Volava leggero come gabbiano d’inverno,
novello Icaro
innocente,
stupefacente.
Volava e rideva,
di tanto in tanto ritornava
nel ventre
della terra...
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Dietro
la maschera
il ritmo dell’universo
Quando ci accingiamo a pubblicare qualcosa di africano, a mio avviso,
è necessario far precedere il testo in composizione da un
clima tutto specifico e mirato, un clima fatto di parole adatte
al pathos che necessariamente ci avvolgerà: in altre parole,
non possiamo iniziare di colpo a descrivere quel mondo straordinario,
in genere a noi poco noto.
L’argomento sarà la “maschera africana”,
ma dovete concedermi un preambolo diversivo, che fin dal principio
colori e sensibilizzi le vostre più attente capacità
di vedere e di sentire il mai visto e il mai sentito.

Perché – io vi sono stato qualche anno – l’Africa
vive di questi miracoli. Dedico pertanto al lettore alcuni versi
propedeutici. Me ne scuso, ma devo:
“Baobab mi sento / quando cala il vento / e tutto intorno
muore / in uno stagno di tropical languore. Simile al baobab contorto
/ nella mia polvere sono quasi morto. / Eppure, speranza, quando
mi sorridi / allora sono il baobab dei nidi / che sembra il simbolo
della resurrezione / di nostra povera natural condizione. / Sia
corroso e cinereo o verde e forte / vedo nel baobab il nemico della
morte. / Fatto di soli tronchi privo dei suoi rami / sembra che
invochi nuvoli lontani / e la sua voce si diffonde nel deserto /
come campana di naufraghi in mare aperto. / Pien di forza vitale
non cresce ma si erge / e nell’avara sabbia le sue radici
immerge / uguali a braccia e mani che cercano un tesoro / per dimostrarci
la vittoria del lavoro. / Muta rinasce e muore / là dove
tutto brucia di dolore. / Non è che sia una pianta, è
un uomo / creato in principio per essere buono, / poi condannato
invece ad aver sete / sempre cercando l’acqua e la sua quiete.
/ Per questo, come un baobab mi sento / quando la luce acceca e
cala il vento. / Così, nel baobab mi riconosco / e nelle
rughe sue intravedo un bosco / di mutazioni vicende bramosie / come
nella savana delle cose mie”.
Detto questo, potete capire perché mi ammalai di mal d’Africa
e decisi di conoscerla a fondo, nei suoi particolari poco noti,
secondo il mio metodo di cultura accumulata in itinere,
che è parte del mio viaggiar conoscendo.

Per esempio, la parola “arte” la cercheremo invano
nelle opere di etnologia, pubblicate durante la seconda metà
del secolo scorso. Quando si trattò dell’Africa, ogni
espressione, plastica e basta, servì ad illustrare momenti
di semplice vita fisica, pseudo-sapienziale o anche nebulosamente
religiosa.
Quella “africana” era in sostanza un’arte applicata,
nella quale si concretizzava un’immagine astratta, spesso
ridotta a motivo di decorazione. L’esploratore si interessò
soprattutto allo stile di alcune figure, rudimentali quanto povere.
I difensori del gusto accademico europeo parlavano con disprezzo
degli idoli grotteschi, provenienti da popoli che nel loro linguaggio
ignoravano il termine “bellezza”. Dopo la prima guerra
mondiale, si produsse il cambiamento decisivo e, nel aggio 1919,
la Galleria Devambez di Parigi organizzò la prima mostra
di sculture africane.
Nel 1920 esce Antologie négre di Blaise Cendras;
nello stesso anno, Action fa conoscere sul prodotto africano l'opinione
di artisti e di scrittori come Picasso, Jacques Lipschitz e Cocteau,
mentre ne scrive oramai con rispetto il cubista Juan Gris, per non
citare Braque, Derain, Vlamik, Matisse e Fernand Léger. Sono
tutti d’accordo: la scultura negro-africana è la prova
della possibilità di un’arte addirittura contraria
allo spirito della Grecia classica, basata sull’individuo
trasformato in suggerimento universale. L’arte negro-africana,
animata da un afflato religioso, procede per intuizione: è
idea incarnata, è partecipazione sensibile alla “surréalité”
dell’universo e alle forze vitali che lo animano.
