E negli anni
Novanta che
lItalia politica, sindacale,
confindustriale, editoriale, scoprì
il federalismo
allitaliana, senza sapere che cosa fosse: parlava del federalismo,
ma non conosceva neanche le linee minime del
progetto.
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Anni Ottanta del secolo scorso: nessuno era federalista. Alcuni
non lo erano per convinzione ideologica (Pci e Msi, per definizione
imperiale il primo e statalista il secondo); altri per realismo
laico (il federalismo nasce per impulso dal basso, lItalia
non è un Paese di tradizione federalista, se si escludono
figure di altissimo valore, quali Cattaneo, Calamandrei, Spinelli);
altri ancora non lo erano per ignoranza o perché abituati
a seguire la direzione del vento. Poi fu proprio il vento a girare,
sebbene almeno allinizio fosse cieco, cioè privo di
pensiero.
Anni Novanta. La Lega si era affermata sullonda di una forte
contrapposizione tra Nord e Sud, di un antagonismo deciso con lassistenzialismo
di Stato, di un antipartitismo travolgente che il leader leghista
aveva trasformato nella via italiana al federalismo, quella che
avrebbe determinato la sua fortuna elettorale. Ma, a ben vedere,
la stessa Lega era diventata federalista soltanto dopo:
le leghe di pianura e di vallata erano germogliate campaniliste,
egoiste, localiste, e soltanto dopo, appunto, erano state imbrigliate
nellunica Lega, divenuta antiromana, anticentralista, e rimasta
antimeridionale.

E negli anni Novanta che lItalia politica, sindacale,
confindustriale, editoriale, scoprì il federalismo allitaliana,
senza sapere che cosa fosse: parlava del federalismo, ma non conosceva
neanche le linee minime di un progetto federalista. La politica
si era innamorata di questo nobile concetto solo per inseguire il
padano Bossi; il sindacato, per parte sua, aveva strizzato locchio,
dimenticando che con il federalismo sopraggiungevano le gabbie salariali,
e, con queste, si segnava la fine del potere contrattuale nazionale;
anche gli imprenditori si erano adeguati, con velocità tuttaltro
che sorprendente nel nostro Paese di opportunisti, alla ricerca
di nuovi ripari partitici; e da par suo la cultura universitaria
(con qualche eccezione di spicco a sinistra e a destra, da Gianfranco
Pasquino a Domenico Fisichella) si era messa a ruota per conciliare
strumentalmente dottrina e pratica.
Fine del secolo-millennio, nel Duemila. Il federalismo allitaliana
ha ormai preso corpo in un confuso groviglio di regionalismo e di
autonomismo, complici quelle forze politiche che avevano votato
in fretta e furia una legge costituzionale poco prima di andare
al voto nel 2001 con la speranza (delusa) di evitare la sconfitta
e di recuperare consensi federalisti nelle regioni del
Nord. E complici le opposte forze politiche che avevano compiaciuto
lalleato ritrovato, il Senatùr, il quale nel frattempo
aveva scoperto e lanciato la devolution di poteri, del tipo di quella
che Tony Blair aveva disegnato per la Scozia e lIrlanda: il
federalismo imposto dallalto, non più emerso dal basso.
Una sorta di tira e molla nel quale tutti o quasi tutti dovevano
convertirsi al totem del federalismo, senza essere federalisti.
Ora, come esplicitamente sottolinea il saggio di Delgado, la legge
dovrebbe offrire una precisa garanzia: il federalismo fiscale dovrà
essere attuato senza oneri finanziari aggiuntivi. Ci pare di capire
che non ci saranno oneri finanziari aggiuntivi per lo Stato, ma
che per i cittadini e per le imprese sarà probabilmente unaltra
musica. Basti pensare al costo della burocrazia, della diversa allocazione
della responsabilità politica che il federalismo comporterà.
Con il nuovo Titolo V della Costituzione e con la riformulazione
degli Statuti, ad esempio, quasi tutte le regioni hanno optato per
un aumento dei propri consiglieri. Cresciuti in media del 20 per
cento. Come nel progetto di nuovo Statuto della Regione Marche:
i consiglieri passerebbero da 40 a 50. Qualcuno si è anche
divertito a fare i conti: tra i nuovi Statuti approvati e quelli
ancora allo studio, ci sarebbero in tutta Italia ben 120 consiglieri
regionali in più. E questo è un costo, magari strisciante,
ma pur sempre un costo. Come quello delle nuove province. Questanno,
con i capoluoghi di Monza e Brianza, di Fermo e di Barletta, le
province italiane sono diventate 106. E molte altre sono in lista
dattesa.

Forse anche per questo il neo-presidente di Confindustria ha lanciato
un attacco durissimo al federalismo italiano a costo zero:
«Lautonomia fiscale avrebbe dovuto ridurre le tasse,
alleggerendo lamministrazione [
]. Invece viene usata
per drenare più risorse, per pagare apparati sempre più
costosi e privilegiati [
]. Cè confusione nelle
competenze. Cè una rincorsa a occupare potere».
Sottolineature che rimarcano ancor di più lo scetticismo
nutrito nei confronti della devolution bossiana.
E un progetto che avanza nellincertezza, sebbene di
portata enorme. Per avere unidea, basta leggere lultimo
Rapporto Isae sul federalismo: se il Titolo V fosse attuato domani,
le regioni avrebbero 61 miliardi di euro di spese in più,
e avrebbero bisogno di 157 miliardi di maggiori spese, da recuperare
con tributi locali o con la compartecipazione al gettito di altre
imposte (che porterebbero il peso del fisco locale al 60 per cento
sul totale, rispetto allattuale 20 per cento). In ogni caso,
le competenze trasferite alle regioni creano alle imprese più
problemi che opportunità, con problemi anche nel settore
dellenergia, in quello delle infrastrutture, in quello delle
comunicazioni elettroniche. Ma neanche questo basta. Da tempo si
sollecita una correzione, o quanto meno una nuova interpretazione,
delle norme che attribuiscono alle Regioni competenze in materia
di lavoro. Creano problemi anche i poteri attribuiti agli Enti locali
sulla Sanità, e quelli che consentono di legiferare in materia
di sicurezza alimentare.
Sembrano, e sono, problemi politici. Ma per i cittadini e per le
imprese non saranno altro che costi. Costi striscianti, ma vivi.
Forse per tutte queste ragioni questo tipo di federalismo, anzi
di devolution a costo zero, non convince quasi per niente.
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