Senza costruire teoremi utopici,
si attende un salto di qualità in cui
il Paese deve
mettere in gioco un po della sua anima giacobina
e del suo cinismo senza morale.
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LItalia è ancora un Paese riformabile? Abbiamo un
passato con tante anomalie irrisolte, ma non siamo mai entrati nel
futuro. E di fronte allevidenza di una cesura grave tra aspettative
sociali e loro rappresentanza, politici, imprenditori e sindacalisti
continuano a negare la sindrome del declino. Cè nellaria
un forte senso di scoramento, con bolle di entusiasmo subito annullate
da vampate di allarmismo.
Ma ogni situazione di crisi ha in sé il dovere della speranza.
Di fronte alla prolungata decelerazione nella crescita del Pil e
della produttività del lavoro restiamo tutti in surplace,
in attesa che qualcuno parli al Paese, rendendo visibile linvisibile,
soprattutto dopo gli esercizi di una volontà riformatrice
che quando non ha prodotto gelida astrattezza, ha aperto cantieri
vuoti (devolution e leggi costituzionali) o seminato con risultati
scarsi (cito a caso: riforme Rai, scuola, mercato del lavoro, nuovo
processo penale, nuovo diritto societario, leggi sul diritto di
sciopero, sulla responsabilità civile dei magistrati, sulle
privatizzazioni). Tutte leggi piatte, che non hanno
scalfito le ragioni del disagio, accentuando la frattura tra occupati,
disoccupati ed esclusi.
Chi ora è animato da buoni propositi deve assumere funzioni
e ruolo di outsider, per portare lidea delle riforme fuori
dai ghetti culturali della Scapigliatura; per vincere il compassato
torpore di top manager, autorità di governo, leader politici,
sindacalisti a quattro stelle. Con qualche avvertimento. Gli elettori
tedeschi, francesi, inglesi, spagnoli hanno già bocciato
i governi più esposti su questo fronte, dando allEuropa
chiari segnali di continuità conservatrice. Dopo le amministrative
e le europee, gli italiani si preparano al voto di legislatura del
2006 (forse anticipato al 2005) ipnotizzati da un effetto estraniante
che crea scarsa voglia di futuro.

Si può dissertare a lungo sulle motivazioni di un voto.
Ma si può già scommettere sulla percezione di un tessuto
sociale che preferisce strangolare nella culla le ricette riformiste,
giudicando più rassicurante uno schema rodato e usurato (dogmatico
conformismo, secondo Sergio Romano).
Anche le veglie di contestazione sono senza voglia, seguono le logiche
di un rituale mondano interrotto saltuariamente da arrabbiature
a comando. Non ci sono più le grandi forze del mutamento
riconducibili alla dimensione delle masse organizzate e ad una società
illuminata, ben disposta verso nuove forme di omologazione. I sogni
non sono più audaci come negli anni Cinquanta-Sessanta, quando
in unItalia sobria e austera la partecipazione collettiva
era vissuta in modo accorato e arroccato, ma sempre orientata verso
ambiziosi progetti unitari di sviluppo. Chimica, siderurgia, petrolio,
trasporti animavano sanguigne polemiche nazionali, mentre la questione
meridionale assumeva significativa centralità nella definizione
delle politiche di sviluppo. Nascevano le Partecipazioni statali
e la Cassa per il Mezzogiorno, come surrogato di un mercato familistico
asfittico, nel segno di una progettualità politica in sintonia
con gli umori delle piazze, delle parrocchie, delle sezioni di partito,
delle cellule sindacali. Adesso prevalgono i sondaggi asettici degli
analisti, le passioni calde cedono il passo alle passioni fredde,
le questioni di protocollo prevaricano quelle della modernità.
Le emozioni ruotano attorno a bandiere di Club (non solo calcistici),
degradando malinconicamente verso ambizioni di seconda mano.
Di fronte allonda trendy che ha invaso poteri forti e semideboli,
strattonati tra tecnocrazia europea e polverizzazione territoriale,
la progettualità di sistema è entrata in sofferenza,
prevaricata da interessi corporativi che fabbricano egoismi recintati,
etica e ideologia da collettivo (il culto esasperato delle differenze
genera lirrazionale organizzativo).

