Per gestire entrate, spese e debito, la finanza
pubblica deve fare
affidamento su un maggiore impegno politico e su una minore ricerca
di progetti fantasiosi.
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Prima delle vacanze, il Documento di programmazione economico-finanziaria
2005-2008 ha rappresentato una presa di coscienza della difficile
situazione della finanza pubblica. E stato anche il battesimo
del fuoco per il nuovo ministro dellEconomia e delle Finanze
che, forte della sua origine tecnica, è riuscito ad apparire
quasi super partes. Settembre ci ha restituiti alle consuete cure;
per il titolare dellEconomia si è trattato di dare
esecuzione ai propositi manifestati, completando la manovra per
lanno in corso (2 miliardi di euro da risparmiare con provvedimenti
amministrativi) e compiendo le scelte necessarie per riportare i
rapporti critici su un trend negativo: lindebitamento netto/Pil
dal -2,9% al -1,2%, il debito/Pil dal 106,0% al 98,1% tra il 2004
e il 2008.
Possiamo farcela? Quali sono gli strumenti da usare e i vincoli
da rispettare nel perseguire tali obiettivi? Nuove tecniche possono
esserci daiuto?

1) Per chi ha vissuto la crisi di finanza pubblica e di cambio
del 1992 non cè dubbio che le nostre classi produttive
hanno la capacità di fronteggiare situazioni difficili e
da queste trarre il coraggio di slanciarsi in rincorse che negli
anni Novanta produssero il miracolo dellingresso
italiano nella moneta unica.
Certo, nel 1992 avevamo uno strumento in più, il cambio,
di cui la moneta unica priva ciascuno dei Paesi che vi partecipano,
ma politiche intese a migliorare la competitività, a liberalizzare
i mercati dei prodotti e non solo dei fattori, a ridurre i grandi
e i piccoli monopoli sono unalternativa migliore, anche se
necessariamente più lenta e difficoltosa, di una svalutazione
del cambio che dà un respiro immediato, ma spesso lascia
inalterate le condizioni che lhanno determinata.
2) Negli anni Novanta, la finanza pubblica corresse gran parte del
proprio squilibrio attraverso laumento della pressione fiscale;
in fondo, nei decenni in cui il fabbisogno cresceva alimentando
il debito, a causarlo era il rifiuto di aumentare limposizione
in linea con le spese che lo Stato imprenditore, lo Stato provveditore
di sicurezza sociale e lo Stato fornitore di beni pubblici congiuntamente
richiedevano. La conseguenza fu la crescita del debito pubblico
e della rendita finanziaria. Linasprimento della tassazione
non è oggi unopzione perseguibile, prima di tutto perché
la pressione fiscale italiana ha raggiunto da tempo livelli europei,
quella sui redditi è molto più bassa in Paesi come
il Regno Unito, lattuale maggioranza è impegnata a
perseguire nella riduzione delle imposte dirette.
Non resta quindi che la riduzione delle spese; questa vede concordi
i fautori di un liberismo accentuato che considerano la spesa pubblica
fonte di sprechi e, talvolta, di corruzione, molti accademici che
pensano così di accrescere la competitività del sistema
e salvaguardare lequilibrio di bilancio, i pochissimi che
non sono beneficiari di un qualche rivolo di pubblico denaro. Tutti
gli altri, la quasi totalità della popolazione, sono favorevoli
a patto che il proprio gruppo ne venga esentato, invocando di volta
in volta la funzionalità dello Stato, la salvaguardia dei
più deboli, lequità intergenerazionale, e via
dicendo. Tagliare le spese è unoperazione politica
che richiede lindividuazione dei settori che possono uscire
dallambito pubblico ed essere affidati al mercato; negli anni
Novanta si ritenne correttamente che lo Stato non potesse più
continuare a mantenere in vita imprese antieconomiche e a ripianarne
le perdite; molte furono liquidate, le migliori alienate con profitto.
