Sono state
la Germania
e l’Austria ad
annunciare per prime l’intenzione di mantenere
la chiusura delle frontiere per
l’intero periodo
di sette anni.
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Per i mercati del lavoro europei
succederà poco o niente, visto che resteranno sostanzialmente
inaccessibili ai cittadini della nuova Europa. La prevista libertà
di circolazione per i lavoratori cittadini dei Dieci Stati membri
(75 milioni di persone, complessivamente) non è riuscita
a sopravvivere all’approssimarsi della data del primo maggio.
Le promesse di mantenere aperte le frontiere fatte in fase di negoziato
sono progressivamente svanite nel corso dei primi mesi del 2004,
innescando una fulminea “corsa alla chiusura” per la
quale la decisione in senso restrittivo di un Paese ha spinto gli
altri a muoversi nella stessa direzione.
Cioè: nonostante la previsione teorica della libertà
di movimento dei lavoratori con la cittadinanza europea, gli accordi
prevedono che gli Stati già membri possano optare per periodi
di transizione – della durata massima di sette anni, (due
anni più cinque) – nel corso dei quali è possibile
limitare gli ingressi di lavoratori provenienti dai nuovi Stati.
In caso di mancata decisione in merito, inoltre, vanno mantenute
le legislazioni nazionali e le conseguenti restrizioni, (in Italia
la moratoria prevista è di due anni, salvo accordi diversi
in itinere o a scadenza dei tempi).
Sono state la Germania e l’Austria – i Paesi con la
più alta percentuale di cittadini residenti e provenienti
dai nuovi Stati membri, nonché quelli “geograficamente
più esposti” – ad annunciare per prime l’intenzione
di mantenere la chiusura delle frontiere per l’intero periodo
di sette anni.

Un altro gruppo di Paesi membri – Danimarca, Finlandia, Svezia
e Regno Unito – ha scelto di unire le restrizioni all’accesso
lavorativo alla possibilità di usufruire delle prestazioni
dello Stato sociale. Un altro folto gruppo, infine, composto da
Belgio, Francia, Grecia, Italia, Lussemburgo, Portogallo, Olanda
e Spagna, ha previsto restrizioni per i primi due anni, o non ha
preso ancora alcuna decisione definitiva, mantenendo di fatto le
normative nazionali vigenti. L’unica eccezione, in questo
panorama, è costituita dall’Irlanda, che, nonostante
qualche dichiarazione d’incertezza, è intenzionata
a mantenere spalancate le proprie frontiere.
Il timore degli effetti dell’allargamento e la conseguente
“ortodossia restrittiva” che hanno prevalso nell’Unione
sono stati naturalmente oggetto di risentite critiche da parte dei
governi dei Dieci e hanno destato preoccupazione nella Commissione
europea. Queste scelte, infatti, si scontrano palesemente con l’esperienza
passata dell’allargamento che coinvolse Spagna e Portogallo
e dell’unificazione della Germania, quando flussi effettivi
di lavoratori risultarono di gran lunga inferiori rispetto a quanto
temuto alla vigilia. Fra l’altro, non tengono conto dei numerosi
studi economici che hanno quantificato flussi futuri di ingresso
in meno di 400 mila unità lavorative all’anno per l’intera
Unione europea, circa l’1 per cento della popolazione in età
di lavoro dei nuovi Stati membri. Altrettanto trascurate, infine,
sono le caratteristiche individuali – in termini di giovane
età e di elevato grado di istruzione – dei potenziali
migranti che, secondo quanto emerge da un recente sondaggio, costituirebbero
un importante apporto di capitale umano alle economie europee.
Resta aperta la possibilità della stipulazione di accordi
bilaterali – come quello possibile tra Italia e Polonia –
che dovrebbero perlomeno accelerare il processo di apertura. Nel
frattempo, l’Italia insisterà nel mantenere un sistema
di quote che non pochi considerano inadeguato rispetto a quelle
che sono le dimensioni e le esigenze economiche del nostro Paese.
Secondo una recente indagine, infatti, vi sarebbero circa quattro
richieste nominative di lavoratori stranieri per ogni posto previsto
dal decreto flussi per il 2004. Un’apertura immediata avrebbe
probabilmente costituito una buona occasione per ricondurre nell’ambito
della legalità parte di quei percorsi migratori e di quel
lavoro che altrimenti continuano a ricadere nel sommerso e nelle
pratiche irregolari, abbastanza diffuse nel nostro Paese.
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