Così si coltivano i surrogati di una memoria che svanisce
e quando non risultano vane le iniziative intraprese si producono
sigilli fragilissimi, facendo prevalere confusione e grigiore. Si
premia il ruolo salvifico della conservazione che impedisce di tonificare
il corpo sociale e irrobustisce le derive dellintegralismo
aggressivo che fanno trionfare appetiti di potere consumati tra
veleni e controveleni.
La higher class, la classe dirigente, si scalda per un punto di
share, mentre la gente comune recita il rosario delle incertezze,
spesso accompagnato dai vespri della paura e dai notturni delle
ansie allucinogene. Sul fronte politico, scomparsi i consanguinei
in linea retta, si fanno ostiche prove di dialogo con gli uneasy
cousins, i cugini difficili, germogliati dallo scisma cattolico
e socialcomunista. Nelle relazioni industriali la strategia astensionista
del governo ha sostituito quella interventista del vecchio
Ulivo, producendo posizioni quasi neutre nei processi di negoziazione.
Sul versante legislativo è in crescita esponenziale il prontuario
delle norme biodegradabili, subito cestinate dalle nuove maggioranze
parlamentari.
Così, tra uninvestitura popolare e la gestione dei
conflitti, si avverte un vuoto di mediazione (talvolta assenza di
leadership) che non può essere colmato con la magia di un
presenzialismo senza primazia. Si materializza anche sul fronte
interno quella politica della sedia che lambasciatore
Quaroni imputava ai difetti della nostra politica estera.

Questa summa di simboli gibbosi è nel DNA dellesperienza
polista, caratterizzata da caotici percorsi di continuo logoramento.
Nella sua espressione di governo, tra alchimie e millimetriche sottigliezze,
ha prodotto cartelli asimmetrici (cera una volta
la cultura della coalizione!), attuando politiche di appeasement
per addomesticare i problemi più che risolverli, per salvaguardare
la stabilità più dello sviluppo. Fedele ad una ferrea
consuetudine della politica italiana: prima vincere, poi filosofare.
Devotamente proiettata nella seconda fase (quella del filosofare)
alla sublimazione del potere dinterdizione di partiti verso
altri partiti, di sindacati verso altri sindacati. Questo malcostume,
che vanta insuperabili expertise, si giustificava un tempo con una
forte componente ideologica, con una base organizzata, con appoggi
esterni del mondo laico, cattolico, sindacale. Lera polista
ha frantumato questo entroterra, ha introdotto i valori di un liberalismo
utilitario molto diverso dal liberalismo comunitario del 48,
mentre nei meandri delle sue liturgie ha esaltato luso dei
veti incrociati. Col risultato di impoverire lo spirito di negoziazione
e il sogno di unalternanza con chiari progetti di contendibilità.
Purtroppo non ci sono più margini di manovra per lantica
scuola attendista del potere, per larte del rinvio
che ci induce ad issare bandiere di periferia. Ad un recente convegno
sindacale di metalmeccanici, un operaio ripeteva spesso sottovoce:
«Sono morto tante volte, ma mai come questa volta».
Cerano in giro un tasso elevato di incomunicabilità
e un malessere sottocutaneo che vanno presi sul serio. Da subito,
senza esasperare ulteriormente un lungo e tormentato psicodramma
popolare.

Come si è giunti al crepuscolo dellanima nazionale?
Ad accettare un fronte così vasto di ripiegamento morale
e umano? Forse è colpa del logorio prodotto dalle faide di
potere senza fine. Forse è colpa della globalizzazione, che
ci rende tutti confusi apprendisti in un mondo dominato dalle pratiche
di delegittimazione delle istituzioni, dalle politiche di potenza
espresse da monarchie feudali e repubblicane. Forse... Intanto viene
scoperchiato il vaso di Pandora, con i malanni del degrado che creano
nuovi panorami di scarsità, inaspriscono i conflitti sociali
e frantumano gli obiettivi politici.
