All’inizio del
Novecento, l’Italia era ai vertici
della disciplina economica ed esprimeva un peso massimo mondiale
del calibro di
Vilfredo Pareto.
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Certamente, l’economia
si può raccontare. Lo hanno fatto, fra tanti altri, Kissinger
o il nostro Cipolla. Ma si possono raccontare anche gli economisti?
Raccontarli, s’intende, in modo organico e non semplicemente
giustapponendone le biografie e le scuole di riferimento? Compito
arduo, in modo particolare quando le dicotomie tradizionali (marxisti
contro cattolici, comunisti contro fautori del capitalismo, statalisti
contro liberisti, keynesiani contro monetaristi) perdono di rilievo
per la scomparsa di uno dei due poli, oppure per la loro fusione
in una sintesi superiore (o, più banalmente, in un bel pasticcio
eclettico), e così vengono meno gli schemi più naturali
di organizzazione del materiale.
Un poderoso pool di economisti italiani si è cimentato nella
non facile impresa di raccontare, appunto, il contributo di loro
stessi e dei loro colleghi nella prima generazione dopo la guerra,
quando le dicotomie di cui abbiamo detto erano gli assi portanti
di ogni discorso accademico e politico e appassionavano, creavano
sodalizi o invece rompevano amicizie consolidate anche da gran tempo.
Ne è risultato un testo voluminoso e intensissimo, eppure
di lettura molto gradevole e soltanto a tratti ostico per chi non
sia uno specialista, dal titolo La formazione degli economisti
in Italia (1950-1975), a cura di Giuseppe Garofalo
e Augusto Graziani, con un totale di ventitré firme e l’impostazione
unitaria e originale (e come tale anche legittimamente discutibile)
dei due curatori: messe da parte le schematizzazioni consuete (che
nel racconto riemergono da sé, ma non rappresentano più
a priori gli stampi nei quali si forgia la realtà) è
il punto di vista della “formazione” ad essere privilegiato,
con estrema attenzione alla genesi delle avventure intellettuali
dei singoli e dei gruppi di studio e alle loro interrelazioni. Si
indovina che, oltre al suo rilievo diretto, i testi apriranno la
strada a molte altre ricerche nello stesso solco, in altri angoli
rimasti in ombra.
Sorprende lo scarso spazio che si è voluto dedicare nel
volume ad alcuni Istituti di gran prestigio: la facoltà di
economia di Torino viene citata (molto brevemente) soltanto in relazione
all’attività di Siro Lombardini e di un altro paio
di studiosi; neanche quella di Pavia si conquista un capitolo a
sé, mentre alla Bocconi è riservato uno dei capitoli
più brevi ed è quasi tutto dedicato a Ferdinando Di
Fenizio, uno dei protagonisti dell’introduzione di Keynes
in Italia e co-fondatore de Il Sole, (diretto da un indimenticabile
collaboratore di questa Rivista, Gennaro Pistolese, fino a quando
il quotidiano economico si fuse con il gemello 24 Ore),
e dell’Isco, che oggi si chiama Isae. Evidentemente, il settore
degli studi economici nel nostro Paese è per sua natura policentrico
e nessuna accademia, per quanto reputata, nemmeno la Bocconi, vi
può svolgere quel ruolo di leadership che hanno negli Stati
Uniti d’America il Mit oppure l’università di
Chicago, o nel Regno Unito la London School o Cambridge. Semmai
tale funzione tocca da noi a quella grande fucina di economisti
e centro connettivo che continua ad essere la Banca d’Italia.
Le cause della pluralità di scuole economiche nel nostro
Paese sono con tutta probabilità due: la prima ha a che fare
con i nostri mille campanili, la seconda (e ben più importante)
con il periodo del Fascismo e della seconda guerra mondiale.
