Dietro le diffidenze nei confronti
di un’Europa
a geometria
variabile si
nasconde il timore che Francia
e Germania
riprendano un ruolo egemone in Europa.
|
|
Ci sono stati anni in cui
all’unità dell’Europa si dava credito per una
speranza. Poi, anni in cui l’entusiasmo dettava il passo e
tutto sembrava possibile, e addirittura inevitabile. Oggi, credere
che l’Unione europea, così come è stata portata
avanti, abbia ancora un futuro vero, da solida e affidabile risposta
a sfide sempre più impegnative e globali, pare quasi più
una scommessa che non una scelta. Colpa della Costituzione non approvata,
dei veti e dei contro-veti che a Bruxelles hanno rovesciato il tavolo
del semestre italiano, e che obbligheranno attualmente l’Irlanda
e subito dopo l’Olanda a un difficile lavoro di ricucitura.
Certo, il braccio di ferro inscenato da Francia e Germania contro
Spagna e Polonia sembra destinato a lasciare qualche strascico.
Uno lo si è già visto: le Cancellerie di Parigi e
Berlino, insieme con quelle di Gran Bretagna, Austria, Olanda e
Svezia, propongono di congelare all’1 per cento del Prodotto
interno lordo il bilancio Ue. Il che vorrebbe dire tagli secchi
ai contributi per le regioni depresse e un colpo di clava, appunto,
a Spagna e Polonia, (ma anche al Mezzogiorno d’Italia, alla
Grecia e al Portogallo), che di zone ancora poco sviluppate abbondano.
Ma bastano i numeri, sempre diversi, a chiarire che qualche meccanismo
si è inceppato. Ultima è stata la Lettera dei Sei,
meno di un anno prima ci fu l’appello degli Otto, in mezzo
c’era stato l’appello dei Dieci. L’Europa sembra
dare i numeri e sulla ruota delle polemiche non escono quelli giusti:
i recenti Quindici, o i nuovi Venticinque. Non è necessario
neppure elencare i Sei, gli Otto o i Dieci di turno. Perché
cambiano come cambiano gli interessi, chi litigava per la guerra
in Iraq fila d’amore e d’accordo quando si tratta di
mitigare i Patti di Stabilità, o chi si allineava con gli
Stati Uniti poi ha preso le distanze, e chi, come Londra, lodava
la Polonia subito dopo ha minacciato di tagliarle i fondi, prima
ancora che entrasse nell’Ue.
Non è solo mal di Costituzione. C’è una crisi
di cornice messa su dai grandi Paesi d’Europa quando sono
stati costretti a confrontarsi con la crisi economica mondiale e,
insieme, con la prospettiva dell’allargamento. Da una parte
mancavano i quattrini, dall’altra bisognava spendere per un
progetto che portasse aria fresca alla stagnante economia continentale,
ma che nell’immediato richiedeva sacrifici e fiducia. Ciascuno
ha risposto secondo storia e inclinazione. Francia e Germania facendo
blocco, cercando di imporre agli altri decisioni motivate soprattutto
con il peso della posizione geografica, della massa economica e
di una straordinaria intesa politica. Realizzando in parte, cioè,
quella “Europa a due velocità” di cui ogni tanto
tornano a parlare con toni sempre meno vagamente minacciosi.

Stupisce che si stupiscano di suscitare resistenza e qualche ostilità.
Polonia e Spagna difendono vantaggi non ancora meritati. Ma ad assegnarglieli
è stato un Trattato, quello siglato a Nizza nel 2000, che
non può essere abolito solo perché ad alcuni non piace
più. Vale tuttora, inoltre, la ragione di fondo dell’allargamento:
i Paesi più ricchi mettano i quattrini, i Paesi entranti
portano in dote l’opportunità di fare dell’Europa
un punto di riferimento planetario in campo politico ed economico.
Cosa che senza di loro difficilmente avverrebbe. Possibile che a
Parigi e a Berlino sembri tanto poco?
