Questa è
la situazione
dellItalia, dove meno lavoro nelle imprese pubbliche e private
significa anche più lavoro nero e più cospicua evasione
fiscale.
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Stiamo meglio della Spagna, della Germania e della Francia, ma
molto peggio della Gran Bretagna, del Giappone e della Svizzera:
è lindice di rischio-povertà dellItalia
che, sebbene abbia registrato un calo negli ultimi anni, tuttavia
continua ad essere alto, attestato al 10,5 per cento nel 2004. Il
dato emerge da una ricerca sugli indici di rischio-povertà
nei Paesi industrializzati, che ci vede al quarto posto dopo la
Spagna (13,5 per cento), la Francia e la Germania (entrambe all11,2
per cento) e, ultima, la Svizzera (3,5 per cento).
La metodologia adottata ricalca quella effettuata dal prestigioso
settimanale Economist, che annualmente calcola lindice della
miseria dei Paesi del Terzo e del Quarto Mondo, prendendo in considerazione
linflazione e il tasso di disoccupazione. Tutto ciò
non può non avere riflessi sul Prodotto interno lordo e su
quello pro-capite dei cittadini dei singoli Paesi, Italia ovviamente
compresa. E chiama in causa lorario di lavoro e tutti i vincoli
che ne condizionano il costo. Ebbene: soltanto sei anni fa la politica
europea discuteva la novità francese cripticamente chiamata
Rtt, Réduction du temps de travail: trentacinque
ore la settimana per tutti a salario invariato che sembrava finalmente
rimettere in circolo un vecchio slogan, lavorare meno, lavorare
tutti. Oggi un nuovo fantasma si aggira per lEuropa
e pare una sorta di condanna, più che un paradosso: più
ore di lavoro, sempre a salario invariato. Se qualcuno avesse il
coraggio di tradurlo, appunto, in slogan, suonerebbe così:
lavorare di più per lavorare tutti.
Hanno incominciato i tedeschi della Siemens nello stabilimento di
Bocholt (nella Renania), dove è passato con un estenuante
accordo siglato dal potente sindacato Ig Metall questo preciso principio:
stesso salario, ma più ore di lavoro (quaranta la settimana),
in cambio del salvataggio di duemila posti di lavoro nella telefonia
mobile che si sarebbero persi nella minacciata delocalizzazione
dello stabilimento in Ungheria, dove il costo del lavoro è
pari esattamente alla metà. E lavoratori e sindacato hanno
accettato.
A Liegi, in Belgio, invece, i dipendenti della fonderia Marichal
Ketin (azionista di maggioranza il gruppo tedesco Gontermann Peipers)
hanno bocciato la proposta della direzione di passare sempre
a salario invariato da trentasei a quaranta ore di lavoro.
Lo stabilimento perde oggi secondo dati della direzione
250 mila euro al mese. La proprietà ha taciuto, ma lassociazione
degli imprenditori belgi ha preso la palla al balzo e al rientro
dalle ferie ha posto ufficialmente al governo la questione dellaumento
dellorario di lavoro per evitare il rischio di trasferimento
degli impianti in unaltra area dellEuropa.

Nella Francia, almeno fino a questo momento, nessuno ha seguito
lesempio della Bosch (ancora unazienda tedesca) di Vénissieux,
dove pochi mesi fa è stato firmato il primo accordo che ha
rotto con il dogma nazionale delle trentacinque ore. Il 70 per cento
degli 820 dipendenti ha approvato laccordo firmato dal sindacato
aziendale (contraria la Cgt, vale a dire la Cgil francese) per tornare
a un orario di trentasei ore settimanali. Ovviamente a salario invariato,
con in più la soppressione di due tradizionali giornate di
congedo (nei ponti della Pentecoste e dellAscensione), e per
sopramercato limpegno a nessun aumento per i prossimi tre
anni. In cambio, la Bosch ha accantonato il progetto di trasferire
lo stabilimento nella Repubblica Ceca.
