La minaccia: avere un mondo bancario ancora zavorrato
dai
tradizionali lacci e laccioli e costretto a vedere passare il treno
dell’Europa allargata.
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Non è raro che documenti e analisi particolarmente approfonditi
offrano a chi li esamini una duplice interessante chiave di lettura:
da un lato di informazione puntuale ed esauriente, dall’altro
di riflessione sulle possibili tendenze evolutive del fenomeno considerato
e di conseguenza sulla probabile tipologia del cammino da percorrere.
Non sfugge a questa regola l’ultimo rapporto sul mercato del
lavoro nell’industria finanziaria italiana curato come sempre
dall’Associazione Bancaria Italiana, che oltre ad offrire
una fotografia particolarmente dettagliata dell’occupazione
e dei suoi costi in un settore posto di recente ancor più
sotto la lente di ingrandimento da vicende che ne hanno seriamente
scosso la credibilità e l’immagine di fiducia, elementi
essenziali per la sua naturale operatività, si presta anche
ad una lettura prospettica decisamente significativa.
Ma procediamo con ordine. Il capitolo dell’occupazione –
con riferimento specifico all’universo delle banche su cui
soffermeremo d’ora in poi la nostra attenzione – evidenzia
subito una cifra di sintesi di segno negativo (-1,1%) nel numero
complessivo del personale dipendente, una diretta conferma del protrarsi
degli sforzi finalizzati al suo contenimento. Al riguardo va sottolineato
che si è in presenza di una manovra che ormai abbraccia un
arco considerevole di anni con l’unica eccezione del 2000
che, invece, aveva registrato un incremento dell’1% sull’anno
precedente. Logico complemento delle considerazioni appena sviluppate,
il dato combinato dei flussi di assunzioni e di cessazioni che segnala
un turnover pari a 0,9: in altri termini, 9 assunti per ogni 10
cessati, in linea con quanto evidenziato l'anno prima.

Dopo questa prima dose di dati c’è, però, subito
da precisare che essi costituiscono il risultato finale di comportamenti
organizzativi almeno in parte differenziati per non dire, come tra
poco si vedrà, divergenti.
Si prenda in esame, ad esempio, il parametro della dimensione aziendale
delle banche, che rivela l’esistenza di un fattore di correlazione
inversa tra andamento occupazionale e livelli dimensionali della
banca; ossia, al crescere della seconda (la dimensione) si registra
una decelerazione del primo (l’andamento occupazionale). E’
il caso delle banche cosiddette maggiori (secondo la nomenclatura
ufficiale della Banca d’Italia) che presentano un saldo negativo
(-2%, ma vi è un rallentamento in questa caduta), così
come, viceversa, continuano a registrarsi valori positivi per quegli
intermediari bancari che appartengono alle classi dimensionali di
rango inferiore.
Un secondo parametro che bene si presta a considerazioni di diversificazione
nei comportamenti organizzativi è quello della disaggregazione
per aree geografiche.
In questo caso la lettura dei dati da un lato supporta la convinzione
che per il Sud e le Isole il mondo bancario rappresenti tuttora
un significativo bacino di impiego della forza occupazionale disponibile,
con un saldo assunzioni/cessazioni di segno positivo, dall’altro
il tema del ridimensionamento occupazionale trova riscontro ovunque
con segni negativi particolarmente accentuati nell’area Nord-Ovest
del Paese (-1,5%).
Anche la distribuzione delle tipologie contrattuali offre materia
di riflessione e una plausibile chiave di lettura in tema di comportamenti
organizzativi. A livello nazionale si registra una crescita per
le due forme del “a tempo indeterminato” e del “part-time”,
passate rispettivamente dal 95,4% al 96,5% e dal 6,7% al 7,1%; a
questo innalzamento di quote fa riscontro una flessione di quelle
relative alla “formazione lavoro e al lavoro temporaneo”
scesi rispettivamente dal 3% al 2% e dallo 0,7% allo 0,4%. Anche
su questo terreno se si usa la lente d’ingrandimento si scorge
una particolarità che invita all’analisi: il comportamento
per così dire anomalo delle banche piccole le quali si muovono
in controtendenza con percentuali decisamente cospicue di assunzioni
a termine (40%) e di lavoro temporaneo (6,6%).