Intanto, nel 1921 la scultura africana viene “scoperta”
a Venezia, in seno alla XIII Esposizione Internazionale. A Berlino,
Carl Einstein e a Parigi Lucien Lévy-Bruhl pubblicano studi
onestamente perplessi circa la schematica opposizione tradizionale
tra mentalità primitive e mentalità civilizzate. L’anno
seguente è la volta della Brumer Gallery di New York, poi
del Brooklyn Museum of Art, a prendere finalmente atto di una nuova
realtà estetica, che fu detta “indigena”.
A questo punto, se volevo capire questa nuova realtà artistica,
dovevo prima comprendere il concetto africano di maschera, dimenticando
ogni precedente definizione “bianca”.
Per esempio, posseggo la raffigurazione di un ibis, in legno originale,
monolitico: è l’uccello cacciatore che distrugge i
serpenti, già sacro presso le tribù del Nilo. Visto
di lato, emerge solo il becco lungo e appuntito; visto di fronte,
il mio prezioso ibis si trasforma in maschera quasi umana, da agitare
in alto durante le cerimonie che scongiurano la presenza di spiriti
sconosciuti, nemici dei raccolti. Il che è come dire: ogni
opera d’arte africana nasce in principio da esigenze agricole,
popolari, in ogni caso magico-religiose. La maschera, in particolare,
ma anche tutta l’inconsapevole creatività dell’artista
africano sono da intendersi come elementi catalizzatori di forze
ancestrali in quel misterioso vortice che insegue e accultura l’animista,
uomo esteticamente attivo per eccellenza. Egli vive e produce, oggi,
nella vasta area che va dal Sénégal all’antica
Angola, interessantissimo spazio etnico, limitato a Nord dal Sahara,
ad Oriente dai Grandi Laghi, a sud dal deserto del Kalahari.
La maschera africana non è riferibile ad un morto particolare,
come i nostri monumenti funebri, bensì all’idea della
morte. Con l’uomo moderno essa ha in comune soltanto l’antico
desiderio della trasfigurazione, ma l’africano anela alla
metamorfosi molto più intensamente di noi. Per lui, maschera
è liberazione, è fuga dalla condizione quotidiana,
ovvero unica possibilità di partecipare alla vita dell’universo.
L’uomo primitivo che indossa una maschera si appropria di
energie vitali extraumane, potenti quanto occorre per purificarsi
e affrontare le paure d’ogni giorno. Questa autosuggestione
istintiva lo convince che la maschera possiede virtù segrete,
grazie alle quali egli si sente partecipe delle forze cosmiche.
E’ allora che avviene un prodigio, il gruppo lo avverte, l’ipnosi
è collettiva. Quando l’africano comunica ai compagni
del villaggio, anch’essi in attesa, l’avvenuto contatto
col soprannaturale, la maschera si trasforma in una specie di “medium
sociale”. Sì, perché gli africani, specialmente
quelli dell’interno, credono i viventi in contatto con gli
spiriti degli antenati, detentori di forze magiche, e vogliono propiziarseli:
una volta rappresentati sotto forma di simulacro, costoro abiteranno
l’oggetto-contenitore, per trasformarsi in divinità
da usare nelle vicende terrestri.
Ecco perché a lungo si attribuì all’arte africana
un carattere semplicemente funzionale, identificandola con una specie
di misticismo in cui gli stregoni erano sacerdoti, capaci soltanto
di opere propiziatorie o di abbellimento della realtà, mentre
l’arte gratuita, libera, fine a se stessa, rimaneva privilegio
particolare di civiltà evolute e lontane. Insomma, per noi
la maschera è mezzo di camuffamento o di rappresentazione;
in Africa è lo stesso soprannaturale che presiede alle cerimonie
del villaggio e veglia sulla vita del clan.
