E un abbaglio: è vero che lEuropa
è invasa dai
prodotti cinesi,
ma è altamente improbabile che la Cina diventi terra di conquista
per il made in Europe.
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Se lEst asiatico (il Far East, secondo una definizione
in voga da qualche tempo a questa parte) produce ed esporta in Europa
beni tipici del made in Italy a costi di gran lunga inferiori rispetto
a quelli praticati dagli italiani, (e magari con alcuni marchi contraffatti),
il problema economico è evidente: per le nostre imprese la
competizione diventa impossibile, mentre il declino appare inevitabile.
America, Cina, Europa, e immediati dintorni: lirruzione di
Pechino sui mercati mondiali ha complicato le cose molto più
di quanto fece lingresso di Tokyo, dapprima, e quello delle
Tigri asiatiche in una seconda fase.
America-Cina, intanto: i due Paesi sviluppano la loro politica economica
in base a una doppia logica, nel senso che proteggono le loro produzioni
nazionali, mentre si proiettano con forte aggressività sui
mercati esterni. La posizione dellEuropa è asimmetrica
e autolesiva per molti versi. Secondo unanalisi recente, il
suicidio europeo ha una motivazione ideologica, nello
stesso tempo mercatista e welfarista. Da un lato lEuropa si
apre totalmente ai prodotti stranieri, senza prevedere forme di
protezione dei propri prodotti sul mercato interno. E in questo
si sublima lassoluto dellideologia mercatista: il libero
mercato insieme come mezzo e come fine. Dallaltro lato il
continente europeo si mette quasi fuori gioco, imponendo alle proprie
produzioni il costo di regole welfariste cogenti e perfezioniste.
E come la tela di Penelope: di giorno lEuropa predica
e si autopredica la competizione, mentre di notte tesse una coltre
che soffoca le imprese e il lavoro.

Fenomeno già previsto, allorché (era il 1995) si
scrisse che la povertà stava arrivando in Occidente, area
nella quale si combinavano salari orientali e costi occidentali.
Salari livellati dalla competizione salariale internazionale, costi
elevati per conservare le strutture del welfare europeo. Una cascata
di fenomeni destabilizzanti: una profezia, confortata da verifiche
non solo economiche, ma anche politiche, condotte sul campo.
Lesempio forse più clamoroso e concreto, quello del
marchio europeo clonato dai cinesi. In Europa il marchio C E (con
le due lettere staccate) è posto a garanzia dei prodotti
fabbricati nel rispetto di tutte le leggi, da quelle del lavoro
a quelle sanitarie e ambientali, fino alla tutela dei minori. I
cinesi hanno applicato un marchio identico, CE, (con le due lettere
non staccate), che indica sui loro prodotti China Export.
Una malizia furfantesca, che trae in inganno i consumatori di mezzo
mondo.
La svolta si ebbe al G7 di Bercy, presso Parigi. Intorno al tavolo
cerano i ministri economici dei sette maggiori Paesi industriali.
Nel documento conclusivo, lItalia propose di sostituire lespressione
tradizionale di sostegno al free trade (commercio libero),
argomentando che lassolutismo del libero commercio doveva
essere in qualche misura moderato. Allinizio, tutti daccordo.
Il problema era lespressione fair trade, che negli
Stati Uniti significa dazi e quote: troppo protezionistica. Così
passò la formula rules based trade, commercio
basato sulle regole. Il che, in sostanza, è ciò che
diceva Adam Smith: il commercio è rispetto di regole, oppure
non è. Era il 22 febbraio 2003. Quel giorno, in un documento
ufficiale del G7, la curva ideologica del mercatismo cominciò
a flettere.
E bene fissare alcune date storiche. 1989: caduta del Muro
di Berlino. Cioè, il big bang che diede il via a una nuova
era dintegrazione commerciale del mondo, sostenuta dalle nuove
tecnologie informatiche. Il commercio internazionale, i pc e le
telecomunicazioni cerano anche prima, ma fu il 1989 che integrò
il mondo sul piano politico e aprì i forzieri delle tecnologie
militari, facendo decollare Internet. In un decennio laccelerazione
fu impressionante. E nel 1999, al summit della Wto di Seattle, si
aprì il vaso di Pandora del libero commercio mondiale, con
la promessa di ricchezza per tutti. Così, almeno, la vedevano
i mercatisti. Altri invece temevano che il vaso di Pandora si sarebbe
presto trasformato in una lampada di Aladino: sfregandola, sarebbe
comparso il fantasma della povertà.