L’interpretazione più verosimile di questo “singolare”
atteggiamento riporta sul versante della flessibilità organizzativa,
un tasto sicuramente delicato e con risvolti peculiari soprattutto
per quelle banche che hanno marcate radici localistiche. Facciamo,
ora, un passo indietro, tornando al tema del turnover occupazionale
per soffermarci su un aspetto connesso, quale lo svecchiamento della
popolazione impiegata: anche qui, se da un lato vi è la conferma
rispetto all’anno precedente dell’età media (41
anni), dall’altro sembra profilarsi, sia pure in modo lieve,
la tendenza alla sua contrazione per i livelli gerarchici superiori
(dirigenti e quadri direttivi). Quello che è certo è,
comunque, il fatto che quasi i 3/5 dei nuovi assunti appartengono
a fasce d’età inferiore ai 32 anni, così come
risulta in crescita la quota dei laureati (dal 22% al 23%), mentre
rimane stabile quella dei diplomati pari ai 2/3 del totale.
Certo, il tema dell’occupazione nel mondo bancario non si
esaurisce in queste cifre di dettaglio, perché scorrendo
le pagine di questa edizione del Rapporto anche questa volta si
trova una sezione di sicuro interesse dedicata alla presenza femminile:
una presenza giunta ad oltre il 36% della popolazione complessiva
e che per di più viene segnalata in continua crescita al
punto da giustificare l’uso di denominazioni di “colore”
di questo fenomeno (tipo “valanga rosa”). Questa caratteristica
della continuità emerge con ancora maggiore chiarezza se
si prende in considerazione un periodo temporale più lungo
rispetto alla misura standard dell’anno: in tal caso la quota
femminile risulta aumentata in modo marcato (ben 5 punti percentuali)
rispetto al 1997, così come contestualmente si registra la
riduzione di 11 punti percentuali nel gap tra i due sessi. Peraltro,
come qualcuno fa giustamente notare, siamo ancora molto lontani
da un riequilibrio in termini gerarchici tra i due sessi, se nonostante
un discreto slittamento verso l’alto nei valori di inquadramento
professionale, il numero delle donne presenti nelle stanze dei bottoni
o comunque in posizione dirigenziale rimane veramente modesta (0,1%).
Ci sono, poi, due altri elementi che connotano ancor più
la presenza femminile nel mondo bancario su un piano squisitamente
qualitativo: il primo fa riferimento alla percentuale di donne che
optano per l’impiego part-time (18% contro l’1% degli
uomini), chiaro riflesso di un modello di organizzazione sociale
in larga parte ancora tradizionale. Ne è ulteriore conferma
un secondo dato, che vede le donne occupare con il 92% la quota
sicuramente più significativa dei lavoratori a tempo parziale
occupati nel settore bancario.
Ma c’è una terza peculiarità che vale la pena
di sottolineare per i suoi riflessi sul piano sociale: il livello
di scolarità delle donne bancarie è ormai sicuramente
più elevato di quello degli uomini. Con una duplice conseguenza:
la prima, che i rapporti di forza risultano invertiti rispetto ad
alcuni anni fa con il sorpasso delle donne sugli uomini in possesso
del titolo di laurea; e la seconda, che l’incidenza femminile
sul totale della popolazione laureata ha avuto un tale impatto da
determinare un significativo innalzamento della quota complessiva
di laureati sull’universo della popolazione impiegata in banca.
Il capitolo femminile, benché interessante, in realtà
non esaurisce il novero delle peculiarità legate alla domanda
di lavoro del settore bancario che si possono cogliere leggendo
e analizzando le pagine di quest’edizione del Rapporto; infatti,
le rilevazioni effettuate consentono valutazioni qualitative sulla
composizione per aree funzionali di impiego della domanda stessa,
il che è un modo efficace per meglio comprendere come si
sta orientando il mercato del lavoro in questo settore.
Ad esempio, la marcata diminuzione della domanda per attività
connesse all’operatività di sportello (dal 53% del
2002 al 42% del 2003) è un chiaro segnale di come le banche
si stiano muovendo verso ruoli caratterizzati da più elevati
livelli di professionalizzazione. In tal senso, a puntuale conferma
giunge il dato relativo alle maggiori opportunità per gli
specialisti aziendali in promozione finanziaria, marketing e comunicazione
con una percentuale di sostituzione che ha compiuto un autentico
balzo dal 14% al 30%.