Quelle oggi rimaste nel patrimonio pubblico sono in genere redditizie
e appetite dal mercato; non mancano, però, le eccezioni
Avendo fortemente ridotto lo Stato imprenditore, possiamo pensare
di restringere lo Stato sociale? La spesa di questo tipo non è
eccessiva in Italia nel confronto internazionale, ma solo sbilanciata
in favore del comparto pensionistico; la recente legge delega prevede
che le nuove regole si applichino dal 2008, cioè al termine
del periodo coperto dal Dpef. Possiamo rivolgere attenzione allo
Stato fornitore di beni pubblici? A me sembra molto difficile poiché
il terrorismo interno e internazionale richiede crescenti risorse
per la difesa, la sicurezza e lintelligence. Infatti, il Dpef
esenta da tagli scuola, sanità, sicurezza e servizi sociali.
Considerato che il tasso dellinteresse non è una variabile
controllata dal Governo e che il costo del debito è influenzabile
solo marginalmente dalle tecniche di gestione, restano le sole spese
di funzionamento e quelle dinvestimento: le prime sono oggetto
di continue limature che possono anche compromettere la funzionalità
dei servizi, spostano la spesa da un esercizio a un altro, talvolta
creano debito sommerso; sulle seconde si abbatte di solito la scure,
con ricadute negative sulla crescita di lungo periodo, come negli
anni Novanta.
Lo zero-base budgeting, le comprehensive spending
reviews del Tesoro inglese, il programme pour la rationalisation
budgetaire dellesperienza francese sono tutte tecniche
utili, ma in mancanza di una forte determinazione politica, come
quella del Cancelliere dello Scacchiere, di tagliare centomila posti
di lavoro pubblici, non producono grandi risultati e richiedono
tempo: per il 2005 sono impraticabili.

3) Una gestione attiva delle attività e passività
pubbliche per aumentare la redditività delle prime e ridurre
lonere delle seconde è altamente commendevole; inoltre,
la realizzazione delle une sul mercato per ridurre la consistenza
delle seconde può essere finanziariamente conveniente. La
stima del patrimonio pubblico pari a 1.771 miliardi di euro, cioè
al 137% del Pil, sembra infondere un senso di fiducia nel lettore
sino a quando non scopre che sono stati inclusi nel calcolo laria,
i ghiacciai e altre amenità al fair value
.
E dire che si pagano dei compensi a delle società di consulenza
per dare un valore a beni che non sono economici o che non sono
commerciabili.
Scendendo dallempireo delle astrattezze, il Dpef afferma che
«nel medio periodo circa il 40% dellattivo patrimoniale
possa giudicarsi potenzialmente disponibile», cioè
poco più di 700 miliardi. Per ridurre il debito pubblico
dal 106,0% del Pil a fine 2004 al 98,1% nel 2008 sono necessarie
secondo il ministro dellEconomia operazioni di privatizzazione
e di cessione di crediti, immobili e altri attivi per circa 100
miliardi di euro nel quadriennio. Alienare un settimo del patrimonio
non è cosa facile, dopo le disavventure di Scip 2, ma non
impossibile.
Tuttavia, le grandi operazioni di privatizzazione sono spesso fonti
di lucri immeritati. Ad esempio, siamo proprio convinti che loperazione
di vendita e connesso lease-back di immobili pubblici
con destinazione funzionale sia economicamente e finanziariamente
giustificata? Essa non spinge a una più efficiente gestione
degli spazi, non riduce le spese di manutenzione, richiede una remunerazione
del capitale investito in immobili da parte dei risparmiatori che
acquistano le quote del fondo immobiliare più elevate, forse
di poco, del costo del debito pubblico. Per di più, istituisce
un monopolio-monopsonio, aumenta le spese correnti che tutti vogliono
ridurre, non abbatte il debito pubblico se il controvalore viene
portato a riduzione del disavanzo, in base alle regole contabili
del Sec 95. Domanda indiscreta: se abbiamo veramente tante attività
disponibili, non si poteva pensare di alienare in maniera secca
immobili o cedere crediti per 4 miliardi?
Concludendo: per gestire entrate, spese e debito, la finanza pubblica
deve fare affidamento su un maggiore impegno politico e su una minore
ricerca di progetti fantasiosi. Gli effetti dimmagine ci sono
già costati
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