La verità, a ben vedere, stava nel mezzo: si trattava di
combinare lintegrazione mondiale del mercato con gli strumenti
e con la tempistica necessari per evitare squilibri troppo violenti.
In altri termini: la platea dei chierici clintoniani a Seattle sposò
senza riserve la tesi del vaso di Pandora. Alcuni ex comunisti o
laburisti passarono tranquillamente dal dogma di Mosca o del Labour
al dogma mercatista, che è lestremizzazione della dottrina
liberale del libero mercato. Non riflettendo sul fatto che se Marx
fosse vivo ignorerebbe tutti i fenomeni marginali che piacciono
tanto a certi progressisti, e si occuperebbe in profondità,
invece, del più colossale fenomeno di migrazione industriale
mai avvenuto nella storia, quello dai Paesi occidentali verso la
Cina, senza precedenti per intensità e per quantità.
E bene dire una volta per tutte che il 55 per cento delle
imprese che producono beni di consumo ordinari in Cina sono in realtà
occidentali; che il 90-92 per cento delle imprese che lì
producono tecnologie avanzate sono occidentali. Occidentali
significa americane ed europee. Ma lEuropa non fa ciò
che lAmerica, patria del liberismo, sta facendo da tempo,
con successo: ovvero, proteggere il mercato interno e la sua produzione
nazionale non soltanto con dazi doganali, ma anche con strumenti
indiretti, come controlli alimentari, sanitari, ambientali e di
tutela sociale sui prodotti in arrivo.
Eppure, in prospettiva, ci sono due illusioni destinate a cadere.
La prima è che la Cina possa diventare un grande mercato
per i prodotti europei. E un abbaglio. E vero che lEuropa
è invasa dai prodotti cinesi, ma è altamente improbabile
che la Cina diventi terra di conquista per il made in Europe.
Se i prodotti cinesi sono buoni e a buon mercato per gli europei,
a maggior ragione lo saranno anche per i cinesi. Ai prodotti europei
in Cina saranno riservate tuttal più aree di nicchia
o aree marginali. La seconda illusione è che lEuropa
conservi il monopolio della tecnologia, riservando alla Cina produzioni
di massa a bassa intensità tecnologica. La realtà
è che la potenza scientifica della Cina sta salendo vertiginosamente.
E intanto, noi abbiamo la vita complicata da una serie di norme
e di lacci inestricabili. Ad esempio, limprenditore italiano
ha larticolo 18, mentre il suo competitore cinese non ha alcun
vincolo. Le nostre imprese devono rispettare la legge 626 sullambiente,
mentre quelle cinesi e dellintero Far East inquinano senza
alcun limite. Da noi si producono rubinetti di qualità, conformi
a costosissimi standard europei, mentre in Cina si fabbricano e
si esportano rubinetti fatti con materiale di risulta, con uranio
impoverito. Se da noi il costo è cento e in Cina è
meno di dieci, puoi fare riforme fiscali estreme, aliquota zero
sugli utili, ma se gli utili non ci sono più a che serve?
E ancora: nel mondo ormai ci sono soltanto due monete, leuro
e il dollaro. E la debolezza del dollaro americano, al quale sono
legate le valute asiatiche, fa sì che laggressività
dei prodotti del Far East nellarea delleuro sia ancora
molto forte. Anche sui cambi si dovrà riflettere in sede
europea.
In ultima analisi, si può dire che la Cina di oggi è
come il Giappone di trentanni fa. In poco tempo la sua capacità
tecnologica crescerà in maniera esponenziale, poiché
questo gigantesco Paese non solo dispone di una manodopera straordinaria
per quantità e per qualità, ma anche di unintensità
scientifica e culturale impressionanti. Tra qualche anno soltanto
potrebbe non esserci più neppure un solo televisore prodotto
in Europa.
Dunque, il fenomeno Cina va visto in un contesto universale. Oggi
si parla di declino delleconomia italiana. Ma passare dal
miracolo al declino in pochi anni non è normale, per un declino
di solito ci vogliono alcuni decenni. Invece, dopo Seattle, cè
stata una fortissima accelerazione, che è il risultato di
unaggressione commerciale senza regole. Porre questo problema
e agire, richiede una certa dose di visione e di coraggio politico.
LItalia in particolare deve investire moltissimo in competizione.
Ma i tempi sono drammaticamente stretti e lazione deve essere
duplice: da un lato, investire per competere; dallaltro, regolare
la competizione. Solo così si potrà evitare che lItalia,
e la stessa Europa, vadano incontro ad una incosciente eutanasia.
Quante imprese italiane sono state scottate dal Dragone
pekinese? Laggressività gialla non conosce limiti.