Sui ruoli professionali e sulla relativa facilità /difficoltà
di reperimento di risorse umane ancora due brevi ma significative
notazioni: su un versante si coglie la maggiore facilità
di reclutamento della figura professionale di programmatore informatico,
conseguenza immediata della crescente diffusione della cultura dell’innovazione
tecnologica tra le nuove generazioni; sull’altro si segnalano
persistenti difficoltà nel reclutamento di altre figure professionali,
tecnici e responsabili commerciali delle vendite, intermediari finanziari
e agenti di Borsa per le quali evidentemente le preparazioni acquisite
sul piano dell’istruzione si scontrano sfavorevolmente con
le effettive esigenze di mercato.
E voltiamo pagina. Come si accennava all’inizio, un documento
come il Rapporto ABI, così ricco di elementi statistici ma
anche di considerazioni di merito, bene si presta ad una lettura
di secondo livello finalizzata a comprendere gli obiettivi prossimi
futuri. Una valida cerniera per questi due aspetti di consuntivazione
e prospezione può essere rappresentata dalle parole del presidente
dell’ABI, Maurizio Sella, quando afferma: «L’industria
finanziaria ha proseguito la fase di crescita e razionalizzazione
dei propri assetti organizzativi tendente ad avvicinare la struttura
dell’attivo, del patrimonio e dei margini reddituali a quella
dei competitors europei». Con ciò delineando il cammino
svolto e il percorso ancora da compiere; un percorso certamente
non privo di difficoltà se nonostante la diminuzione significativa
del costo medio per addetto in termini reali (la flessione complessiva
dal 1999 si situa al 2,8%) il confronto su base europea continua
ad essere insoddisfacente, perché «l’Italia è
tra i Paesi con il costo unitario del personale più elevato
in assoluto». Una maggiore attenzione dedicata alle cifre,
in realtà, non può che ingenerare una sensazione di
relativo sconforto quando il termine di paragone viene posto non
solo con le banche inglesi, che notoriamente per tradizione sono
considerate le più efficienti e redditizie in Europa, ma
anche rispetto al valore medio su base continentale che per il settore
retail si posiziona attorno ai 50.000 euro contro i 60.000 delle
banche italiane. Occorre, però, subito fornire una precisazione,
in quanto l’ABI nel diagnosticare questo deficit di competitività
ai danni del mondo bancario italiano pronuncia una sentenza di assoluzione
parziale nei suoi confronti, ascrivendo le cause dello squilibrio
non solo «a fattori aziendali, ma anche e soprattutto a elementi
strutturali tipici del mercato italiano». Uscire da questa
situazione non è certamente cosa semplice e di breve periodo;
però, si può favorire questo processo di crescita
del sistema bancario italiano sul cammino della razionalità
gestionale, utilizzando al meglio lo strumentario a disposizione.
Ecco allora delinearsi nel ruolo di priorità assoluta la
necessità di assicurare la piena funzionalità del
Fondo per il sostegno del reddito e dell’occupazione, «quale
strumento che consente di gestire efficacemente gli esuberi senza
oneri per la collettività». Così come continuare
a percorrere il campo dell’innovazione nel campo normativo
del lavoro traendo beneficio dai margini di flessibilità
offerti sembra un orientamento obbligato, se si vuole adeguare il
quadro di riferimento normativo italiano all’evoluzione delle
modalità di gestione del lavoro.
Questo è, in definitiva, lo scenario che emerge dal Rapporto
e che si sta delineando – è bene rammentarlo –
in occasione del rinnovo del contratto collettivo nazionale del
settore bancario; ad esso, come si può facilmente immaginare,
sono legate almeno una minaccia e un’opportunità che
si possono così sintetizzare. La minaccia: avere un mondo
bancario ancora zavorrato dai tradizionali lacci e laccioli e conseguentemente
costretto suo malgrado a vedere passare il treno dell’Europa
allargata in qualità di spettatore interessato, ma comunque
impotente. L’opportunità: inserirsi nel contesto di
un’Europa allargata non solo con i blasoni gloriosi e forse
un po’ impolverati della tradizione storica dei banchieri
rinascimentali, ma con la concretezza di precise opzioni strategiche
d’innovazione. Il monito finale è, dunque, che la chiamata
alla responsabilità di ruolo si fa sì pressante per
il nostro mondo bancario, ma non può non coinvolgere anche
il “sistema Paese” con le sue altre componenti.
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