Leconomia perde fette consistenti di mercato (la quota italiana
nel commercio internazionale si è ridotta del 25%) e sente
addosso il fiato di aree economiche europee meno ricche e più
dinamiche, mentre si allarga la fascia del proletariato informatico
e del lavoro non protetto (cococo, telelavoratori, interinali, lavoratori
a progetto, occasionali, ecc.: circa un quarto del mercato in attesa
di giustizia ed equità).
LIstat denuncia un calo delloccupazione nella grande
impresa, conferma limpoverimento del ceto medio (gli ex benestanti
con reddito fisso) e ribadisce un dato ormai decennale; in Italia
esistono due milioni di famiglie povere, per circa sei milioni di
cittadini. Mentre il welfare continua a preoccuparsi poco delle
vecchie e nuove povertà, preferendo assecondare le autotutele
di nicchia. Mentre gli industriali investono nelle utilities (elettricità,
telefonia, ecc.), settori di fatto amministrati e soggetti a tariffe,
preferendo trattare con ministri e authorities piuttosto che esporsi
ai rischi del mercato aperto.
Il viaggio dal nuovo paternalismo ad una moderna economia sociale
di mercato è ancora lontano dallapprodo a posizioni
di equilibrio condivise, capaci di colmare lo iato delle diseconomie,
le frustrazioni del cambiamento che colpiscono gli eredi del ceto
medio degli anni Settanta. Cè sempre chi guarda alla
tradizione di Bismark e chi a quella di Beveridge, chi si sente
folgorato dalla Reaganeconomics americana e dallesperienza
inglese della Thatcher e chi è affascinato dal culto dello
Stato sociale della sinistra franco-tedesca. Questo strabismo umorale
ereditato dai grandi vecchi del passato attraversa tutto il corpo
sociale e tiene in vita un corposo nucleo di interessi conflittuali
rappresentato da lobbies imprenditoriali (meno Stato in economia,
meno aiuti in cambio di meno imposte) e lobbies di lavoratori autonomi
e del pubblico impiego (più Stato, anche in economia, più
forza e tutela dellordine costituito).
Quasi una radiografia delle regioni del Nord e di quelle del Sud.
Nel mezzo di questa disputa freudiana, che identifica ancora lo
statalismo con il meridionalismo, che annulla il fascino dellimpegno
collettivo rendendo precaria ladattabilità del sistema
al dinamismo dei mercati, resta difficile semplificare e razionalizzare
gli schemi di lavoro. Così come resta difficile proporre
new entry o registrare ricambi negli assetti di controllo delle
imprese, chiedere (e ottenere) lo scalpo di top manager e politici
da bacheca o intimare il pentimento ai fautori del business feudale
e dei poteri minimi di apparato. In breve, resta difficile fare
una sintesi politica diversa dalla politica della lesina.
Lo shopping delle soluzioni imposte dal vento della globalizzazione
offre esempi di letteratura poco edificanti: dalle crisi della grande
impresa con obbligo di risanamento (Fiat, Alitalia) alla crisi contemplativa
(Cirio, Parmalat), dallo spezzatino di scarso profitto attuato con
le cessioni del gruppo Iri alla delocalizzazione portata avanti
dalla piccola e media impresa, con trasferimento allestero
di filiere importanti dellattività produttiva (ora
vanno di moda i Paesi dellAsia e dellEst europeo). I
giornali offrono testimonianza quotidiana della deindustrializzazione
del sistema-Paese, dellaffannato modo di procedere di un capitalismo
ibernato e senza capitali (un terzo del Made in Italy è già
di proprietà estera).
E entrato in sofferenza il modello pubblico-privato che ha
prodotto il miracolo economico del dopoguerra, sostituito da una
fiera strapaesana animata da rissosi particolarismi. Ancora non
cè il lupo fuori dalla porta, ma le termiti lavorano
da tempo dallinterno.
Senza costruire teoremi utopici, si attende un salto di qualità
in cui il Paese deve mettere in gioco un po della sua anima
giacobina, del suo cinismo senza morale. Il concreto futuribile
chiede passi felpati verso la razionalizzazione dellesistente.
