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In quanti modi si può
scrivere la storia dell’Europa a Venticinque?
In tanti, anche troppi. Dipende dalla cultura, dalle letture comparate,
dalla curiosità personale. Si può guardare al passato,
e ravvivare la memoria della millenaria guerra civile europea, della
nascita e caduta degli Imperi, del formarsi delle nazioni.E si può
pronosticare il futuro, osservando, ad esempio, che con l’ingresso
dei Dieci il Vecchio Continente ha una maggioranza cattolica, o
che l’asse franco-germanico è più che bilanciato
da quello slavo e mitteleuropeo. Si possono percorrere i labirinti
delle attività diplomatiche. Si possono rivisitare le città
che furono epicentri di battaglie epocali o gli alberghi che divennero
celebri come punti di convergenza delle spie al servizio di tutte
le bandiere.
Si possono riesplorare itinerari di memoria e di dolore, visitando
i cimiteri di guerra che costellano tante alture e valli, e sacrari
che testimoniano la tragicità di incolpevoli vite spezzate.
E’ anche possibile soffermarsi in zone che conobbero confini
erratici e contrapposte file di trincee fra spazi intrisi di sangue,
oppure fra campi di concentramento, lager e gulag, preludi di morte
in massa: perché tanta parte della Storia Europea è
stata preludio, atti con intermezzi ed epilogo di reciproci stermini;
anche quando, al tempo della Guerra Fredda, le sfide si sono consumate
in Paesi lontani e gli echi sono giunti in sordina o sono stati
vissuti sui giornali e nei film.
Comunque, la linea di displuvio fu tracciata dal 1989, almeno per
l’Europa qual è oggi. Crollato su se stesso l’ultimo
Impero Ottocentesco, quello sovietico, è cambiato il colore
del cielo. Adesso, in questo risorto Continente, deve cambiare quello
della terra. Partendo dall’anno zero di una Storia Altra,
che coinvolga tutti coloro i quali, dall’Atlantico ai Carpazi,
vorranno prendere atto delle nuove realtà e necessità.
All’originario nucleo dei Sei dominato dall’asse franco-tedesco,
poi ampliato spostando il confine verso le latitudini anglosassoni
e scandinave, si sono sommate quattro importanti aree dell’universo
slavo: la Polonia, la Repubblica Ceca, la Slovacchia e la Slovenia.
Quattro Paesi culturalmente affini e da tempo abituati a convivere
in ampi conglomerati sovranazionali. Varsavia, fondatrice di una
sorta di Commonwealth ante litteram che dalla Lituania giungeva
fino al Mar Nero, aveva visto il proprio territorio diviso tra l’Impero
Zarista e quello Absburgico. Nessun’altra capitale al mondo
è mai stata tanto martoriata (per quattro secoli) quanto
questa, invasa da russi, prussiani, svedesi, e infine diventata
colonia sovietica. Malgrado tutto, l’universalismo cattolico,
combinato con la vocazione transnazionale austro-ungarica, aveva
predisposto polacchi, slovacchi, sloveni e cechi (divisi fra cattolici,
protestanti e hussiti) alla convivenza e all’integrazione
in un contesto politico-economico che superava le barriere etniche
e doganali degli Stati-nazione.
Osservava perspicacemente Scipio Slataper che l’Austria-Ungheria
era il secondo Impero Slavo dopo quello Russo. Con una differenza
di fondo: c’era, lì, una tolleranza multietnica che
faceva di Vienna, come affermò Bismark, «una capitale
balcanica piuttosto che germanica». Era lo spirito di convivenza
che solo ed esclusivamente i Grandi Imperi Europei, da Augusto a
Francesco Giuseppe, avevano saputo suscitare nelle minoranze nazionali
e religiose. L’Austria imperiale, a parte Trieste e Budapest,
esibiva una splendida costellazione di città slave: Varsavia,
Cracovia, Praga, Bratislava, Lubiana, Zagabria, in ciascuna delle
quali lingua franca era il tedesco, ma si parlava, si studiava,
si scriveva e persino si complottava contro gli austriaci nelle
rispettive lingue madri. Gli intellettuali polacchi, sottoposti
a Varsavia alla censura sovietica, potevano comunicare, esprimersi
e sognare in piena libertà la rinascita della loro nazione
nella Cracovia absburgica. Nella magica Praga scrittori di lingua
ceca e narratori ebrei di lingua tedesca potevano elaborare opere
destinate a diventare capolavori della letteratura europea. A Zagabria
vescovi e poeti, fondatori di un movimento risorgimentale illirico,
potevano tracciare le linee di un progetto dell’Unione fra
serbi, croati e sloveni, dal quale dopo la Grande Guerra sarebbe
emersa la turbolenta Jugoslavia monarchica, poi trasformatasi in
una deludente Repubblica sgretolatasi nello spazio di un mattino,
con gli ultimi bagliori di guerra su un suolo europeo.