Il discorso sempre più mi interessava: dunque la maschera
è elemento primordiale, capace di dominare ogni istinto;
non è volontà di evasione psicologica come fra noi,
è volontà di potenza, è gioco che trasmette
il ciclo nascita-morte nei misteriosi poteri extra-umani, dei quali
è pervaso il mondo irrazionale.
In tal senso ho definito l’arte negra “medium”
che mette in contatto l’umano con il soprannaturale. E’
una liturgia non “dettata”, bensì connessa con
il ritmo creatore dell’universo. Mi viene in mente la danza...
Comunque, che si tratti di un’arte-devozione (sia pure a me
profano) lo testimoniano,o oltre la sacralità del legno,
valore primario in Africa, i materiali nobili definiti “di
corte”, che l’artista usa con cura speciale: il bronzo
e l’avorio. Egli, fra l’altro, non è naturalista
all’europea; egli vuole esprimere idee generali, ignora il
ritratto, abolisce i segni del volto individuale; il suo realismo
è ottenuto da una spaiente disposizione di volumi, ridotti
all’essenziale. Egli è principalmente scultore, per
nascita.
Le sue effigi, specie se di pietra vulcanica, inventano espressioni
che vengono da dentro e che sembrano concepite nell’immobilità
di un mondo trascendente, colte nell’attimo di uno scatto,
più che di un gesto simbolico.
Nell’arte autenticamente “negra” la figura è
eretta, rigida, senza rotazioni né panneggi, simmetrica lungo
un asse longitudinale. E’ la forma sproporzionata che deve
impressionare, non i colori vegetali, che sono sempre e soltanto
tre: bianco, nero, rosso.
Mi accorsi presto che niente fu mai toccato e ritoccato, di conseguenza
patinato, come le statuette dell’Africa Nera, e pensai che
una scultura, un pezzo qualunque di qualche materia, lisciato nel
tempo, di padre in figlio, è come un’idea che si può
carezzare, come un sogno da tenere in pugno, anche se dotato di
poteri sovrumani. In Africa, un semplice amuleto, fatto di etalli
taumaturgici fusi insieme, tuttavia distinti, quasi a formare il
disegno di una moneta cieca, spessa, circolare come un pezzo di
sole caduto nella foresta, è da considerarsi scultura. E’
questo uno dei miracoli ai quali mi riferivo.
Ricordo che un vecchio senegalese mi diceva di toccare e ritoccare
quella strana cosa continuamente: la mano calda trasmette e riceve
forze magnetiche. L'amuleto diventerà lucido, solido, multisostanziale,
per il calore che riceverà. Tornerà meteorite, un
oggetto caduto agli uomini dal cielo, testimone dell’infinito:
e sarà il portafortuna dei fanciulli, dei poveri, dei poeti…
«Che altro è l’arte – mi sorpresi a riflettere
– se non emblea, simbolo, allusione?».
Vorrei potervi mostrare la mia bamboletta Baulé: una donnina
nuda, con strane referenze orientali nei tratti non camusi del viso
triangolare. E’ un piccolo totem, un feticcio propiziatorio
della maternità.
Mi limito ad aggiungere che la cosiddetta “arte di colore”
è creazione essenziale, non leziosa, sempre efficace e nobile,
qualunque ne sia il volume. Toccai croste di sangue animale e terra,
intorno a carcasse spennacchiate; palpai levigati specchi di metallo;
collane di terracotta e pasta di vetro; piume e denti di bestie
senza nome; conchiglie cangianti: tutte cose indefinibili, nelle
quali si nasconde la potenza del mondo invisibile, che ‘africano
stilizza in mille forme, persino nei pesi-proverbio dei tempi della
polvere d’oro.