All’inizio del Novecento, l’Italia era ai vertici della
disciplina economica ed esprimeva un peso massimo mondiale del calibro
di Vilfredo Pareto, oltre ad altri economisti quasi dello stesso
livello; ma subito dopo il filone si esaurì e il nostro sistema
universitario diventò provinciale. I centri di eccellenza
non erano più tali, e quando si trattò di avviare
la ricostruzione non ci fu soltanto da sgomberare le macerie dei
bombardamenti, ma anche da riscoprire ex novo le grandi correnti
di studio internazionali. I centri di ricerca minori ripartirono
alla pari con i grandi, vale a dire da zero.
Proprio la ricostruzione ha rappresentato il filone più appassionante
degli studi economici: chi si esercitava nella disciplina lo faceva
non soltanto per ripristinare l’Italia come era stata, ma
anche con l’ambizione di rifarla meglio, senza gli squilibri
sociali e geografici dell’anteguerra. Seguì negli anni
Cinquanta il boom dell’impresa pubblica (Iri, Eni) e della
Cassa per il Mezzogiorno, che facevano da pensatoio e da braccio
operativo nei settori di investimento ad alto rischio e nella dotazione
di infrastrutture, fornendo nuove occasioni agli economisti che
volevano cimentarsi; e di nuovo, nel decennio Sessanta, ci furono
le speranze della pianificazione programmata, cui fecero seguito
quelle persino più ardite degli anni Settanta. Di tutte queste
stagioni, Claudio Napoleoni fu uno degli spiriti protagonisti, facendo
anche da raccordo tra la Svimez di Pasquale Saraceno e la Scuola
di Portici (Napoli) di Manlio Rossi Doria.
I risultati, com’è noto, furono piuttosto parziali:
lo sviluppo complessivo del Paese fu spettacolare per ricchezza
e per posti di lavoro reali creati, ma gli squilibri regionali non
vennero alleviati, e anzi la cosiddetta “forbice” accentuò
la sua divaricazione. Un allievo di Napoleoni attribuì a
questo grande economista una frase di Baudelaire: «Non ho
ancora conosciuto il piacere di un piano realizzato».
La stagione riformista ebbe anche una forte matrice cattolica,
grazie appunto all’Università Cattolica di Milano.
Se Francesco Vito vi è stato l’iniziatore degli studi
economici, lo snodo centrale della costellazione dei centri di ricerca
che rientrano in questo filone è probabilmente la persona
di Siro Lombardini, di cui è stato allievo, fra molti altri,
Beniamino Andreatta, creatore di un polo di eccellenza presso l’università
di Bologna, dove si è formato anche l’attuale presidente
della Commissione europea, Romano Prodi. Dunque, è una storia
ancora in corso.
Anche la “Sapienza” di Roma ha un fondatore o ri-fondatore
degli studi economici nella persona di Ugo Papi, una figura centrale
di studioso in Paolo Sylos Labini e un’importante filiazione
nella facoltà di Scienze economiche e bancarie di Siena ad
opera di Vittorio Marrama e Cesare Cosciani. Fra gli altri centri
di studio dell’economia che si sono affermati in piccole città,
vanno ricordati per lo meno Ancona (la facoltà e l’Istao),
protagonista dell’analisi del modello “Nord-Est-Centro”
con Giorgio Fuà e il suo Gruppo, e Modena, attenta in modo
particolare alle questioni sindacali. Ma è bene sottolineare
che in queste sedi periferiche si agisce localmente, ma si pensa
globalmente, visto che, ad esempio, alla creazione di Modena ha
presieduto Pierangelo Garegnani, formatosi (al pari di Luigi Pasinetti)
alla scuola di Piero Sraffa, in quel di Cambridge.
Per quanto riguarda la formazione all’estero, e dal momento
che il volume soprattutto di formazione parla, è bello sottolineare
che uno dei ventitré autori riferisce (al passato) che «il
cursus degli allievi dipendeva dal benevolo consenso del maestro»,
e che c’era «la necessità di vestire i colori
di una scuderia (o di una baronia, se si preferisce)», ma
poi «l’apertura delle frontiere cominciò a produrre
crepe vistose nel protezionismo accademico». Soddisfazione
per la notizia. Ma almeno un pizzico di incredulità.
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