La sola direzione sociale concreta in cui la
politica italiana ha dispiegato il proprio comando è stata
quella dellinarrestabile creazione di nuovi interessi.
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Sostiene una scuola di pensiero: la ragione per cui nel nostro
Paese è tanto difficile fare riforme radicali sta nella concezione
collettivistica della società che sia la Destra sia la Sinistra
possiedono, e per la quale insieme restano invischiate in una sorta
di paralizzante convergenza con gli interessi organizzati, a scapito
degli interessi dei singoli.
Unaltra scuola ribatte che la chiave del problema delle (quasi
senza eccezione) mancate riforme non va cercata nellideologia
collettivistica della politica, ma piuttosto nei limiti con cui
da sempre essa si è abituata ad agire in Italia. Cioè:
la sostanziale timidezza/insicurezza sociale della politica
e delle sue leadership è la vera responsabile del basso tasso
di riformismo italiano.
I due atteggiamenti intellettuali saranno pure paradossalmente contraddittori,
ma sta di fatto che luno e laltro proiettano fino a
noi uno stato di cose che ha costituito il philum carsico e resistentissimo
della nostra storia. Il Risorgimento e la nascita dello Stato unitario
sancirono tacitamente due punti fermi, solo apparentemente incompatibili:
lonnipotenza delliniziativa politica, ma anche la sua
ferrea subordinazione agli interessi sociali diffusi. La politica
costruì il nostro Stato da sola, nella generale indifferenza
della società; ma per questa sua eccentrica audacia il prezzo
da pagare fu limpegno a non intromettersi più di tanto
negli equilibri, appunto, della società, a non alterarne
il bilanciamento dei vari poteri, eccezion fatta per quelli della
Chiesa, ritenuti tout court «interessi di uno straniero nemico».

Deriva da questa impronta originaria lidentità nello
stesso tempo bifronte e confluente della politica italiana. Unidentità
che ricorda abbastanza da vicino lespressione morotea, che
a suo tempo ci sembrò spregiudicata e tuttavia realistica,
delle convergenze parallele. Ovviamente, sin dallepoca
post-risorgimentale la politica ha generato ideologie di interventi
sugli equilibri sociali. Ma tali ideologie (di Destra o di Sinistra)
sono state essenzialmente allorigine di sterili massimalismi
e inconcludenti Aventini; oppure, se hanno ispirato partiti al potere,
hanno generato stupefacenti smemoramenti.
E accaduto così che, avendo rinunciato di fatto a colpire
gli interessi costituiti, la sola direzione sociale concreta in
cui la politica italiana ha dispiegato il proprio comando è
stata quella dellinarrestabile creazione di nuovi interessi.
Dunque, è vero che nel nostro Paese cè stato
un (debole) riformismo, ma esso non è stato mai indirizzato
a spostare gli equilibri tra i poteri costituiti, quanto piuttosto
ad aggiungere, sommandoli agli antichi, nuovi poteri e interessi
paralleli. Come è stato acutamente notato, il riformismo
allitaliana è stato quasi sempre un riformismo per
aggiunta, per sovrapposizione, mai per spostamento o per sottrazione.
Nel corso della nostra storia nessun privilegio sociale, professionale,
di casta, di gruppo, di organizzazione, è stato realmente
penalizzato, e men che mai annullato ope legis; nessun assetto è
stato mai effettivamente riformato. In generale, ci si è
limitati ad allungare la lista dei privilegiati, o per lo meno dei
beneficati, per questi ultimi riferendoci in modo particolare ai
nuovi strati popolari e piccolo-borghesi entrati in scena dopo il
1945, con lavvento del regime democratico.