Il buio dell’aldilà suscita paure; per questo, chi
oppone una presunta luce al male è sacerdote, prima ancora
che artista. Però non si mostra facilmente ai profani, scultore,
tessitore, vasaio o fabbro che sia, è membro di una società
chiusa, è maestro che non espone, che lavora lentamente,
in segreto: il suo è un mistero da custodire. [Per notizia,
chi scrive ha donato la sua collezione di bronzi africani –
120 pezzi – al Museo di Paleontologia di Maglie, che sta allestendo
un’apposita stanza espositiva].
Cercherò di chiarire meglio. Abbiamo detto che la maschera
africana è un’espressione plastica, che nasce da esigenze
magico-religiose. Aggiungo che la maschera africana è l’elemento
catalizzatore di forze misteriose, collegate al grado di primitività
ancestrale, non è il travestimento psicologico dell’uomo
moderno.
Il suo linguaggio è complesso e simbolico; è presenza
continua. Ogni momento di vita ha la sua cerimonia, da dove la grande
casistica dei tipi di maschere, tuttavia sempre collegati alla danza,
considerato che per l’africano il ritmo è m’essenza
originaria dell’universo.
Oltre alla danza, il legno è l’altra costante; dico
legno per non dire albero, che è l’unico materiale
da scolpire: non per caso le sculture hanno spesso forma cilindrica,
con soluzioni tridimensionali obbligate.
Ripeto: l’artista africano non fa ritratti, semplifica invece
un’idea generalizzata, ogni dettaglio è abolito. Il
nostro naturalismo cerca la somiglianza; qui si procede dal particolare
all’universale: i volti sembrano appartenere al regno silenzioso
dei sogni. Lo scultore cerca sì invenzioni, ma è il
capo religioso del villaggio a custodire e regolare il cerimoniale
delle maschere, alle quali la tribù chiede solo protezione
e virtù, capaci di allontanare gli spiriti malvagi. Una notizia
interessante: il portatore che nel gruppo si sia distinto per meriti
sociali (sic!) trasmette altri pregi, altri valori alla sua maschera.
Il souvenir che noi compriamo nei mercati ad uso turistico sarebbe
destinato a marcire, poiché perse ogni potere, causa indegnità
sopraggiunta del portatore stesso; ben più importante di
costui, nel gruppo tribale, rimane lo scultore, artista inconsapevole
per vocazione ereditaria, che tutta via continua il lavoro di agricoltore.
La produzione non supera alcune decine di esemplari, in tutta una
vita.
Massima preoccupazione il rispetto delle tradizioni della sua gente;
a lui basta inventare un oggetto straordinario, atto a comunicare
con il soprannaturale. Non si creda, però, che l’arte
africana sia dedicata a pochi. Nient’affatto settaria, come
i più credono, essa ha una funzione attiva nel clan.
All’interpretazione dei misteri della vita metafisica, al
continuo dialogo con gli antenati, essa aggiunge un compito pedagogico:
spiega ai giovani in via d’iniziazione il significato dell’esistenza
quotidiana. Vi sono maschere che plasmano il carattere e che presiedono
ai divertimenti del villaggio. Esistono anche quelli, l’Africa
non è una terra triste, come crediamo. Per esempio, c’è
la “maschera che corre”, quella portata in giro dal
più veloce abitante del villaggio, consumato messaggero il
quale pianterà in asso ogni attività ludica, in caso
di incendio o di pericolo, per avvertire nei campi la gente che
lavora; così come all’alba aveva controllato lo spegnimento
di ogni fuoco, tra le capanne rimaste incustodite…
L’Africa, per me, fu meravigliosa fonte di scoperte inattese.
Le collane sono fatte di “conterie”, chicchi e perline
di vetro, apprezzatissime; ma quanti sanno che detto nome deriva
da un verbo veneziano, “conto”, che significa “adornare”.
E non dimenticherò mai, passando ad altro, gli occhi resi
con le sole palpebre lunate, nei caschi di danza presso i Mende
della Sierra Leone, sbalzate in forte rilievo, attraverso le cui
fessure la danzatrice ti guarda.