Unimpresa nostrana produceva caffettiere a 14 euro di costo
e le rivendeva a 18 euro. Un giorno, però, gli uomini del
suo marketing scoprirono che il mercato italiano era invaso da caffettiere
contraffatte cinesi col marchio CE (China Export), con
prezzo vendita di appena 6 euro e con guadagno elevato, dal momento
che le caffettiere clonate erano prodotte a un costo unitario di
fabbrica di 2,5 euro. Non solo: le caffettiere contraffatte registravano
persino alcune migliorie rispetto agli originali. Risultato: limpresa
italiana fu costretta, per non chiudere, a trasferire in Cina il
5 per cento della produzione, in attesa di tempi e di soluzioni
migliori.
Caso dei rubinetti, delle valvole e delle pentole di Lumezzane,
nel Bresciano: materiale copiato dalla Cina, ma prodotto in questo
Paese con materiali di risulta, compreso luranio impoverito.
Poiché la gente non lo sa, e guarda solo alla convenienza
del prezzo, la vendita di rubinetti italiani di qualità crolla
del 46 per cento, e quella delle pentole del 64 per cento. Una batteria
da cucina di lusso prodotta in Italia non può costare meno
di 500 euro, quella cinese sfiora i 25 euro!
Altro caso. Unazienda tessile torinese, per reggere la competizione
internazionale, contro i giganti dellabbigliamento sportivo,
decide di trasferire in Cina la produzione, con benefici immediati
e con forte rilancio dellexport. Ma dopo l11 settembre
il trader di Hong Kong incaricato della mediazione incomincia a
bloccare tutto: acquisti, spedizioni, pagamenti. I traders di Hong
Kong sono notoriamente degli strozzini e, appena possono, dei ricattatori.
Dunque: per poter riprendere lattività, il trader in
questione reclama il 30 per cento della società italiana,
a prezzi stracciati.
E non a caso la voce più consistente delle esportazioni italiane
in Cina è quella dei macchinari (58,4 per cento delle nostre
esportazioni in quel Paese): proprio di questi i cinesi si servono
per clonare a costi più bassi i prodotti del made in Italy,
che fino a pochi anni fa facevano la fortuna della nostra imprenditoria
in diversi settori: tessile, abbigliamento, calzature, e prodotti
manifatturieri vari, dalle caffettiere appunto alle
piastrelle e alla pelletteria. E per limmediato futuro si
prevede che il livello tecnologico della produzione cinese migliorerà
sensibilmente.
Già oggi quella che è considerata la fabbrica collettiva
numero uno al mondo sforna il 26 per cento delle lavatrici del pianeta,
il 50 per cento delle macchine fotografiche, il 40 per cento dei
forni a microonde. E unescalation che non conosce precedenti
nella storia della Cina: entrata nella Wto dopo 15 anni di anticamera,
la Cina ha visto la quota del suo commercio mondiale salire dallo
0,7 per cento del 1986 al 7 per cento attuale. Ora, con circa 280
miliardi di dollari di export, la Cina è al sesto posto nella
graduatoria mondiale dei Paesi esportatori. La Gran Bretagna aveva
impiegato 58 anni per raggiungere un analogo risultato; gli Stati
Uniti, 47 anni; il Giappone, 43. E la composizione sociale cinese
prelude ad altri grandi balzi.
Gli imprenditori privati nel 1988 erano appena 100 mila. Oggi sono
due milioni e mezzo. La classe media è stimata in 400 milioni
di persone, i benestanti sfiorano i 200 milioni: che è come
dire la metà della popolazione europea e due terzi di quella
americana. A fronte di queste prospettive, non meraviglia che quello
cinese sia un polo di attrazione per gli investimenti esteri: ammontavano
a 52,7 miliardi di dollari nel 2002, saliranno a 100 miliardi nel
non lontano 2005.
La potenza produttiva della Cina aumenterà grazie alla politica
promossa allinterno, che favorisce la migrazione dalle aree
agricole verso le fasce costiere, dove sono concentrati gli insediamenti
industriali.
Il divario di reddito pro-capite tra interno e costa è di
nove a uno: difficile resistere al richiamo del guadagno e del benessere.
Prevedibili, dunque, nuove fabbriche, nuove attività, sviluppo
tecnologico, concorrenza accanita con produzioni a basso costo,
e nuove aree di crisi nellEstremo Oriente e in Occidente.
Tutti i progetti di rilancio delle economie occidentali e di quella
giapponese e delle vecchie Tigri asiatiche non possono prescindere
da questa situazione e da questi dati.
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