Accade che un racconto diventi
lo specchio del tempo di una terra: del tempo comè
stato,
comè diventato, come diventerà,
forse, un giorno.
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Scolpita nella pietra del campanile dello Zimbalo, a Lecce, cè
una frase che dice: se non sei pietra accetta ciò che io,
pietra, ti dico.
Anche le pietre, allora, possono avere voci, parole. Anche i tronchi
contorti degli ulivi e i tramonti, anche il morso misterioso della
tarantola e le ombre dei morti che tornano ai piedi di un faro,
lì, a finibusterrae.
Può avere voce ogni cosa che appartiene alla terra: che sia
terra madre, oppure soltanto tragico approdo, transito incerto,
precaria dimora.
Ma le voci della terra sono come le voci di un uomo: hanno la consistenza
lieve di un fiato, di un vapore. Si spengono, si sperdono se qualcuno
non le stringe nelle sillabe di un verso, non le raggruma nelle
macchie di un colore, non le annoda nellarmonia festosa o
lamentosa di un canto, se unemozione, unintelligenza,
una conoscenza non trasmutano la natura in cultura.
Sono voci segrete che si nascondono come le lucertole nei muri di
campagna, nei millenni custoditi nelle grotte di Badisco, nelle
leggende che vivono dentro le torri di scolta a strapiombo sul mare,
nel crepitìo delle candele nella penombra delle chiese, nelle
cariatidi, fra le distese assolate di grano appena falciato.
Le poesie di Vittorio Bodini, Girolamo Comi, Vittorio Pagano, Antonio
Verri, Salvatore Toma, Nicola De Donno, Vittore Fiore, sono lattraversamento
di un paese al baluginare dellalba, o nella calura del pomeriggio,
o al chiarore della luna. Sono un vivere le storie, un passaggio
nella Storia, la scoperta che la vita pulsa nelle parole. Sono lesperienza
di una poesia che rivela lanima di una geografia, che delinea
i tratti di un paesaggio mentale, che descrive una condizione esistenziale
vissuta al confine tra una terra e due mari.

Bisogna avere radici profonde come quelle degli ulivi per raccontare
questa terra.
Bisogna aver imparato ad ascoltare il mormorio senza tempo che corre
per le strade di Otranto, stratificato nelle tombe di Vaste, pronunciato
con gli occhi di pietra degli angeli che ci sorvegliano dai frontoni
di strabilianti cattedrali.
Bisogna aver ascoltato lamenti di prefiche, preghiere sussurrate
dietro gli usci chiusi, canti di carrettieri che ritornano al tramonto,
nenie antiche di madri avvolte in scialli scuri.
Bisogna aver imparato a decifrare secoli di destini solo guardando
snodarsi processioni dentro sere rischiarate da candele protette
dal vento con la carta oleata.
Bisogna saper interrogare gli affreschi screpolati delle cripte
bizantine, le edicole votive ai crocicchi delle strade, i volti
dei vecchi sul limitare delle case, statue vive del tempo, discendenti
di tutte le genti passate per queste contrade.
Bisogna aver imparato a capire i silenzi atterriti dei contadini
quando la grandine devasta i vigneti, e aver visto vagoni pieni
di valigie di cartone legate con lo spago andare verso Nord.
Ci vuole tutto questo per raccontare il Salento. Ci vuole anche
di più.
Ci vuole una memoria lunga, la capacità di trasformare in
racconti leggeri come le nuvole dei nostri cieli la storia oscura
e dura di questo popolo di formiche.
Tutto questo ci vuole. E non basta nemmeno.
Perché ogni memoria possibile del tempo, ogni conoscenza
che si può avere, la capacità di percorrere i sentieri
della civiltà di oggi e di ieri, non bastano per raccontare
la storia e la cultura, i simboli e i valori, i linguaggi e i paesaggi,
le felicità e i dolori di questa terra.
Poi, il passato e il presente, i miti e gli eventi, bisogna ricostruirli
parola su parola, con la stessa sapienza e la stessa maestria di
chi costruiva furnieddhri, le volte alte delle case contadine, con
cui il monaco Pantaleone meno di mille anni fa costruì il
suo mosaico favoloso.

Bisogna dare alla narrazione, al passo delle frasi, alle storie,
la leggerezza dellincrespatura e la profondità che
ha il mare, la levità fantasiosa di Giuseppe Desa, il frate
asino, il Santo dei voli.
Ci sono narratori che hanno saputo narrare il Salento con tutta
la verità e con tutta la fantasia di cui solo la letteratura
può essere capace. Per esempio: Fernando Manno, Giovanni
Bernardini, Vittorio Bodini, Luigi Corvaglia, Maria Corti, Rina
Durante, Martino Abatelillo, Aldo De Jaco, Piero Manni, Michele
Saponaro, Antonio Verri, Salvatore Bruno.
Per loro la letteratura è stata niente di più o di
meno di quello che per un bambino è la sua casa. Ma non la
casa in cui vive ogni giorno, quella del tempo concreto, presente.
La letteratura per loro è stata la casa della memoria.
Accade, a volte, che un racconto rassomigli straordinariamente
ad una terra. Che nelle sue parole si senta lodore di basilico,
si vedano colori di gerani, si accendano riflessi di orizzonte.
Accade che i segni dinchiostro diventino voci di uomini e
donne, preghiere di vecchi e filastrocche di bambini (filastrocche
di vecchi e preghiere di bambini), che i miti si materializzino
in figure di ricordo, o che una frase stringa dentro un sibilo di
vento, distese di grano e sapore di melagrane.
Accade che un racconto diventi lo specchio del tempo di una terra:
del tempo comè stato, comè diventato,
come forse diventerà, un giorno.
Accade quando il racconto ha la profondità e le trasparenze
di una memoria che confina col presente che da quella memoria si
sviluppa e cresce.
Probabilmente non è più possibile pensare una Puglia
più intimamente per noi ora e qui un Salento
senza associare questo pensiero a quella mappa dellesperienza
di esistere che è Finibusterre di Luigi Corvaglia
o a quella metamorfosi di memoria in mito che è Lora
di tutti di Maria Corti.
Non è più possibile, probabilmente, pensare questa
penisola di confine senza un riferimento a quella sintesi iperbolica
ed essenziale che di essa hanno fatto Vittorio Bodini, Girolamo
Comi, Vittorio Pagano.
Sarebbe un po come pensare una Puglia senza Federico II, Otranto
senza cattedrale, Lecce senza Santa Croce. E possibile?
Ci sono racconti che sono fatti con la stessa terra delle zolle,
impastati con la stessa farina del pane fatto in casa, che hanno
la stessa luce sfibrata di un tramonto che si adagia sulla fronda
degli ulivi.
Ci sono racconti che non sono racconti: che sono, invece, dolmen,
menhir, mosaici, campanili, silenzi, sussurri, ombre, vicoli, i
volti, le voci, la luce della controra sulle case di calce del villaggio
vivente nella memoria.
Ci sono racconti che non sono racconti. Sono stagioni che portano
storie, storie che riportano stagioni. Fantasie leggere come leggende,
verità più dure di scogliere. Ci sono racconti che
sono la vita che passa dentro i giorni.
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