Qualcuno poteva essere persino tentato di crocifiggere l’allargamento,
imputandogli la responsabilità del fallimento del vertice
di Bruxelles e della crisi senza precedenti in cui era caduta l’Unione
ancor prima di ampliarsi ad Est. Magari poteva esser tentato di
farlo passare per un alibi quasi perfetto. Ma sarebbe stata un’operazione
sporca. Perché, se a breve il traguardo della Costituzione
europea è saltato, non è stato per l’ingovernabilità
di un negoziato con Venticinque protagonisti, tutti muniti di diritto
di veto, ma perché a un certo punto nella partita sono spuntate
alcune carte truccate. In altre parole: c’era chi negoziava,
più o meno duramente e più o meno spinto dalla difesa
di interessi nazionali, (ancora una volta, Spagna e Polonia), alla
ricerca di un accordo generale europeo. E chi, invece, (ancora una
volta, Francia e Germania), si era seduto al tavolo con in testa
già un’altra Europa da affiancare a quella dei Venticinque
e perciò disposto a trattare, si fa per dire, solo alle proprie
condizioni: cioè, solo se gli altri erano disposti ad accettarle.
La presidenza italiana, dunque, è stata presa nella tenaglia
degli estremismi, e alla fine ha dovuto arrendersi all’evidenza
del fallimento, determinato dalle insidie del doppiogiochismo scaturite
tutte e soltanto dall’Europa dei Quindici.
Per ritrovare un vertice di svolta per la storia europea analogo
a quello di Bruxelles è necessario ritornare a Maastricht.
All’epoca, l’intesa franco-tedesca produsse un clamoroso
successo: il progetto dell’euro aperto a chi, avendone i requisiti,
volesse parteciparvi nel quadro di un Trattato europeo. A Bruxelles,
invece, la medesima accoppiata ha silurato un disegno ancora più
ambizioso, ma indispensabile per tenere insieme l’Europa allargata,
quello della Costituzione, semplicemente perché non riusciva
a imporre a tutti la propria equazione sulla redistribuzione del
potere nella nuova Unione. Lo ha fatto con una manovra meno scoperta,
ma molto simile a quella con la quale aveva orchestrato soltanto
qualche settimana prima il “golpe” contro le regole
del Patto di Stabilità.
Nessuno nega che il criterio della doppia maggioranza, che rifletta
quella degli Stati e delle rispettive popolazioni, sia il più
chiaro, trasparente e comprensibile. Nessuno però può
nemmeno negare che il ritocco della formula avanzata nella bozza
della Convenzione (50 per cento degli Stati, 60 per cento della
popolazione) o il rinvio della sua applicazione non sarebbe stato
uno scandalo. Tanto più, quando si pretendeva che, accettando
il nuovo sistema, Spagna e Polonia rinunciassero al rispettivo “super-potere”
conquistato tre anni prima con un Trattato legittimo, quello di
Nizza, appunto, approvato all’unanimità dai Quindici
proprio in vista dell’allargamento e proprio sotto la presidenza
europea della Francia, che poi lo ha rinnegato come superato dalla
storia (?), poco dopo ratificato da tutti i Venticinque, utilizzato
come base per negoziare i Trattati di adesione dei nuovi Dieci,
e infine non ancora in vigore, perché lo sarà solo
dal novembre 2004.

«Meglio nessun accordo che uno al ribasso», la parola
d’ordine imperante e ineccepibile, perché apparentemente
militava per un’Europa alta e nobile, efficiente e coesa,
quindi protagonista sugli scenari mondiali. In realtà, la
formula 50/60 piaceva tanto e soprattutto alla Francia per due ragioni:
perché regalava ai Grandi un ruolo praticamente ineludibile
nelle coalizioni di voto, favorendo di fatto e di diritto il “direttorio”
in Europa; e perché le permetteva di mantenere un rapporto
di potere non troppo sbilanciato con la Germania (sebbene sia molto
più popolosa). Piaceva alla Francia perché comunque,
in un modo o nell’altro, consentiva di creare l’Europa
delle avanguardie, cui Parigi aveva sciolto un’elegia: «E’
una buona soluzione perché darà un motore e l’esempio
permetterà all’Europa di andare più presto,
più lontano e meglio».
