Qualche segnale
di ripresa cè,
e riguarda gli
investimenti delle grandi imprese
e un certo spirito
di riscossa delle piccole e medie aziende.
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Il punto debole dellItalia si chiama competitività.
Un punto che si traduce, nei fatti e nei numeri, in un progressivo
arretramento dei prodotti nazionali e delle quote collocate sui
mercati internazionali. Leggiamo le cifre dal 1995 al 2003: a prezzi
costanti, si è passati da una quota sul commercio mondiale
del 4,5 per cento ad una del 3,9 per cento nel 1998, per finire
al 3 per cento del 2003. Con lulteriore complicazione del
concentramento delle nostre esportazioni in settori maturi (quelli
del cuoio e delle calzature, del mobile e del tessile), che nel
complesso rappresentano poco più di un decimo degli scambi
mondiali. Siamo invece assenti proprio dove la domanda internazionale
si espande a macchia dolio e più rapidamente, vale
a dire nella produzione di beni tecnologicamente avanzati.

Ma quali sono gli handicap sui quali agire? In primo luogo, la
scarsa produttività; poi, la ridotta dimensione delle imprese,
che limita la produttività e frena la ricerca e linnovazione,
e di conseguenza la possibilità di conquistare quote di mercato;
infine, limpatto del prezzo del petrolio. Non a caso, il Governatore
della Banca dItalia ha sostenuto che sullo sviluppo della
domanda attesa influisce la perdita di competitività legata
allo scarso incremento della produttività e dellaumento
di costi di produzione: non è la prima volta che viene puntato
lindice sulla produttività, quella che un giorno era
un punto a favore per il nostro Paese. Essa ha continuato ad arretrare,
soprattutto nel settore industriale, sul versante della competitività.
Il suo aumento negli anni Novanta del secolo scorso e ancora più
nettamente nella seconda metà del decennio «si è
situato al di sotto dei ritmi osservati nelle altre maggiori economie
industriali».
Anche qui, ad osservare i numeri, si scorge un crinale: la produttività
del lavoro è diminuita negli ultimi due anni, mentre nel
quinquennio 1991-1995 la produttività totale dei fattori
era cresciuta dello 0,9 per cento allanno; nella seconda metà
del decennio cominciava a scendere allo 0,5 per cento, mentre negli
ultimi tre anni la variazione era negativa per 0,7 per cento in
media ogni anno. Le cause? Scarsi investimenti in nuove tecnologie,
basso grado di esposizione alla concorrenza internazionale, dimensione
ridotta delle imprese.
Siamo cambiati anche su un altro punto, e sempre in peggio. Si è
accentuata la tendenza alla riduzione della dimensione delle imprese,
già in atto alla fine degli anni Settanta, e il divario rispetto
ai principali Paesi industrializzati si è ulteriormente ampliato.
Il numero medio degli addetti delle aziende italiane, sia nellindustria
sia nei servizi, risulta (in un dato del 2001) inferiore a quattro:
al netto di due milioni e 400 mila imprese con un solo dipendente,
la dimensione media è di 8 addetti, contro i 13 della Francia
e i 15 della Germania e del Regno Unito.
Le conseguenze del nanismo imprenditoriale sono diverse: limitano
laumento della produttività, la ricerca, lo sviluppo
di prodotti innovativi e tecnologicamente avanzati, la conquista
di nuovi mercati. La bassa crescita e la ridotta competitività
hanno messo in affanno anche le imprese medio-grandi e la fotografia
realistica di questo affanno in un numero: nel 2003 le ore di Cassa
integrazione sono state pari al lavoro prestato da 130 mila lavoratori
a tempo pieno.
A latere, limpatto delleuro forte: negli ultimi due
anni ha inciso lapprezzamento del cambio. Ladesione
alla moneta unica ha permesso di abbassare i tassi di interesse
e ha contribuito alla stabilità del sistema finanziario;
ciò, tuttavia, ha fatto venir meno la pratica diffusa di
correggere le inefficienze e le difficoltà competitive della
nostra produzione con gli aggiustamenti di cambio. Ora servono altre
correzioni. Una sinossi delle cifre italiane ci offre un panorama
abbastanza completo della situazione. Il tasso medio annuo di sviluppo
del nostro Paese negli ultimi cinque anni è stato pari al
2,4 per cento: lo stesso della Germania, e nettamente al di sotto
della media europea. Lincremento medio della produzione industriale
nello stesso periodo ha registrato un calo del 5 per cento. Il calo
delle esportazioni italiane nel 2002 è stato del 3,4 per
cento; nel 2003 è stato del 3,9 per cento. La produttività
del lavoro tra il 1995 e il 2003 è scesa dello 0,7 per cento
(è diminuita negli ultimi due anni). La dimensione media
delle imprese italiane è pari a 8 unità. La variazione
della produttività totale dei fattori nellultimo triennio
registra un saldo negativo dello 0,7 per cento. La quota italiana
sullexport mondiale nel 2003 è stata del 3 per cento,
con un calo di un punto e mezzo rispetto al 1995.
Tutto nero? Non proprio. Qualche segnale di ripresa cè,
e riguarda gli investimenti delle grandi imprese e un certo spirito
di riscossa delle piccole e medie aziende. Le prospettive dello
sviluppo sono legate allesperienza di un cosiddetto nucleo
redditizio di 3.700 società, da prendere come esempio:
si tratta di imprese prevalentemente familiari, ben capitalizzate,
attive nei settori tradizionali e in nicchie di mercato. La loro
crescita, gli elevati investimenti nel settore della ricerca, lespansione
in segmenti contigui di attività, una maggiore penetrazione
nei mercati internazionali possono dare un contributo importante
al rafforzamento delle prospettive di sviluppo del nostro sistema
economico, anche insegnando come crescere e aggregarsi.
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