Perché tanti crani e tante piume? Rappresentano le forze
del cielo e della terra. Perché tanto fango? E’ il
principio della vita. Perché da una testa sporgono le gambe?
Perché tutto deve essere controllato dalla mente. Ho amato
l’Africa, in quanto regno dell’allegoria.
Potrei continuare. preferisco piuttosto, a dimostrazione di quanto
sia poco nota certa antropo-geografia, riprodurre, a titolo finale,
un’antica preghiera dei Borana, raccolta quand’ero diplomatico
in Kenya e profittavo della cultura empirica di mons. Pietro Caggiano,
antropologo e missionario, che insegnava teologia in un collegio
cattolico non lontano da Nairobi. Il testo è lungo, ma merita
di essere letto, se pretendiamo di avere imparato veramente qualcosa
intorno a un popolo:
“Oh Signore, dammi un giorno di pace / fammi passare un giorno
di ace. / Dovunque io vada : guida i miei passi / preparami un sentiero
di pace. / Quando io parlo / tieni lontana da me la superbia. /
Quando sono affamato / tiene lontana da me l’invidia. / Quando
sono sazio / tieni lontano da me il disprezzo. / Col tuo aiuto /
trascorrerò questo giorno, / oh Signore che non hai signori.
/ Oh Signore guida i miei passi.
O buon Dio di questa terra mio Signore / Tu stai sopra di me e io
sotto di TE. / Se la sfortuna mi visita / e una pianta mi nasconde
il sole / tienimi lontano dalla sfortuna. / Oh Signore sii la mia
ombra. / Rifugiandomi in Te io passerò il giorno io passerò
la notte. / Quando la luna apparirà non abbandonarmi. / Quando
mi leverò non ti abbandonerò/ / tieni lontano da me
ogni pericolo. Dio mio Signore / Tu sole dai trenta raggi / quando
il nemico viene / fa’ che non un tuo verme sia ucciso sulla
terra / ma solo se calpestiamo e uccidiamo un verme sulla terra.
/ Ma Tu se ciò ti piace schiacciaci sulla terra. / Oh Dio
che tieni nelle mani il buono e il cattivo / mio Signore non permettere
che siamo uccisi / noi tuoi vermi che ora ti preghiamo. / L’uomo
che non sa il bene e il male non ti fa arrabbiare / ma se avesse
potuto saperlo e si rifiutò di saperlo / costui è
cattivo: trattalo come ti fa piacere. / Se invece egli mai imparò
/ per favore oh Signore insegnagli. / Se egli non impara il linguaggio
umano / imparerà la tua lingua.
Oh Dio tu che hai creato tutti gli animali e gli uomini / e il grano
da cui a nostra vita dipende. / Tu l’hai fatto non l’abbiamo
fatto noi. / Però ci hai dato la forza / ci hai dato le vacche.
/ Noi abbiamo lavorato con esse / e il seme crebbe con noi / con
il grano che Tu facesti crescere. / Ora il grano è bruciato
nel granaio. / Chi lo ha bruciato? / Tu solo lo sai. / Se io conosco
una o due persone / è quando le ho viste coi miei occhi.
/ Tu invece anche senza averle viste coi tuoi occhi / le conosci
nel tuo spirito. / Un malvagio ha allontanato la nostra gente dalle
case. / Egli ha sparpagliato le madri e i figli / come un gruppo
di tacchini qua e là. / Il sanguinario portò via il
ricciuto bambino.
Tu hai permesso che tutto ciò accadesse: / perché
lo hai fatto? / Tu solo lo sai. / Quando il grano sta per crescere
/ Tu mandi le locuste. / Perché lo hai fatto? / Tu solo lo
sai. / Io so che Tu mi ami. / Allora rendimi libero. / Se non ti
prego con tutto il cuore / non ascoltarmi. / Ma se ti prego con
tutto il cuore e Tu lo sai / sii benevolo con me”.