Va da sé che, per questi motivi, la creazione di nuovi interessi
e di nuovi privilegiati si sia verificata in special modo sotto
il cono dombra dello Stato e con il concorso determinante
delle finanze pubbliche. E a nostro avviso lo statalismo (ancora
oggi invocato nel nome delle Partecipazioni Statali, che furono
polo di corruzione o di occulti finanziamenti, o di un redivivo
ministero del Mezzogiorno, che fu in buona parte polo di clientelismo
improduttivo) da una parte è ritenuto come vocazione originaria
delle culture riformistiche italiane, e dallaltra parte è
considerato come lesito inevitabile dei confini che la sfera
politica si è sempre obbligata a non valicare, consapevole
di una rappresentatività sociale (e, di conseguenza, di una
legittimazione) fragile, e in un certo senso revocabile ad opera
di una società, qual è la nostra, che tradizionalmente
trascura la rilevanza della politica, di cui non coglie il senso,
della quale si fida poco, che non ha mai amato, e che difficilmente
è disposta ad amare nel futuro.
In questa situazione potrà mai esserci spazio in Italia per
un progetto radicalmente riformatore? E i vecchi e nuovi poteri,
con i loro interessi e privilegi, saranno mai propensi ad assistere,
inerti, al proprio dissolvimento?
E noto che lItalia ha il terzo debito pubblico del
mondo, senza essere il terzo Paese industriale del mondo. Sicché
si predica il rigore, comè giusto, e si parla di sacrifici.
Solo che ogni italiano è disposto ad accettarli, a condizione
che si tratti dei sacrifici degli altri. E questo è un altro
aspetto identificativo della nostra antropologia politica: il rapporto
con lo Stato è in via permanente conflittuale, non conosce
autentici snodi, non dà luogo a radicali rivoluzioni culturali.
Nel senso che la nostra storia continua a trascinarsi fra le derive
di due parti in reciproco sospetto: i cittadini percepiscono lo
Stato come accanito impositore di tasse, imposte, accise e balzelli,
non finalizzati a un generale e risolutivo progetto di equilibrato
sviluppo economico e sociale, da una parte; dallaltra lo stesso
Stato si è proposto come un gran contenitore dal quale i
gruppi protetti e le clientele possono prelevare finanziamenti,
ricevere contributi a fondo perduto, ottenere esenzioni e sanatorie
dogni tipo. In questo modo, il decantatissimo mercato, anziché
strumento di produzione e di diffusione della ricchezza, diventa
una trappola di ingiustizie.
Così è lecito chiedersi come mai il mettersi in moto
della grande locomotiva americana getti una luce inquietante sulla
stagnazione che è nello stesso tempo italiana ed europea.
E come mai gli Stati Uniti, che pure sono gravati da spese ingenti,
sperimentino comunque una crescita che al sistema Italia e al sistema
Europa è negata. E la risposta, per quanto complessa, è
tuttavia chiarificatrice. Più che al bilancio degli Stati,
è necessario guardare alle radici della filosofia politica.
Se gli Usa riescono, nonostante tutto, a tenere il passo, mentre
noi annaspiamo, è innanzitutto perché si tratta di
una società economicamente sana: sebbene anche quello americano
sia a tutti gli effetti un Welfare State, ciò non giunge
a scalfire le idee madri sulle quali è incardinata la società
americana. Lì il Welfare è un portato della storia,
mentre il laissez-faire resta la regola, il principio ispiratore.
Il che non significa che gli americani non credano nella solidarietà.
Anzi, ci credono più di noi: chi conosce bene questo Paese
sa che esso si basa su una giving culture, su una cultura
del dare che sa prendersi cura dei meno fortunati, senza fare ricorso,
salvo casi eccezionali, allo strumento della coercizione.

Ma la cultura del dare non è la cultura del dividere, che
invece imperversa in Italia e in buona parte dellEuropa. Non
a caso scriveva G.K. Chesterton, scrittore cristiano e poi cattolico:
dare non è dividere. Il dividere si basa sullidea che
non ci sia alcuna proprietà personale, che ci si limiti a
spartirci, come avvoltoi che si avventano su una carcassa, ciò
che misteriosamente fa la sua comparsa sulla nostra tavola. Viceversa,
il dare qualcosa a unaltra persona è possibile proprio
perché si ammette il principio della proprietà, del
possesso legittimamente conseguito: dunque, il donare è laltra
faccia del possedere.
LAmerica è una nazione di proprietari, e di proprietari
che sanno donare. Stanno qui la sua essenza e il suo senso storico.
Anche se non è scritto nella sua Costituzione, lAmerica
è una repubblica fondata sulla proprietà. Il che si
riverbera sul sociale: là dove domina lammirazione
per chi sa fare di più e di meglio, non cè posto
per lodio sociale. Dove aiutare chi è rimasto indietro
è ritenuto un dovere personale, non si concepisce lobbligo
gravoso del dividere, livellando verso il basso. Dove la crescita
e lo sviluppo seguono naturalmente la vocazione delluomo al
lavoro, si tende (come recita la Dichiarazione dindipendenza)
al raggiungimento della felicità, propria e di chi sta vicino.
La distanza che separa lAmerica dallItalia e dallEuropa,
prima che politica, è dunque culturale: ed è una distanza
abissale, che deve essere ridotta al minimo, se si vuol garantire
ai nostri figli un futuro migliore di quello che è alle viste.
Certo: sono necessarie riforme, occorre più mercato, si devono
realizzare infrastrutture di cui il mercato ha bisogno per poter
operare a pieno regime. Ma serve pure una riscoperta sincera e disinteressata
di quei valori, cristiani e liberali (il rispetto della proprietà
e i contratti, il sentimento del lavoro, lentusiasmo e non
linvidia per il successo altrui, e per gli esiti propositivi
della libera iniziativa, che soli possono assicurare a noi un avvenire
di prosperità. Colpire, penalizzare, livellare con lossessione
del pauperismo confessionale (di tutte le confessioni politiche)
chi, lavorando bene e senza soluzione di continuità, è
costretto a portare su di sé i pesi di tutti gli altri, e
a pagare per gli appetiti voraci di lobbies e di organizzazioni
ormai rappresentative in buona parte del parassitismo nazionale,
significa ricalcare la linea dombra che divide lacera
il Paese e lo ridicolizza al cospetto delle democrazie occidentali.
Il gioco è durato troppo a lungo. E questo sistema non regge
più.
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