La Storia Altra potrà essere questa. L’antico patrimonio
di cultura cosmopolita, la tradizione imperiale, i cospicui contributi
letterari, le committenze artistiche (soprattutto nell’architettura
che caratterizza l’urbanistica, il Dna paneuropeo, insomma,
potranno fare più europea l’Europa finora improntata
all’azione politica e di politica economica franco-tedesca.
Ciò determinerà il tramonto dell’Europa carolingia,
che all’interno di una identità isolazionista coltivava
gli orgogli, gli egoismi e i pregiudizi dei singoli Stati-nazione.
Tutto questo accadrà se le nuove energie trasfuse in un Continente
stanco, anemico, grigio, saranno sufficienti a far prendere coscienza
del ruolo europeo nel mondo; se quelle energie non saranno ritenute
marginali o superflue; se cadranno al più presto i limiti
temporali imposti alla libera circolazione degli uomini, e non soltanto
delle merci. E, sul piano globale, se al di là delle diatribe
(tattiche) sull’euro e sui piani di stabilità, si stabilirà
un tipo di rapporto paritetico con l’America: il che vorrà
dire che l’antiamericanismo strumentale (di Francia e Germania,
cui si è aggregata la Spagna) e quello ideologico (della
violenza delle fazioni “pacifiste”) dovrà fare
molti passi indietro, perché i nuovi entrati continuano a
temere la Russia e vedono proprio negli Stati Uniti, e nella Nato,
i fattori decisivi per la protezione politica e per la sicurezza
militare, e dunque auspicano un’Europa alla pari e in amicizia
con Washington e alla pari e in diffidenza con Mosca.
Adesso, e non domani, l’Italia può giocare un ruolo
di primo piano in questo scacchiere. Intanto, perché insostituibile
cerniera mediterranea. Poi perché storica esportatrice di
talenti e ammirata terra creativa. Girando per quest’Europa,
prima e dopo l’Ottantanove, un italiano si sente in casa ovunque.
Perché come e forse più che a Pietroburgo, Cracovia
è stata città tirata su da architetti italiani, e
Varsavia, finita la guerra, venne ricostruita pietra su pietra tenendo
presenti le tele del Canaletto. Vilnius, capitale della Lituania,
come Roma sorta su sette colli, fu definita dal poeta e Premio Nobel
Czeslaw Milosz «il regno dell’architettura barocca e
italiana trasferito nei boschi del Nord». Se Praga è
stata dichiarata dall’Unesco patrimonio dell’umanità
è perché dal Barocco al Cubismo molti stili l’hanno
modellata. Budapest, vista dalla danubiana Isola Margherita, allinea
palazzi severi e sfarzosi al modo di quelli della Repubblica marinara
di Genova. Riga, capitale della Lettonia, esibisce cinque piani
del Palazzo Italia dove i prodotti della nostra moda non conoscono
tramonti. Sono di origine italiana i celebri cavalli di Lipiça,
piccolo centro del Carso sloveno, con la scuderia fondata nel 1580
dall’austriaco arciduca Carlo II, che volle incentivare l’equitazione
classica e le scuole di sport equestri. Tallin, capitale dell’Estonia,
città medioevale meglio conservata d’Europa, figurerebbe
bene dentro le mura di Lucca, come Bratislava, capitale della Slovacchia,
potrebbe saldarsi alla struttura urbana della città più
verticale d’Italia, Torino…

Realtà, certamente. E anche suggestioni, non si può
negare. Ma la tentazione di riconsiderare una cultura paneuropea
aggregante, e non discriminante, è forte, perché è
il migliore antidoto contro l’europportunismo presuntuoso
e a volte sprezzante di chi proponeva, fra i Quindici, Europe a
due velocità, e non si farebbe scrupolo, fra i Venticinque,
di ipotizzarne a tre.
Aveva avuto un sogno, Nauman: quello di una Mitteleuropa che, partendo
da Amburgo e passando per Vienna, Budapest, Sofia e Costantinopoli,
culminasse a Baghdad. Quel sogno era naufragato fra le trincee della
Grande Guerra, e di una Mitteleuropa meno larga ci è rimasta
una letteratura innervata nelle tessiture di un macerante presente
storico e della sua umana precarietà e problematicità,
a torto ritenuta “di confine”, e dunque vagamente esplorata.
Ora è mutato un clima, e fra non molto non ci saranno più
frontiere da varcare per stabilire altre residenze. Si potrà
camminare su sentieri che non avranno più le cesure dei valichi
e delle terre di nessuno.
Ci sarà un melting pot continentale? E una osmosi e fusione
in forma nuova di contenuti letterari e di espressioni artistiche?
Ci federerà una forza interna, oppure carolingi e mitteleuropei,
mediterranei e celtici procederanno su strade parallele, sì,
ma con ritmi di marcia scombinati? Saremo tutti coraggiosi eurorifondatori,
oppure opachi eurosauri? Tempo un anno, e già potremo leggere
i primi segnali in chiaro.
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