Di questa lunga preghiera non chiedetemi il senso e nemmeno la
punteggiatura. Fate conto che in lontananza un tam-tam ne scandisca
il ritmo. Forse allora i concetti troveranno una logica e i Borana
canteranno in armonia storie per noi sconnesse e sconosciute.
florio
santini
Altri
naufragi
..... “Le infauste
notti... illuni ( ? ) ...
... allora crollano
– ... esauste... –
le Illusioni ed esce – ... esangue,
lasche le membra... – , tra gl’infidi – IMMUNI!
–
‘compagni in S. Giovanni’
(da un’Ampolla
– metallica...? ... Che langue! ... –
agogna
TREGUA
al suo ululare
lugubre), il LICANTROPO...
...................
Annaspa: in fondo al Vino; dentro l’Antro
– ... atro il latrare... – ,
sogna
{l’orba Strega
– torbo alabastro
il viso... quasi l’ASTRO! ... – ,
cui si prostrò incantato
[INCATENATO
(la morsa – od il rimorso?... –
della CARNE,
che un lemure ermo,
errante – ... di quattr’orme... –
può farne...
... spettro
scevro da ogni SCETTRO! ...),
di morsi
– un muro azzanna? – a Cielo e Terra
– BESTIALE! –
egli bestemmia la sua guerra;
di Sole e Mare
– ... indarno... – brama sorsi,
ma, nell’ – a mo’ di rete –
sulle cose,
di Sale
– che le abrade... come SETE
le rose...
AMARO
manto,
svela,
raspandovi, di un’aspra LUCE – INGRATA! ],
sbranata }
che demorda la TARANTOLA
e l’ancora
e la vela
indi si liberino
all’esule Naviglio e sì si librino
dall’arenile al – ... magico... –
Infinito
di altri naufragi...
... con il gusto... ARCANO...
...................
...................
E {ormai svanito
[ o: ( quando s’inortica
il GECO...
... la CICALA impera... un’... eco...
è la CIVETTA – la Sibilla? – ... antica...)
da un aureo «spillo»
«punto»,
che una «croce»,
nell’«arco», ha espunto
– l’ombra?... di Una VOCE... ]
il demoniaco fregio
dal Sigillo },
sortendo al Sortilegio
in un’ebbrezza,
le cui – ... MERE... –
chimere
e la dolcezza...
...venefica
– ed EFFIMERA! ... non requie
né oblio alle vene furono – ma ... RABBIA! –,
l’antidoto, si finge alle sue esequie...
...di sabbia
– solo! ... Almeno? – , delle Prefiche.....”
...................
...................
...................
giuseppe milone
Dolce
agrume di Sicilia
Si alza il sipario. Luci soffuse. Al centro del palcoscenico uno
sgabello. L’attore entra in scena, si siede e legge a voce
bassa.
20
agosto Sicilia-Puglia (in autobus)
Si può attraversare i muri cogli occhi...
Se non ci fosse la musica direi di essere in un sogno. Non bello,
incompleto. Avverto ostinatamente un senso di mancanza, che non
è mancanza di qualcuno o qualcosa al di fuori di me. E’
mancanza di me.
Attraverso un deserto. La strada è quella che porta a casa.
Casa, concetto borghese di 4 mura che danno tranquillità.
Io sono borghese, anzi aristocratico, di cervello blu, ma una casa
è per me concetto diverso. E’ la felicità su
cui costruisco 4 mura.
Non ho cambiato molte case. Per inclinazione preferisco dormire
sotto i ponti. Lo spirito che fluisce, fa da fiume. Occhi come stelle,
occhi di donne. Potrei popolare il cielo di occhi di donne (gli
occhi di donna chiedono solo di essere ingannati. a oscurare le
stelle).
Sentimento di estraneità.