Per ridurre le ritualità che esaltano i conflitti e abbassare
il tasso dincomunicabilità tra distretti industriali,
apparati istituzionali e soggetti sociali. Per recuperare il senso
di unità di una comunità sgranata.
Dunque, il nuovo parte dal vecchio, dalla necessità di fare
sistema, ora invocata a più voci. Parola dordine
ineccepibile, che deve tener conto di unelevata propensione
allostruzionismo. Come coniugare crescita e rigore? Che risposte
dare alle nuove sfide del capitalismo flessibile? Come si gestisce
lapproccio ad una modernità laica, illuminista e cosmopolita
nellera del mercato globale e delle democrazie postnazionali?
Questi interrogativi politici sottintendono altri interrogativi
tecnici. Perché gli industriali non investono,
dipende dalle difficoltà dei conti economici o dalle banche
che non concedono credito? Perché il salvadanaio delle fondazioni
bancarie non partecipa al circuito dello sviluppo? Il rilancio industriale
devessere fondato sul business o eterodiretto dalla politica?
La rinnovata voglia di concertazione è compatibile con una
labile rappresentanza sindacale, con il deficit del bilancio pubblico,
con i programmi di risanamento aziendale? Il federalismo fin qui
immaginato (disegni elaborati in sede politico-parlamentare e votati
a colpi di maggioranza, rimuovendo ogni istanza di Assemblea costituente)
è funzionale alla creazione di un sistema integrato?
Potremmo continuare, ma al fondo di ogni interrogativo troviamo
un coriaceo intruglio edipico del nostro formicaio di umanità
(con arroganze e timidezze estreme) e una serie di paradossi istituzionali
che qualificano altrettanti punti di debolezza strutturale. Limagination
au pouvoir può attendere.
Se i consumi non riescono a dare nuovo dinamismo alla domanda interna
(per limpoverimento di un ceto medio che ha dato disdetta
al contratto sociale che garantiva le sue certezze) bisogna stimolare
la ripresa attivando il rilancio degli investimenti. Ecco un primo
paradosso. Questa necessità si scontra con il risparmio parcheggiato
in Bot e conti correnti oppure investito nellacquisto di abitazioni
da affittare con canoni elevati.
Sappiamo che il Governo dà priorità ai temi della
crescita e della competitività. Ma un isolato effetto
annuncio non basta, continua a dominare il pessimismo (confermato
dal declassamento del rating sul debito pubblico operato da Standard
& Poors), mancano prospettive di lungo periodo, molte
aziende, anche con profitti soddisfacenti, risultano sottocapitalizzate.
Ci sono poi i paradossi amministrativi. Anni di deregulation, di
accorpamenti ministeriali, di mobilità nel pubblico impiego,
di trasferimento di compiti agli enti periferici hanno prodotto
un aumento delle funzioni dellAmministrazione centrale (un
quarto dei procedimenti amministrativi concessioni, autorizzazioni,
ecc. dipende dal ministero dellEconomia e delle Finanze).
A questo primato di furberie goliardiche va aggiunta la crescita
esponenziale dei procedimenti regionali, provinciali, locali e il
forte incremento del contenzioso tra Stato, regioni e autonomie
minori, che concorre non poco a rallentare lattività
amministrativa. Non ci sono indici valutativi ufficiali del grado
di disaffezione degli imprenditori rapportato alla complessità
della macchina amministrativa. Il fenomeno tuttavia esiste ed è
stato segnalato più volte dallAutorità garante
della concorrenza. Investe tematiche di cultura, costume e potere
minuto di una classe dirigente che in prima battuta preferisce sempre
mandare in scena se stessa.
Ecco un altro nodo centrale del sistema-Paese. Se si confronta la
nostra classe dirigente con quella di altri Paesi europei (nel contesto
Ue è inevitabile) si nota la diversità di background
per parlamentari, leader, politici, pubblici funzionari. Da noi
le esperienze professionali sono casuali ed estemporanee, manca
un sentimento di responsabilità generale, una visione strategica
dellistituzione in cui si opera. Le formalità di accesso
alla Pubblica Amministrazione e le palestre formative dei partiti
hanno scarsa attinenza con lattitudine a risolvere i problemi,
con il valore sacro della neutralità delle istituzioni, con
i princìpi dintransigenza civile connaturati alla responsabilità
dufficio. Con queste approssimazioni di sistema
si fabbricano carriere costruite in coni dombra, obbedienti
spesso a finalità eterodirette, talvolta determinanti nellallontanarci
dallEuropa (cè un ruolo di rappresentanza istituzionale
che va salvaguardato).
