I nostri federalisti si sono dimostrati fino
ad oggi
allegre cicale, se è vero, comè vero, che le
strutture centrali dello Stato hanno visto aumentare in modo cospicuo
dipartimenti,
direzioni e altri
uffici centrali.
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La questione del federalismo si sta caricando di una quantità
di contraddizioni. Proviamo ad elencarle, perché riteniamo
che sia utile appurare in quale ginepraio stiamo per infilarci.
Uno studioso americano ha osservato che gli Stati in Europa sono
troppo grandi per gestire la vita di ogni giorno e troppo piccoli
per curare gli affari internazionali. Al secondo problema si sta
ponendo rimedio con il federalismo esterno, lUnione
europea, che dovrebbe avere presto un autentico ministro degli Esteri
e affrontare unita la minaccia del terrorismo. Si è cercato
di risolvere il primo, nel 2001, con la riforma costituzionale.
Ma per la fretta ci si è dimenticati di assegnare allo Stato
il controllo dellesercizio del credito, si è divisa
a metà la materia dei beni culturali e si è attribuito
alla legislazione concorrente delle Regioni anche il compito di
regolare vari aspetti della vita pubblica, come quelli delle comunicazioni.
E un pasticcio dal quale nessuno sa se riusciranno a tirarci
fuori la buona volontà della Corte costituzionale, sommersa
da ricorsi regionali, e quella del Parlamento.

Il governo, a sua volta, è stretto tra un patto con gli
elettori (non aumentare, anzi diminuire limposizione fiscale)
e il Patto europeo di stabilità (non far crescere la spesa
pubblica), ma non dispone di strumenti sufficienti per tenere realmente
sotto controllo sia la spesa sia le imposte regionali e locali.
Un recente, acuto studio sulle dimensioni degli Stati ha elevato
un inno a quelli di superficie alquanto ridotta. Democratizzazione,
liberalizzazione del commercio e riduzione delle guerre sono associate
con la formazione di piccoli Paesi, mentre protezionismo, dittature
e guerre sono associati a grandi dimensioni nazionali. Però
i Paesi più piccoli registrano amministrazioni e prelievo
fiscale più pesanti, per abitante, di quelli maggiori. In
ultima analisi, più gli Stati sono piccoli, più costano.
E allora occorre scegliere tra meno tasse e più decentramento.
Il Parlamento, poi, è al centro di tensioni tra la Lega,
sostenitrice del Senato federale e di ulteriori devoluzioni
di compiti alla periferia, e le Regioni, che sono insoddisfatte
del modo in cui avviene il trasferimento e vogliono essere rappresentate
direttamente nel futuro Senato. Di qui il paradosso della posizione
della Lega, che corre il rischio di essere accusata di scarso impegno
federalistico dalle stesse Regioni che dovrebbero beneficiare del
suo federalismo.
Ultima contraddizione: più il Senato federale sarà
rappresentativo delle Regioni e più potere esso avrà
(anche sul bilancio e sulla legge finanziaria), più il governo
centrale sarà condizionato dal peso di Regioni di destra
e Regioni di sinistra in quel Senato. La maggioranza della Camera
dei Deputati dovrà trovarsi daccordo con la diversa
(ed eventualmente opposta) maggioranza di un Senato federale. Ma
lesperienza tedesca dimostra che questo è un fattore
di rallentamento o addirittura di blocco. Si corre il rischio, in
questo modo, di dar vita ad una seconda fase di consociativismo.
Per venir fuori dalla prima contraddizione bisognerebbe fare un
passo indietro rispetto al federalismo della prima ora. Per uscire
dalla seconda, dovremmo accettare un maggior prelievo fiscale. Per
sciogliere la terza e la quarta contraddizione si dovrebbe o rinunciare
al Senato federale, (abrogandolo per referendum), oppure accettare
i forti limiti che esso comporta al metodo maggioritario. Nientaltro
può condurci fuori da questo complicato labirinto.

Altro problema. Recentemente il Capo dello Stato ha auspicato che,
nel definire i compiti delle Regioni, si eviti «laumento
degli oneri finanziari per la pubblica amministrazione che deriverebbe
da una duplicazione di competenze o da una moltiplicazione delle
strutture amministrative». Poco dopo, il ministro per le Riforme
istituzionali (un leghista), parlando alla Camera, annunciò
che, nelle norme finali della nuova versione di riforma costituzionale,
era stato previsto che il trasferimento di funzioni dallo Stato
alle Regioni avvenisse «senza un aggravio di costi complessivi».
E sufficiente una clausola generale di questo tipo per soddisfare
il criterio enunciato dal Presidente Ciampi?
Si è molto scettici circa il valore effettivo delle proposizioni
ministeriali, ancor più quando esse sono usate nel contesto
dei rapporti Stato-Regioni. Innanzitutto, infatti, non cè
unautorità competente a fare un calcolo complessivo
dei costi. Le Regioni hanno autonomia di bilancio e la Ragioneria
generale dello Stato ha da tempo perduto il controllo del quadro
dinsieme, salvo ciò che riguarda il patto di stabilità
interno. In secondo luogo, valutazioni dei costi vanno compiute
prima, e non ex post, quando il danno si è già prodotto.
E, purtroppo, i nostri federalisti si sono dimostrati fino ad oggi
allegre cicale, se è vero, comè vero, che nel
2002, mentre funzioni, uffici e personale statali dovevano essere
trasferiti alle Regioni, le strutture centrali dello Stato hanno
visto aumentare in modo cospicuo dipartimenti, direzioni generali
e altri uffici centrali. E in periferia è accaduto anche
di peggio: sono aumentate le direzioni generali periferiche e sono
state ripristinate strutture statali prima confluite negli uffici
territoriali del governo (presso questi ultimi hanno dovuto confluire
i residui uffici decentrati dello Stato, in modo da limitare il
numero dei doppioni).
Se si vogliono evitare sovrapposizioni, è necessario agire
sulla mobilità del personale, trasferendo dipendenti alle
Regioni cui vengono attribuite le funzioni. Ma questa è unoperazione
difficile, di cui lo Stato si è dimostrato incapace. Basti
ricordare che in Piemonte, in Veneto, in Lombardia, in Emilia-Romagna,
in Friuli, negli uffici statali si registrano vuoti di organico
del 60 per cento, mentre, allopposto, in Campania, in Calabria
e in Sicilia vi sono eccedenze di organico del 70 per cento. Nonostante
questa situazione, il 98 per cento della mobilità è
avvenuto in questi anni su richiesta dei dipendenti o sulla esclusiva
base delle loro preferenze, senza che venissero stabiliti incentivi
per avere una più razionale distribuzione del personale.
Per queste ragioni si è scettici circa lefficacia di
formule costituzionali di salvaguardia, che avranno un mero valore
retorico. E si teme che i buoni intenti di chi governa leconomia,
di introdurre lo zero-base budgeting, si scontreranno
con una realtà amministrativa tuttaltro che razionale,
ma di fronte alla quale si dovrà cedere, perché la
macchina burocratica messa in moto nel 2002 ha un costo più
alto e comporta impegni obbligatori che in un modo o nellaltro
dovranno essere onorati.
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