Oggi
i Venticinque possono servire come modello
di ricostruzione di nazioni minacciate dall’arretratezza,
dall’anarchia
istituzionale, dai conflitti etnici
e religiosi e dal
terrorismo.
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Quella che nel 1951 creò
la Ceca, Comunità europea del carbone e dell’acciaio,
è ormai un’Europa preistorica. Ma è proprio
da quella che si deve partire per capire che Europa è, oggi,
quella dei Venticinque, e che fra alcuni anni potrà essere
dei Ventotto, e magari dei Trenta.
Si era venuti fuori dal secondo sterminio mondiale, e raso al suolo,
dissanguato, affamato, il Vecchio Continente chiese e ottenne dall’America
prestiti a lungo termine e farina, navi mercantili e latte in polvere,
carne congelata e sulfamidici, cardati di lana e zucchero. Il presidente
del Consiglio italiano che si recò negli Stati Uniti per
ottenere gli aiuti dell’Unrra, sapendosi «ritenuto da
tutti un nemico», Alcide De Gasperi, indossava un cappotto
rivoltato, che oggi sarebbe gettato alle ortiche anche dal più
scalcinato dei disoccupati cronici. Ma rappresentava emblematicamente
l’Italia dell’epoca.
Ebbe disco verde. In cambio, dovette promettere l’impegno
in un’opera di riconciliazione volta a cancellare il secolare
muro di odio che aveva separato in particolare la Germania e la
Francia, determinando la “lunga guerra civile” che aveva
trascinato nell’abisso l’Europa. Era la premessa decisiva
per la nascita della Comunità europea: un’Europa con
un “destino introspettivo”, concentrato nella ricostruzione
della democrazia nella pace e nella libertà.
Poco più di mezzo secolo dopo, i Sei sono più che
quadruplicati e l’Unione è votata a un destino più
vasto, determinato dalla fine della Guerra Fredda, dalla globalizzazione
dell’economia, da un diverso rapporto con l’America.
I vecchi, grandi valori sono sempre validi, l’eredità
dell’antica cultura è ancora essenziale, ma ora l’Europa
ha la forza numerica e la statura per diventare un continente strategico,
direttamente partecipe degli avvenimenti del pianeta e responsabile
dei loro esiti. Cinquant’anni fa i Sei servirono come modello
di riavvicinamento e di pacificazione di Stati che la storia e la
cultura avevano diviso e contrapposto. Oggi i Venticinque possono
servire come modello di ricostruzione di nazioni minacciate dall’arretratezza
economica, dall’anarchia istituzionale, dai conflitti etnici
e religiosi, dal terrorismo, dalla corruzione delle classi dirigenti.
Soltanto un’Europa siffatta, con l’esempio e con le
armi della dialettica politica, può esportare democrazia.
Ma soggetto mondiale ancora quest’Europa non è. Ha
nuove dimensioni, prevede nuovi compiti, deve darsi nuove regole
istituzionali, deve crearsi una moderna cultura politica, deve attrezzarsi
con maggiori mezzi finanziari, per essere al passo con i tempi attuali
e con più complesse esigenze. E’ di fronte a un campo
di lavoro sterminato, e questo genera apprensione e persino paura.
Perciò c’è in giro molto scetticismo, e l’alibi
è dato dal rincorrersi e sovrapporsi di analisi sui vantaggi
e sugli svantaggi esclusivamente economici dell’allargamento.
Intanto, al di là dell’Atlantico cresce la diffidenza.
Ha scritto la rivista americana Newsweek: l’ampliamento metterà
fine al progetto di un’Europa politica. La fine di un’Europa
politica fa parte del Sogno Americano. Perché gli Stati Uniti
sanno che un’Europa del genere prima o poi si dovrà
guardare intorno, e dovrà guardare in grande, occupandosi
direttamente di quel che accade sulla soglia di casa, in un immediato
retroterra che dopo l’ingresso dei Dieci è in bilico
o è in subbuglio. Ad Oriente l’Unione confina con Stati
in recupero, come la Romania e la Bulgaria, e con Stati pericolanti,
come l’Ucraina e la Bielorussia, e con una Russia che è
nello stesso tempo una potenza militare e uno Stato debole, con
in più la spina cecena nel fianco. A Sud-Est confina con
la Turchia, che è considerata “parte dell’Europa”
fin dal 1963. Attraverso Cipro e Malta è contigua al Mediterraneo
e al Vicino Oriente.
Di questi retroterra ci occupavamo anche prima, ma eravamo un’Europa
sotto pressione per la Guerra Fredda, con tutela difensiva americana.
Allora ci federava anche la paura di uno scontro mortale Est-Ovest.
Una paura che ora non esiste più. Dunque: non è finito
il sogno di un’Europa politica, è finita una strategia
americana. Sta a noi soltanto, in questi giorni, saperci trasformare
nel soggetto politico globale che ancora non siamo, e che dovremo
diventare per necessità e per opportunità.
Unificarsi politicamente e contare nel mondo vuol dire innanzitutto
riflettere su quali debbano essere, e di che natura, i confini continentali.
Conosciamo le condizioni imprescindibili per far parte dell’Unione:
Stato di diritto, economia di mercato, appartenenza alla storia
europea. Altrettanto indispensabile è la rinuncia a crescenti
quote della propria sovranità da parte dei singoli Stati:
adesso, nel commercio e nella moneta; nell’immediato futuro,
nella politica estera e in quella della difesa. Si tratta di rinunce
da regolare con la Costituzione, che fisserà le sovranità
della federazione, delle nazioni e delle regioni. Una Costituzione
non immobile, tolemaica, perché altre cessioni di sovranità
si imporranno in avvenire.
Dunque: quelli del Continente Europeo sono confini costituzionali,
oltre che «frontiere che s’incarnano in valori condivisi»;
sono confini disegnati innanzitutto da regole di decisione efficaci
e potenti, senza diritti di veto, perché l’assenza
delle regole e l’eccessivo uso del veto hanno paralizzato
i Quindici, così come potranno paralizzare i Venticinque.
Entrare in quest'Europa vuol dire accettare che questo confine tracciato
dalle regole si rafforzi di anno in anno e somatizzare di buon animo
i limiti posti agli Stati-nazione.
Gli scenari futuribili sono chiari, anche se di almeno medio periodo.
Per quanto tempo ancora la sterlina potrà resistere all’ingresso
nella moneta unica? E per quanto tempo la Norvegia potrà
restar fuori, sconsideratamente solitaria, dall’Unione? Per
parlare meglio all’Est, è fuor di dubbio che sarà
necessario includere Sofia e Bucarest nel concerto continentale.
Per parlare più direttamente con il mondo musulmano l’Europa
ha bisogno della Turchia, che con la Tracia ha da secoli un piede
nel Vecchio Continente, al quale ha guardato dalla rivoluzione kemalista
in poi.
Oltre, non è lecito andare. E sarebbe innaturale andare,
se non si vuole realizzare solo e semplicemente una vasta area di
libero scambio, (che comunque può nascere con forme di partenariato
al modo di quelle già esistenti con altri Paesi del bacino
mediterraneo), lasciando tramontare il sogno per cui nacque, a metà
del terribile secolo breve, l’aureo conio dell’Europa
dei Sei.
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