Non posso fingere. Qualcosa mi tormenta. Forse è la bruttezza
del paesaggio che scorre. Arido. Squallido. Neanche la mia malinconia,
amica di tanti momenti di solitudine non condivisi, riesce a nutrirsi...
Lecce,
31 agosto
Fa freddo. Fa un freddo cane oggi su di me. Valeria è un
fiocco di neve sulla mia testa.
«Lecce,
31 agosto
Sento la neve cadere. Non importa che è agosto. Io la sento
venir giù. Candidamente, soavemente.
S’ammanta la strada. Perdo le tracce. Brividi di gelo io respiro.
Ma immobile giaccio...
Distese di bianco. Coltre silenziosa. Occhi che cercano la punta
di piedi. Ma immobile giaccio...
Un fiocco mi si posa. E’ alba dell’anima.
Armand»
Lecce,
15 settembre
Perché distiamo 600 km. da me a me e da lei a lei? Perché
il tempo è così maledettamente lento?
«Lecce,
15 settembre
Il tempo. Distanza che separa? Felicità nel cammino? Non
esiste unidirezionalità. Non esiste armonia. Esiste un bordo
instabile su cui impariamo a muovere i primi passi.
Dopo l’alba. Alba della coscienza.
C’è un diritto alla felicità. O c’è
un dovere di felicità?
Esistono più dimensioni del tempo.
Quella ipocrita: il tempo? Un’assurdità. Il tempo non
esiste.
Quella materiale: il tempo è necessario. Trasforma i pensieri
in azione.
Quella onirica: il tempo è l’estensione percettiva
della sensibilità. Il tempo si dilata.
Quella spirituale: il tempo è l’ignoto che ci osserva.
Quella statica: il tempo è ogni attimo che fugge via.
Quella dinamica: il tempo fluisce.
Quella geometrica: il tempo è lo spazio tra infinito e infinito.
Quella romantica: il tempo è il dono che Dio concede all’amore.
Amore. E sofferenza. Ci può essere amore se c’è
sofferenza? Ci può essere amore dopo la sofferenza? C’è
amore tra sofferenza e sofferenza? O c’è amore a causa
della sofferenza? O c’è amore per mezzo della sofferenza?
O amore e sofferenza sono la stessa cosa?
Lessi un giorno un proverbio arabo: il destino è il disegno
bellissimo che sta dall’altra parte del telaio. Di qui ci
sono i nodi.
Tuo
Armand»
Lecce,
30 settembre
40 giorni. Son passati 40 giorni. E tutto tace. Strana la vita.
Strane le donne. Bah, in fondo la vita non è strana, né
normale. Registra gli accadimenti. E gli uomini vi danno un significato.
A volte basta accettarlo.
– Mi ricordo i suoi occhi. Mi ricordo la sua voce, dolce,
esile, mentre mi chiama dall’acqua. Mi ricordo il suo viso.
Poi, gli occhi chiusi e i capelli bagnati. Mi ricordo un sorriso
–.
40 giorni. Niente. Silenzio. Vuoto. Non una risposta, non una misera
parola. Sono di nuovo solo.
Lecce,
5 ottobre
Finalmente una sua lettera...
Perché le donne sono così crudeli?
«Desolate
land, 15 ottobre
mezzanotte
Mia cara Valeria,
è una sera qualunque, una delle tante che si susseguono in
attesa di eventi. Non avevo mai pensato alla crudeltà di
una notte senza raggi di luna. Sarà questo che mi spinge
a scrivere. La penna come pennello per dipingere sul nero fondo
raggi d’argento. Pennello intinto nell’argento vivo
del mio cuore.
Oggi sono triste... perché ho capito di aver commesso un
imperdonabile – ahimè – errore.
Quello di non averti baciata. Adieu.
Tuo
per sempre»
Un colpo secco, metallico, rimbomba sul palcoscenico vuoto e semibuio.
Una goccia color porpora si posa sul foglio. Cala il sipario. Applausi.
L’attore esce di scena. Lo spettacolo è finito.
armando
mancuso
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