La radice del
problema non sta nella nuova divisa europea, ma nella politica economica
che si è realizzata negli ultimi anni.
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Malgrado la perdurante stagnazione
e la conseguente debolezza della domanda interna, la bilancia commerciale
italiana ha chiuso lo scorso anno ancora in attivo, ma con un saldo
più basso rispetto all’anno precedente. Nei primi anni
Novanta il commercio con l’estero era in crisi perché
si trovava al culmine di un ciclo valutario che, chiudendosi con
una svalutazione della lira, doveva ripristinare una competitività
che nel frattempo si era “consumata”. Erano gli ultimi
anni di un’epoca nella quale l’economia italiana era
cresciuta malgrado un sistema produttivo al cui elevato livello
di intraprendenza non faceva riscontro una forza competitiva che
potesse sostenere le ambizioni del Paese a confrontarsi con quelli
più evoluti del resto d’Europa. La gran parte della
produzione italiana, infatti, poteva essere venduta sui mercati
esteri e nazionali solo in forza della convenienza di prezzo. Per
questa ragione, quel modello di sviluppo poteva essere sostenuto
solo alla condizione delle ricorrenti svalutazioni della lira, e
solo fino a quando fosse stato possibile sostenere il suo rovescio
della medaglia: in primo luogo, l’inflazione che, a sua volta,
concorreva al dissesto della finanza pubblica.
Nel 1992 cominciò la svolta verso una politica che poi avrebbe
connotato il resto del decennio: contenimento dei costi nominali
(leggi: salari e stipendi) con la concertazione e la politica dei
redditi, elevazione della pressione fiscale ai livelli medi degli
altri Paesi europei, conseguente abbattimento del disavanzo della
pubblica amministrazione, stabilizzazione del cambio in vista della
partecipazione all’Unione monetaria europea.
In quel decennio cambiò profondamente il sistema politico-istituzionale,
cambiarono gli atteggiamenti e i costumi degli italiani, cambiò
il ruolo delle organizzazioni sindacali, cambiò il sistema
bancario, cambiò la presenza dello Stato nell’economia.
Non cambiò il sistema produttivo, al quale, anzi, fu data
la possibilità di perpetuare un’impostazione strategica
che tutti quei cambiamenti e la prospettiva dell’Unione monetaria
rendevano decisamente superata. Gli venne data la possibilità
in primo luogo perché la profondità della crisi valutaria,
la vastità delle pressioni speculative che la connotarono
e la dimensione inusitata del deprezzamento che la nostra moneta
conseguentemente subì diedero alle imprese importatrici una
spinta poderosa, interpretata come successo delle imprese stesse.
Inoltre, perché in quegli anni si modificò anche la
cultura politica. Il crollo della Prima Repubblica e il ciclone
di Mani pulite travolsero, con molti loro esponenti, le stesse istituzioni
politiche rappresentative, a cominciare da partiti e sindacati,
in contrapposizione al mondo delle imprese e agli imprenditori il
cui successo in quegli anni era promosso dalla suddetta poderosa
spinta data dalla svalutazione. Si diffuse così il convincimento
che in Italia tutto fosse inefficienza e corruzione, tranne l’impresa,
l’imprenditoria, gli imprenditori.

Tutta la politica si orientò in questo senso, operando sulle
componenti di competitività esterne all’impresa, quando
il problema, non fosse altro che per l’evoluzione dei tempi,
era nelle stesse connotazioni interne: piccola dimensione, struttura
padronale, visione strategica di breve periodo, poca ricerca, scarsa
capitalizzazione.
E così, quando la spinta della svalutazione ha cominciato
ad esaurirsi (in un tempo simile a quelli dei cicli precedenti,
a conferma che il sistema produttivo non era cambiato), i fattori
presentati come responsabili erano, e sono tuttora, sempre ed esclusivamente
esterni: il costo del lavoro, poi il costo del denaro, poi la flessibilità,
poi ancora l’inefficienza delle amministrazioni pubbliche,
e naturalmente le tasse. Si è fatto tanto: il costo del lavoro
è tra i più bassi, di flessibilità ne è
stata introdotta fino a farne un problema sociale, i tassi di interesse
sono irrisori, molte procedure sono state semplificate, si progettano
riduzioni della spesa sociale per fare spazio a una riduzione delle
tasse. Ciò nondimeno, il sistema produttivo continua inesorabilmente
a perdere competitività, come conferma, tra i tanti altri
indicatori, il deterioramento della bilancia commerciale.
Chi ha interesse alla perpetuazione di questo stato di cose avanza
la giustificazione dell’apprezzamento dell’euro. Si
incarica di smentirli la circostanza che il saldo commerciale è
la combinazione di un surplus nei confronti dei Paesi extra-europei
(è l’Asia che tira) con un disavanzo verso il resto
dell’Unione europea, vale a dire verso i mercati che hanno
la nostra stessa moneta e che sono i più qualificati. Se
ne evince che la radice del problema sta nella politica economica
che negli ultimi anni si è realizzata. La negazione di questa
evidenza non fa che consentire la progressiva accentuazione di un
declino che anche i dati commerciali rendono inconfutabile.
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