C’è chi non vuol capire che “meno
Stato e più
mercato” non è una formula astratta, ma un principio
informatore
dell’azione politica e di politica
economica del nuovo secolo.
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Era stato predisposto tutto con una cura assoluta, come mai era
accaduto nel passato: un’incubazione durata dieci anni, un
migliaio di funzionari europei al lavoro, per garantire il successo
dell’impresa, una vera e propria montagna di aiuti, pari a
oltre venti miliardi di euro, ai quali, fin dal giorno dell’adesione,
il primo maggio, si sono aggiunti altri ventuno miliardi di euro
destinati ai fondi strutturali, da incassare entro il 2006. Sono
tutti d’accordo su uno degli aspetti rilevanti dell’operazione:
il poderoso balzo dell’Europa da Quindici a Venticinque Paesi
è un vero e proprio Big Bang dell’Unione Europea, e
sarà anche un’avventura senza precedenti, che tuttavia,
una volta tanto, almeno sotto il profilo tecnico, parte con le carte
in perfetta regola.
La metamorfosi dall’economia pianificata a quella di mercato
è sostanzialmente compiuta, l’immenso corpo legislativo
comunitario che regola il mercato unico (ottantamila pagine di norme
e di standard da rispettare) dai vari ordinamenti nazionali è
stato metabolizzato. Anche un buon livello d’interdipendenza
con l’Occidente, sul filo della riconversione dei flussi commerciali
e di un massiccio afflusso di investimenti, è già
conquistato. Gli ex “fratelli separati dell’Est”
sono pervenuti alla meta della piena integrazione portando in dote
tassi di crescita economica doppi rispetto a quelli dell’Unione
a Quindici, vale a dire un serbatoio di dinamismo prezioso per un’Europa
che invece continua a trascinarsi al traino degli altri grandi poli
di sviluppo globali, come hanno confermato, una volta di più,
gli ultimi dati del Fondo monetario internazionale.
Allora l’allargamento sembra rappresentare la terra promessa,
dal momento che dovrà portare una provvidenziale iniezione
di energia e di “giovinezza” alla vecchia Europa, che
invece più di tanto – diversamente da quel che si è
fatto ad Est, dove si sono letteralmente bruciate le tappe –
non riesce ad accelerare il passo della modernizzazione del proprio
modello di società e di sviluppo. E dovrà portare
nuovi mercati e nuove opportunità di recupero della competitività
globale per l’industria del Vecchio Continente.

Vien voglia di credere che possa essere proprio così, anche
se la realtà, almeno quella delle cifre, è un’altra.
I Dieci (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia,
Lettonia, Lituania, Estonia, Malta e metà Cipro) hanno sommato
all’Unione una popolazione di poco inferiore (75 milioni di
abitanti, complessivamente) a quella della sola Germania, ma con
un Prodotto interno lordo (pari al 5 per cento di quello dell’Unione
europea) analogo a quello dell’Olanda. E con un reddito pro-capite
che è pari a un terzo rispetto a quello medio comunitario.
Oltre tutto, con salari che, sempre in media, sono uguali a un quarto
rispetto a quelli europei, ma che sono destinati a salire a mano
a mano che l’integrazione tra le antiche e le nuove aree si
approfondirà anche sul fronte del rispetto dei comuni standard
socio-ambientali. Con questi numeri e con queste prospettive, più
di tanto la linfa dell’Est non sarà in grado di fare,
per carburare la crescita della Grande Unione.
Che, in ogni caso, per garantire il successo della storica scommessa
della riunificazione continentale, sarà subito costretta
a risolvere il complicato teorema politico-istituzionale dell’autogoverno
a Venticinque. Vale a dire che dovrà varare a stretto giro
di decisioni una Costituzione efficace, credibile e in grado di
passare indenne sotto le forche caudine dei referendum popolari
di ratifica. Quello britannico, prima di tutto.
Tutto questo è più facile da dire che da fare. I Dieci
hanno svolto diligentemente i compiti a casa e si sono onorevolmente
guadagnati il biglietto d’ingresso nella nuova famiglia. Per
questo la vera partita dell’allargamento appare ancora tutta
da giocare.
E per questo non sembra cominciare nelle condizioni migliori.
«Chi risponde al telefono quando chiamo l’Europa?».
La celebre battuta di Henry Kissinger, trent’anni dopo, mantiene
ancora la sua attualità. Dal primo maggio, 450 milioni di
abitanti del Vecchio Continente sono “sotto una sola bandiera”,
quella con le dodici stelle d’oro in campo azzurro dell’Unione
europea. Ma l’allargamento è giunto a questa tappa
in una fase assai delicata dei rapporti internazionali, sia all’interno
dell’Europa sia tra le due sponde dell’Atlantico.
Certo, alla provocatoria domanda di Kissinger si può correttamente
rispondere (fino alla fine del prossimo mese di ottobre): il presidente
della Commissione europea. Ma a Bruxelles continua la diaspora dei
commissari: quella greca è stata eletta nel Parlamento nazionale;
il francese è passato alla guida della diplomazia dell’Eliseo;
lo spagnolo è diventato ministro delle Finanze a Madrid;
il finlandese è passato alla guida della Banca centrale nazionale.
La perdita di slancio dell’Esecutivo dell’Unione europea
va quanto meno fatta risalire alla “battaglia” per il
Patto di stabilità del novembre dello scorso anno, quando
il Consiglio dei ministri Ecofin congelò la richiesta della
Commissione di avviare la procedura per deficit eccessivo contro
la Francia e la Germania.
Ma come muta l’equilibrio dei poteri nell’Ue a Venticinque?
