Non è un caso che a manifestare per primi
forti dubbi siano stati gli
imprenditori,
compresi quelli che accorsero
in soccorso ai
vincitori leghisti quando questi
registrarono un
vistoso successo elettorale.
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Il progetto di riforma del Titolo V tratta della forma di Stato
e di governo, dunque va al cuore dellimpianto costituzionale
italiano. La riforma di governo è intermedia tra premierato
e cancellierato. Il presidente del Consiglio diviene Primo ministro,
è designato dagli elettori, nomina e dimette i ministri,
scioglie la Camera dei Deputati. Qualche elemento del cancellierato
è stato immesso nel premierato, perché il Presidente
della Repubblica non scioglie la Camera se la stessa maggioranza
parlamentare indica un altro presidente del Consiglio nel suo seno,
al modo della sfiducia costruttiva vigente nella Costituzione
tedesca. Il Capo dello Stato ha il potere di accertare le condizioni
di scioglimento e ha la prerogativa di concedere la grazia senza
alcun parere del ministro della Giustizia.
La Camera dei deputati diviene lunica assemblea politica della
Repubblica e decide in esclusiva tutte le questioni che la riforma
riserva al potere centrale dello Stato. Il Senato è concepito
in forma che ricorda il Senato federale americano (e quello federale
tedesco), ma le sue competenze sono limitate alle sole questioni
che interessano congiuntamente le competenze dello Stato e quelle
dei poteri locali. Altra novità costituzionale è la
predisposizione di un corridoio tra le due Camere in
caso di mancato accordo su una materia di competenza mista o sulle
questioni relative alla illegalità di una norma disposta
da una regione.
Nelle intenzioni del governo, il progetto esprime un sistema originale
che non ha precedenti in altre Costituzioni: lo scopo è di
mantenere la connessione tra indicazioni elettorali e maggioranza
politica della Camera dei Deputati, e di conservare lomogeneità
delle forze politiche al potere senza mortificare la dialettica
interna allassemblea stessa.

Il punto più delicato è il rapporto tra il Senato
e il governo, che di fatto non esiste, e ciò ricorda piuttosto
il Senato statunitense che i Senati europei. Linfluenza americana
è visibile nello stesso impianto costituzionale, che tende
a mantenere la stabilità delle maggioranze e ad impedire
crisi intra ed extra parlamentari.
In estrema sintesi, la riforma federale consiste soprattutto in
una riforma della riforma, poiché distingue tassativamente
tra competenze centrali e competenze regionali. E stato introdotto
il diritto del governo di provvedere in caso di pubblica necessità
e di intervenire anche in questioni che sarebbero ordinariamente
di competenza delle regioni. Inoltre, molte attribuzioni significative
(dallenergia ai trasporti) non sono più ritenute miste,
essendo ritornate statali. Roma, distretto a sé, pienamente
autonomo, diventerà capitale federale.
Alle certezze di chi vede in questa riforma la panacea di tutti
i mali italiani ed esalta il bello del federalismo, sulla lezione
di James Buchanan o di André Breton, fanno riscontro le perplessità
di coloro i quali sostengono che non si tratta di fare confronti
teorici, ma di valutare la praticabilità di una riforma del
genere nel momento storico e nelle condizioni economiche che riguardano
il nostro Paese. Domanda di rigore: il federalismo, oggi e allo
stato delle cose, è una priorità? Risposta, è
in posizione critica: addentrarsi nelle pagine di Carlo Cattaneo
ha un sapore un poco retrò, comprensibilmente caro alle culture
valligiane che, ossessionate dai campanili, si guardano bene dal
coniugare localismo e globalizzazione. Non è un caso che
a manifestare per primi forti dubbi siano stati gli imprenditori,
compresi quelli che accorsero in soccorso ai vincitori leghisti
quando questi registrarono un vistoso successo elettorale. Ora sono
moltissimi gli industriali del Nord-Est, i quali sono convinti che
sia «cambiato il calendario dei problemi, che sono sempre
più nazionali e oltre». Ora costoro chiedono «certezze»
per operare e investire, e nicchiano al cospetto di «venti
piccole patrie che riproducono e amplificano costi e limiti dello
Stato centrale».
In unItalia che troppe volte sembra aver perso la memoria,
dimprovviso emerge il ricordo di antiche illusioni. Nel Settanta
si votò per listituzione delle Regioni e si sostenne
che i nuovi organismi sarebbero stati fatti funzionare dalla vecchia
burocrazia e che le Province, ormai inutili, sarebbero state abolite.
Quel che è accaduto nella realtà italiana è
ancora oggi sotto gli occhi di tutti: doppioni, sovrapposizioni,
elefantiaco impiego pubblico, competenze incrociate, politiche consociative...
E il caso di ricordare la vicenda del vecchio ministero dellAgricoltura,
risorto con altro nome? E il caso di ricordare che alcune
regioni (la Toscana, la Sicilia) hanno già inventato gli
assessori supplenti. Altre si sono dotate di ambasciate
allestero (come la Campania a New York). Moltissime
sono travolte da una marea di assunzioni clientelari e di esotiche
trasferte per rappresentanza!
Unica speranza, sostengono i critici più intransigenti, è
che il federalismo sia respinto con il referendum confermativo richiesto
dalle riforme costituzionali. Altra relativa attesa consolatoria:
tra doppia lettura parlamentare, lo stesso referendum e lattuazione
pratica delle leggi (che richiederebbe almeno una decina di anni),
passerà molto tempo. E col tempo, si sa, o ci si augura...
Cè persino chi sghignazza cinicamente: dal 47,
anno della Costituzione, alla prima elezione regionale trascorsero
ben ventitré anni; dal 70 alla riforma del Titolo V
ne sono trascorsi altri trentuno. Si tratta di cose molto complicate,
dunque ci vuole molta pazienza. Volete vedere che?
Ma chi
vivrà, vedrà.
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