Ancora, levoluzione recente della galassia politica ha trasformato
i vecchi partiti-organizzazione in partiti-movimento. Hanno guadagnato
in snellezza e sui costi di esercizio, ma hanno perduto in qualità,
essendo dominati dai boss del consenso organizzato che assumono
importanza decisiva in un tempo caratterizzato da una forte volatilità
del consenso.
Noi non abbiamo la tradizione Oxford-Cambridge della Gran Bretagna
né le grandes écoles della Francia. Sono venuti meno
anche i professionisti della politica che, allenati
con una lunga pratica di governo, garantivano timonieri navigati
alla macchina amministrativa.
Lesigenza di unoculata politica delle risorse umane
esiste anche nel mondo delle imprese dove si devono recuperare le
ragioni dellefficienza e della professionalità rispetto
alla visione miope della riduzione dei costi.
Questa complessa realtà magmatica, trasversale ad ogni punto
della rete-sistema, rallenta oggettivamente il processo riformatore
e procura linfa al complesso delle forme e alla tentazione
delle nicchie. Aspettando Godot, imprese, sindacati, università,
Pubblica amministrazione cercano conforto nelle rendite di posizione,
mentre leccessiva volatilità di una politica senza
egemonia obbliga i cittadini a difendersi dai calembour, dalle amnesie
istituzionali, dalle inefficienze quotidiane.
Si può spezzare questo circolo vizioso? Rifiutandoci di
credere nellabdicazione collettiva, pensiamo che si possano
ancora trovare buone levatrici. Quando un Paese è alle prese
con i problemi della stagnazione e dello sviluppo spuntano le ricette
keynesiane. Non a caso si nota un nuovo attivismo dello Stato imprenditore
attraverso la Fintecna (finanziaria che ha in cassaforte lattivo
della liquidazione Iri) e la nuova Cassa Depositi e Prestiti, che
assolve ormai funzioni di merchant bank pubblica. Con un interrogativo
doveroso: la pesante situazione del debito pubblico permette ancora
di tenere in vita uno Stato imprenditore?
Il neo-trasversalismo dei movimentisti di ogni bandiera deve dimostrare
di avere convinzioni e risorse autonome per creare nuove emozioni
e nuove mobilitazioni, tenendo conto che nella società moderna
limmagine comportamentale prevale sullassetto normativo.
Per ampliare la percezione collettiva di uno stato di necessità,
il bisogno di un senso comune di massa con fede riformista. Per
trovare nella forza delle cose la determinazione a fare riforme
per fare sistema. Non è necessaria una seconda riforma gregoriana
del calendario giuliano. Basta limpiego ragionato di tecnologie,
organizzazione, formazione, management pubblico e privato.
Dunque, la riformabilità del sistema non può essere
affidata agli umori elettorali, ai tavoli triangolari, alle verifiche-lifting,
alle cure dei Dpef. E un problema politico e pre-politico
di lungo corso, per lesaurimento della borghesia industriale
e la nostalgia di una rappresentanza (politica e sindacale) che
in passato ha creato solidi blocchi sociali.
Le tematiche delleconomia-mondo obbligano a coniugare il locale
con il globale, al servizio di un progetto politico impegnato a
dare nuove motivazioni alleroe borghese. Incominciando magari
con due segnali precisi di buona volontà: la riforma della
Finanziaria per porla al riparo dai nefasti riti lobbistici e predatori
e la riforma della contabilità pubblica, Stato, regioni,
province, comuni. Cambiando regole per cambiare costume. Restituendo
a ciascuno di noi uno spicchio di Italian dream che non poggi solo
su chiacchiere eleganti, segnale esplicito di una visione iconoclasta
della vita individuale e collettiva.
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