E quale può essere, adesso, il suo ruolo nel mondo?
Secondo il presidente dell’Istituto francese di relazioni
internazionali, De Montbrial, sul Patto di stabilità non
occorre essere troppo pessimisti: Francia e Germania, insieme agli
altri Paesi Ue, devono rientrare nei parametri di Maastricht, non
perché lo chiede la Commissione, ma perché devono
aggiustare i conti pubblici: a breve termine le polemiche possono
prevalere, ma nel medio periodo l’opera di risanamento è
nel loro stesso interesse. E sostiene De Montbrial che l’allargamento
dell’Unione ad Est, dopo la fine dell’Urss, era inevitabile,
anche se sembra essere stato troppo rapido: «I Venticinque
non sono tutti uguali: se è logico pensare che alcuni Paesi
giochino un ruolo d’avanguardia, ciò non deve creare
alcuna forma di “direttorio”. Piuttosto serve –
e in questo consiste la sottigliezza diplomatica – un “giroscopio”
che indichi una direzione di marcia. E’ pur vero, però,
che se Francia, Germania e Regno Unito non s’intendono, l’Europa
si inceppa. La possibilità di giungere alla firma della nuova
Carta Ue, dopo il cambio di governo in Spagna, dimostra che dalle
disgrazie, anche le più imprevedibili e tremende, talvolta
può derivare qualcosa di positivo, e questo avvicinamento
europeo non deve essere ritenuto per forza una mossa antiamericana».
Secondo il direttore del Centro per l’integrazione europea
dell’Università di Bonn, Kuhnhardt, un compromesso
sulla Costituzione sarebbe un importante passo avanti, «ma
l’Europa deve restare un partner affidabile degli Stati Uniti:
per una vecchia esperienza, quando i rapporti transatlantici vanno
male, anche il processo d’integrazione comunitaria ne soffre.
Invece, negli ultimi due-tre anni c’è stata una sorta
di Guerra fredda dentro il mondo occidentale: con la politica di
neutralità tedesca l’asse franco-tedesco ha perso la
sua carica propulsiva per diventare un binomio di blocco. Così
almeno lo hanno percepito gli altri Paesi europei».
Per il direttore del londinese Reale istituto di affari internazionali,
Bulmer-Thomas, la Gran Bretagna «è consapevole che
la nascita di un “direttorio” con Francia e Germania
pone grossi problemi all’Italia, ma Londra guarda a Parigi
e a Berlino nell’ottica di un’alleanza strategica rivolta
al futuro, mentre l’allineamento con la Spagna e la Polonia
(sull’Iraq) è di natura tattica. Anche la scommessa
del primo ministro britannico per la Costituzione Ue si inquadra
in una sorta di “puzzle” tutto inglese. L’approccio
di Londra è di tipo pragmatico e si basa sul fatto che i
sudditi di Sua Maestà pensano di poter vivere bene anche
senza la nuova Carta costituzionale, e per l’idea di Europa
che piace a costoro va splendidamente un’aggregazione di Stati
non troppo vincolante».
Per un osservatore che sta sull’altra sponda dell’Atlantico,
come il docente alla Georgetown University di Washington, Kupchan,
«un nucleo di Stati-guida, o “core Europe”, può
essere utile per non riposizionare al minimo comun denominatore
la nuova Unione a Venticinque. Il multilateralismo del XX secolo
è ormai acqua passata. Poco importa se l’inquilino
della Casa Bianca sarà democratico o repubblicano: le tensioni
in Iraq e in Medio Oriente sembrano destinate a ridursi, lentamente
ma fatalmente. Ecco perché l’Europa deve raddoppiare
gli sforzi per costruire un’Unione capace di intervenire in
modo compatto sugli scenari internazionali».
In un certo senso, in Italia il piatto piange. Mentre tutti gli
Stati europei affilano le armi per affrontare la nuova situazione
creatasi con l’ingresso dei Dieci nell’Ue, da noi si
rimane in mezzo al guado, per le tensioni, che sembrano insuperabili,
e che sono comunque inconciliabili, tra i sostenitori dell’economia
di mercato e i sostenitori dell’intervento pubblico (a favore
dei dipendenti statali e delle imprese “privatizzate”,
ma solo in parte, con la mano pubblica in non pochi casi in possesso
del 51 per cento dei pacchetti azionari). La situazione che si è
venuta a creare è di pieno stallo, con conseguenze nefaste
sull’economia italiana.
Il caso Alitalia è stato emblematico: Berna (che pure non
fa parte dell’Unione europea) lasciò fallire la Swissair,
e da quel crollo nacque la Swiss, che funziona molto bene. Ed è
stato altrettanto emblematico il caso Fiat, con il ministro delle
Finanze deciso a lasciar fare al mercato e ai rapporti tra dirigenza
e sindacati, mentre altri invocavano l’intervento (inappropriato)
del governo. Insomma, c’è chi non vuol capire che i
tempi sono cambiati, che i vecchi comportamenti sono ormai obsoleti,
che “meno Stato e più mercato” non è una
formula astratta, ma un principio informatore dell’azione
politica e di politica economica del nuovo secolo. Certamente, da
una parte c’è la paura di perdere potere, e dall’altra
la speculare paura di perdere consenso. Ma l’Europa è
lì ad insegnarci che la perpetua compromissione non è
più concepibile in un concerto europeo comunitario che scandisce
ben altra musica. Sicché, o si va nella stessa direzione,
o si è destinati a restare tagliati fuori, emarginati al
ruolo di comprimari con diritto di parola, certamente, ma senza
alcun reale peso specifico nell’ambito delle decisioni risolutive
della politica europea.
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