 17 miliardi di euro. Nessuno di questi fondi ha investito
un solo euro in azioni o in obbligazioni Parmalat: i gestori hanno
giudicato che il gruppo è oscuro e che è stato montato
in quel modo per non far capire nulla.
2002: gli interventi americani post-Enron sono stati forti ed efficaci
sul piano repressivo, con l’aggravamento delle pene per il
falso in bilancio (legge Sarbanes-Oxley). Ma fatta saltare qualche
testa e comminata qualche multa alle colluse investment bank, l’iniziativa
ha lasciato irrisolti i grandi nodi. Lo strapotere dei Ceo (Chief
executive officer) e la coincidenza nella stessa persona del presidente
e dell’amministratore delegato restano intatti (come nel caso
Parmalat); il conflitto di interessi delle grandi banche d’investimento
universali, colossale e plateale, resta imperturbato (come nel caso
Parmalat); la totale e ormai incurabile inaffidabilità –
perché basata su concezioni anche teoricamente distorte del
loro mestiere – degli “auditors” e del loro oligopolio
collusivo rimane immutata (come nel caso Parmalat); l’inutilità
del costosissimo “rating” resta comprovata (come nel
caso Parmalat); la struttura sostanzialmente truffaldina delle società
off shore e dei finti fondi di investimento nei paradisi fiscali
(ce ne sono 4.000 solo nelle isole Cayman) è intoccata (come
nel caso Parmalat).

Chi pensa al caso Parmalat come a un caso da strapaese e invoca
il modello americano, non ha capito e non fa capire niente. E chi
invoca per la Consob i poteri della Sec («così tutto
andrà a posto»), inganna l’opinione pubblica
e non ha letto le 127 pagine di fuoco che la Commissione Affari
Governativi del Senato americano ha inviato proprio alla Sec, dopo
il caso Enron. Vi scrive il presidente della Commissione: noi abbiamo
visto con il caso Enron una rottura fondamentale del sistema; abbiamo
trovato un fallimento sistematico e catastrofico del ruolo della
Sec. Se per l’Italia il caso Parmalat è un disastro,
per il sistema finanziario internazionale è solo un anello
di una lunga catena di malversazioni e di crisi, i cui principali
protagonisti sono sempre sulla cresta dell’onda, potenti e
irridenti, tracotanti e incancellabili dagli scenari economici e
finanziari anche internazionali.
Dov’era la Consob quando, nel 1998, Parmalat deliberò
un aumento di capitale di mille miliardi di lire in azioni di risparmio?
Che domande formulò? Non aveva niente da chiedere di fronte
alla raffica di emissioni di bond su piazza italiana (206 milioni
di euro nel 1997; 342 nel 1998; 350 nel 2000; 600 fino al 2002)?
Non era il caso di domandare dove andava a finire tutto quel denaro?
E il rapporto tra debito finanziario e capitale netto, passato da
2,5 a 3,8, sei volte superiore alla media del settore, non legittimava
qualche indagine? Nel settembre 2003 R&S, l’ufficio studi
di Mediobanca, riclassificò due poste dei bilanci Parmalat,
per un totale di 554 milioni di euro, da patrimonio di terzi a debito.
Con questa classificazione, che forse la Consob poteva anticipare,
il debito consolidato esplicato di Parmalat saliva a 6,6 miliardi,
con un’incidenza sul patrimonio netto del 441 per cento.
Tutto questo non poteva suscitare qualche preoccupazione? E non
poteva la Consob, pur con i limitati poteri che dice di avere, fare
un semplice calcolo aritmetico, mettendo a raffronto il limitato
cash flow del gruppo con l’abnorme livello di indebitamento,
e domandarsi quando e come lo avrebbe rimborsato? E’ vero
che fior di banche internazionali non si sono fatte le stesse domande,
come avrebbero dovuto. Ma almeno queste erano colluse, oscurate
da conflitti di interessi e ansiose di accaparrarsi lucrose provvigioni.