«L’Europe est la France», amava ripetere François
Mitterrand. Che con il tedesco Helmut Kohl a Maastricht fece l’euro
non per dividere, ma per unire l’Europa. Invece ora Parigi
e Berlino sembrano ansiose di tirar dritto, liberandosi di tutte
le zavorre, reali o presunte, che ne intralcino la strada: regole,
Trattati come quello di Nizza, peso dell’allargamento presente
e futuro compreso. Il progetto è ripartire dalla vecchia
Europa dei Fondatori senza rompere con la Grande Unione, preziosa
per il suo mercato unico. Un progetto che potrebbe essere anche
inevitabile e condivisibile se fosse gestito in modo più
europeo: non con l’arroganza di chi vuole asserirsi anche
al di sopra della legge, sopra i propri Trattati e sopra le proprie
scelte a favore di un allargamento “destrutturato”,
già divenuto scomodo. Brutta Europa, quella che sembra attenderci,
con o senza Costituzione.
Il solo dato certo emerso da Bruxelles era che l’interesse
generale dell’Europa si trovava messo in discussione. Il Progetto
di Trattato Costituzionale elaborato dalla Convenzione era stato
un compromesso, e come tale non aveva raccolto il consenso pieno
e convinto di nessuno. Ma il compromesso era necessario e il fatto
che non abbia avuto successo ha posto l’Ue in una condizione
d’incertezza dalla quale è necessario venir fuori al
più presto.
Vi sono pochi dubbi che la conclusione negativa conferma le critiche
che erano state a suo tempo espresse riguardo al modo con il quale
la Convenzione aveva deciso di procedere. Il mandato affidatole
non era stato quello di preparare un nuovo Trattato o addirittura
una vera e propria Costituzione, ma un testo che una successiva
conferenza intergovernativa avrebbe avuto il compito di ratificare
“en bloc”, o comunque apportandovi correzioni molto
limitate. La Convenzione non era un’assemblea costituente.
Il potere costituente rimaneva, e rimane, nelle mani degli Stati
membri, dei loro Parlamenti e dei loro governi. Considerazioni di
legittimità democratica e di realismo politico avrebbero
dovuto rendere chiaro che le decisioni sul futuro dell’Europa
dovevano essere effettivamente prese, e non meramente recepite,
da chi ha questo potere, legittimato dalla tradizione e dalla democrazia.

Il mandato di Laken poneva la Convenzione di fronte a quesiti ai
quali essa doveva dare risposte non necessariamente univoche. Vi
erano buone ragioni per dubitare che la decisione di produrre un
testo compiuto e chiuso da parte della Convenzione fosse la maniera
più efficace per ottenere in tempi rapidi un nuovo Trattato
fondamentale. Come pure vi erano buone ragioni per immaginare che
gli Stati che non avessero visto riflesse nel testo preparato esigenze
da essi ritenute primarie, non si sarebbero piegati a votarlo in
nome dell’opportunità di non mettere in discussione
un progetto compiuto. L’esperienza della formazione delle
istituzioni europee mostrava che questo non era mai avvenuto. I
progressi erano stati ottenuti con la negoziazione, non attraverso
l’imposizione di modelli precostituiti, seppure elaborati
con grande competenza tecnica.
Nel vuoto lasciato da un non riuscito tentativo di un momento “costituzionale”,
che avrebbe dovuto trovare l’accordo unanime degli Stati membri,
sono in molti a ritenere che il futuro prossimo dell’Unione
vedrà il prevalere di un’Europa “a geometria
variabile”, nella quale alcuni – e solo alcuni –
Paesi procederanno verso «un’Unione sempre più
stretta». Questa ipotesi dell’Europa a due velocità
ha suscitato, e non da un tempo recente, diversi timori. Si teme
in particolare che essa introduca un elemento di divisione che non
potrà essere riassorbito in futuro. Di fatto, che essa creerebbe
nel nostro Continente due diverse realtà politiche e istituzionali,
potenzialmente divergenti e non convergenti. Si tratta di timori
legittimi, ma da alcuni ritenuti eccessivi.