Insomma, la questione è posta a livello europeo. Ciascun
Paese la affronta a proprio modo, ma dallautunno sul tavolo
del Vecchio Continente cè laumento dellorario
del lavoro. Naturalmente a salari invariati. Per recuperare un gap
di lavoro nudo e crudo che divide la vecchia Europa (in modo particolare
la Germania, la Francia e lItalia) dal Nord sgobbone, dagli
Stati Uniti, e più che mai dai cinesi, dai giapponesi e dai
coreani. Secondo gli ultimi dati, prendendo il concetto di ore
lavorate pro-capite a settimana, nel 2002 un lavoratore francese
o tedesco o italiano lavorava in media 14-15 ore la settimana, contro
le diciotto della Danimarca, le venti della Svezia, della Svizzera
e della Gran Bretagna, le ventidue degli Stati Uniti e le sconosciute,
ma indubbiamente molte di più, della Cina e di numerosi altri
Paesi dellEstremo Oriente.
Ecco perché, come ha sintetizzato in un titolo di copertina
il settimanale Der Spiegel, i tedeschi devono di nuovo lavorare
di più. Lobiettivo è fissato nel sottotitolo:
Ritorno alla settimana di quaranta ore. In Baviera,
nelle imprese di Stato, si è già tornati a quarantadue
ore. Vertenze sono aperte alla Nestlé e nei grandi magazzini
Karstadt, nelle ferrovie e tra i lavoratori delle costruzioni.
Secondo Le Nouvel Observateur, il 56 per cento dei lavoratori tedeschi
è daccordo. Anche se molti analisti sono critici rispetto
ad accordi quali quello della Siemens. Steffen Lehndorff, direttore
dellInstitut Arbeit und Tecnik, ritiene che tra due anni il
problema si riproporrà con forza, perché mantenere
gli stabilimenti di assemblaggio in Germania nel medio periodo non
è possibile. Va poi sottolineato che con laccordo Siemens
si è dato un durissimo colpo alla contrattazione collettiva.
Ed è, anche questo, un problema molto serio in Francia, dove
lattuale governo aveva promesso lassouplissement (lammorbidimento)
delle trentacinque ore non appena entrato in carica. Ma la questione
è complessa, perché dalla Réduction du
temps de travail (imposta per legge dal governo di sinistra
di Lionel Jospin) gli imprenditori francesi hanno ottenuto in cambio
il blocco dei salari e mano libera nella politica della flessibilità.
E non sono intenzionati a rinunciarci.
Daltra parte, che le trentacinque ore non abbiano rappresentato
una buona idea lo si è visto alle elezioni di due anni fa,
quando gran parte della classe operaia non ha gradito e, naturalmente,
non ha ringraziato. Tuttavia, nemmeno il Medef (la Confindustria
transalpina) pensa di generalizzare lesempio della Bosch.
Lideale, per i conservatori e per gli imprenditori, sarebbe
quello di mantenere lorario legale a trentacinque ore, ma
eliminando in blocco tutti gli altri vincoli, e in modo particolare
il tetto degli straordinari. In sostanza, così si svuoterebbe
la legge.
Ed è, questo, un rompicapo che si va ad aggiungere allaltro
paradosso in un Paese dove la crescita già si fa sentire
(potrebbe arrivare questanno al 2,5 per cento), ma la disoccupazione
continua a non demordere: più 2,1 per cento nellanno.
Crescita minore, disoccupazione di gran lunga maggiore, soprattutto
nelle aree meno favorite del Sud, salari inferiori (le gabbie
non sono ufficializzate, ma esistono, eccome!, tra aree settentrionali
e meridionali, servizi carenti, comunicazioni scompensate
:
questa, la situazione dellItalia, dove meno lavoro nelle imprese
pubbliche e private significa anche più lavoro nero e più
cospicua elusione ed evasione fiscale.
I problemi, si sa, da noi sono sempre più complicati che
altrove, mentre il mondo va avanti ed esilia o abbatte i simulacri
dellimmobilismo. Come sempre, la lezione la recepiremo dopo,
semplicemente e tradizionalmente più tardi, forse ancora
una volta quando sarà troppo tardi, perché altrove
si saranno fatti altri passi avanti. Prepararsi ad una neoarcheologia
industriale non è prospettiva gradevole. Ma da noi si sono
mai anticipati i tempi? Abbiamo mai avuto un terreno di coltura
(e di cultura) propenso alle pacifiche e radicali rivoluzioni? E
se talora ciò è accaduto, quante energie, quali tempi,
quanti condizionamenti si sono avuti? Alla memoria storica, e al
presente, le ardue risposte.
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