La verità è che non è la quantità dei
poteri che conta, ma la volontà di esercitarli: correttamente,
tempestivamente, liberamente e imparzialmente. A meno che la Consob,
come ogni rispettabile organismo burocratico italiano, non sia sempre
forte con i deboli e debole con i forti.
Siamo di fronte al collasso di un’altra grande impresa italiana,
una delle poche industrie alimentari di nostra proprietà,
di dimensioni internazionali. Non può certo far piacere ciò,
in un Paese che conta le imprese internazionali sulle dita, al massimo,
di un paio di mani, e che ha visto sparire, o quasi, interi settori
industriali in una insensata corsa alla deindustrializzazione, e
altri li ha visti, sempre per mismanagement, ripiegare da posizioni
di leadership europea a posizioni di seconda linea.
Questo aspetto è tanto più doloroso, in quanto Parmalat
si inserisce in un ruolo centrale della catena agro-alimentare,
e interagisce con settori a monte (allevatori) e a valle (formaggi,
altri derivati del latte), dove negli ultimi dieci anni è
stato realizzato, nonostante le multe europee sulle quote latte
e le follie e le violenze dei Cobas del latte, dai produttori e
allevatori seri un grande processo di modernizzazione, con punte
di assoluta eccellenza produttiva e qualitativa.
Sul piano morale e professionale, non vi è dubbio che siamo
di fronte a una nuova débacle di un intero gruppo rilevante
di imprenditori, manager, professionisti banchieri, consulenti di
un’intera concezione di fare economia e di fare impresa. E,
dunque, soprattutto venendo dopo le grandi difficoltà della
Fiat, i bond argentini, la Cirio, Finmatica, (ma c’è
ancora qualcuno che si ricordi del crack Ferruzzi, della voragine
Olivetti, dei buchi di Gemina?) è una nuova manifestazione
di una vera e propria crisi sistematica. L’Italia come Paese
deve farsi carico interamente e fino in fondo di questa débacle.
Soprattutto vigilando e prevenendo, ed estromettendo senza tentennamenti
i protagonisti di un capitalismo-canaglia (lo hanno definito “Casinò
Capitalism”) che non onora una nazione.
L'Observer del 28 dicembre 2003 sosteneva: a prima vista Parmalat
sembrerebbe una tipica impresa familiare italiana, costruita intorno
a prodotti alimentari e al prosciutto. Ma non si tratta di ciò...
Wall Street si è incontrata col capitalismo italiano per
produrre una Enron italiana.
Quello di Parmalat è un caso italiano soltanto nelle sue
origini. Nel suo sviluppo è un caso anche americano e internazionale.
E’ un altro brutto capitolo del disastro morale e operativo
della finanza internazionale. Le banche d’affari che hanno
consigliato Parmalat sono le stesse delle varie Enron & Co.
I revisori sono gli stessi. Le società di rating sono le
stesse. I trucchi e i meccanismi finanziari legali e societari applicabili
sono gli stessi e sono stati inventati da loro. Tra l’altro,
i dirigenti e i consulenti finanziari del gruppo italiano venivano
da quelle parti. Persino l’avvocato architetto di tali marchingegni,
il rappresentante italiano del Fondo Epicurum, non proveniva da
Collecchio, ma da ovattate stanze di un celebre studio legale di
matrice statunitense. E coloro che hanno sostenuto Parmalat nei
programmi di acquisizioni e di sviluppo forsennato appartengono
a grandi banche italiane, ma anche a formidabili banche straniere,
che continuavano a consigliare acquisti di bond persino nel mese
di novembre dell’anno di grazia 2003 dopo Cristo.

Sbagliano dimensione e prospettiva quei commentatori che parlano
di un disastro tipicamente italiano e delle imprese familiari in
particolare, dunque. La Parmalat non è rappresentativa del
capitalismo familiare italiano, ma di quell’imprenditoria
sempre a cavallo tra politica e impresa, e che ha imparato a cavalcare
la finanza internazionale, che già tanti danni ha fatto al
nostro Paese.
L’economia italiana è debole, ma in questo Paese esistono
centinaia di imprese, di tutte le dimensioni, alcune anche internazionali,
che con i metodi Parmalat e dei suoi consulenti e banchieri internazionali
non hanno proprio nulla da spartire.
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