Là dove alcuni Stati membri decidano di cooperare in modo
più stretto, il compito dell’Unione è di controllare
che la creazione di più forti aree di azione collettiva tra
alcuni degli Stati membri avvenga nel rispetto dei princìpi
generali dei Trattati. Ad esempio, che essa non comporti delle barriere,
di fatto o di diritto, alla libera circolazione delle persone, dei
beni, dei capitali o dei servizi, o che essa non comporti forme
di sovvenzione, dirette o indirette, alle imprese dei singoli Stati.
Se queste condizioni saranno soddisfatte, la creazione di più
forti aree di azione collettiva tra singoli Paesi non genererà
effetti negativi, ma contribuirà fortemente all’integrazione
generale dell’Unione. Sarà un’ottima base per
un momento autenticamente costituzionale, non un ostacolo.
Ma attualmente, dietro le diffidenze nei confronti di un’Europa
a geometria variabile, si nascondono timori che sono di tipo più
strettamente politico. Si nasconde il timore che, messo da parte
il momento costituzionale, Francia e Germania riprendano un ruolo
egemone in Europa. Del resto, i due Paesi hanno fatto ben poco per
fugarlo. Tanto più che erano in parecchi a ritenere che la
rigidità francese e tedesca sul numero di voti da attribuire
a Madrid e a Varsavia non sia stata estranea alla preoccupazione
delle due sponde del Reno di vedere diluito il loro ruolo centrale
nell’Europa a Venticinque. Una preoccupazione che avrebbe
finito con il prevalere rispetto al dato – inoppugnabile –
che il Progetto di Trattato costituzionale rifletteva in modo fondamentale
la cultura costituzionale e quella amministrativa della Germania
e della Francia, marginalizzando le tradizioni non soltanto dell’Inghilterra,
ma anche dei Paesi dell’Europa latina.
Messo da parte il testo della Convenzione, si è tornati dunque
alle regole di Nizza, che alcuni non ritengono una prospettiva soddisfacente.
L’Unione aveva bisogno di un’evoluzione in senso costituzionale,
anche senza la prospettiva di dover accogliere dieci nuovi membri.
Con Venticinque membri, la struttura istituzionale dell’Unione
è ancor meno adeguata a produrre tutti quei “beni pubblici”
europei che sono oggi necessari e condivisi, a partire dalla difesa
militare.
Vi è un ulteriore elemento importante che deve essere tenuto
presente. La conclusione negativa di Bruxelles equivale a un fallimento
della politica europea. Inevitabilmente, nell’equilibrio tra
politica e burocrazia che da sempre ha caratterizzato le istituzioni
europee, ciò significherà un aumento del peso della
seconda rispetto alla prima. Un evento del tutto non desiderabile,
perché gli aspetti negativi dell’Europa, a partire
da un eccesso di regolamentazione e di armonizzazione, sono stati
proprio la conseguenza della mancanza di chiare scelte politiche,
alle quali la burocrazia ha dovuto sopperire secondo i propri strumenti
e le proprie logiche.
Il percorso dell’unità europea non è stato mai
lineare. Si compone da sempre di successi e di insuccessi. Se i
primi hanno fatto aggio sui secondi, è perché nessun
insuccesso è mai stato veramente e completamente tale, ma
è stato la premessa di un risultato positivo futuro. Bruxelles
è stato un insuccesso, ma non si devono trarne conclusioni
eccessivamente negative per il futuro dell’Unione. Ciò
che sarà necessario evitare saranno le rigidità, del
tutto incomprensibili, che troppo spazio hanno avuto all’interno
della Convenzione. Come sempre nella storia dell’unità
europea, basta un poco di buona volontà in più per
volgere i problemi in soluzioni.
|