Salentinità è un sentimento,
un privilegiato
e totale rapporto damore nei
confronti di
tutti gli aspetti,
le condizioni,
le manifestazioni
del Salento da parte di chi nel Salento riconosca e senta la propria
piccola patria.
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Nello scorso mese di settembre si è svolta nel Salento una
piuttosto lunga e affollata manifestazione culturale, dal giorno
9 al giorno 26, con dibattiti, mostre, interventi di musica e canti
popolari, premiazioni, ecc. Largomento era di particolare
interesse e importanza: Lidentità salentina,
che è anche il logo della Sezione Sud-Salento della Associazione
Italia Nostra, presieduta con autentica passione (Onlus) dal
prof. Marcello Seclì.
Oltre al Comune di Parabita, sede centrale della Sezione, vi erano
coinvolti quelli di Specchia, di Muro Leccese, di Corigliano dOtranto
e, naturalmente, di Lecce, capoluogo del Salento, secondo un ben
complesso e organizzato programma di manifestazioni per lanalisi
e la tutela del territorio e per la valorizzazione dei beni culturali
e ambientali, come recita e precisa il sottotitolo dellapposito
dépliant. Bisogna aggiungere, a merito dellAssociazione
e del suo presidente, che di questa iniziativa veniva celebrata
addirittura la VI edizione, assai più impegnata
delle precedenti, e onorata anche dalla presenza della prof.ssa
Gaia Pallottino, segretaria nazionale di Italia Nostra.
A condurre la serata inaugurale del 9 settembre, aveva offerto la
sua ambita, richiesta e preziosa disponibilità il dott. Aldo
Bello, impareggiabile Direttore di questa magnifica Apulia;
al quale mi fu chiesto di rilasciare, sicuramente per affettuosa
amicizia, e un po forse anche per competenza, una breve intervista
sullargomento e sulliniziativa. Questo avvenne, puntualmente
e cordialmente, nella tarda mattinata dell8 settembre. E due
giorni dopo, lo stesso dott. Bello, in procinto di rientrare a Roma,
mi chiese di poter pubblicare il mio breve intervento sulla sua
rivista; ma io ne lo dissuasi, argomentando che la brevità,
loccasionalità, lirriflessa immediatezza di unintervista
verbale e non preparata non poteva comunque essere adeguata ad un
argomento così importante. E per contropartita gli promisi
che, a ferro ancora caldo, avrei scritto un articolo. Loccasione
infatti mi era stata propizia per farmi tornare a riflettere su
un problema così complesso e delicato, e perfino ambiguo
e rischioso. Così sono nate, amico lettore, le pagine che
seguono.
Identità salentina, ovvero, con lessico più
rapido ma omosemantico, salentinità (non bisogna aver paura
delle parole).
Dirò subito che, riflettendo sul problema della sua reale
consistenza, ho notato che esso è emerso, e si è imposto
allattenzione degli interessati, almeno due volte, in epoca
recente; e non momentaneamente, ma per un periodo di tempo piuttosto
notevole.

La prima volta fu negli ultimi decenni del sec. XIX, dopo la promulgazione
dellUnità dItalia. Il contraccolpo regionalistico,
più visibile nel campo delle scienze umane e delle arti figurative,
prese allora corpo nella letteratura del Verismo (nella
sua più ampia accezione), e nel regionalismo anche della
pittura e della scultura. Il Salento vi si inserì storicamente,
e sia pure occupando un suo minimo posto, rivelando tuttavia la
consapevolezza di essere, di costituire, una regione. Notazione,
mi pare, di una certa importanza; e certo più importante
dei modi in cui la regione fu allora culturalmente sentita,
valutata, esaltata. Si andò infatti alla ricerca e allaffermazione
di una nobiltà storica delle origini; si trasse
vanto dai leggendari rapporti con lOriente antico classico,
donde sarebbero provenuti i fondatori delle città nostre;
ci si riconobbe, alla lontana, nei Messapi, nei Greci antichi; e
le vie di Lecce furono allora intitolate a Idomeneo, a Ferecide,
a Malennio, a Euippa, e via dicendo, come a nobili e antichi e autentici
antenati e progenitori...
Ma la verità importante, da sottolineare storicamente, è
che la nuova realtà dellUnità nazionale dette
nuovo corpo, quasi per reazione automatica, allantica realtà
della regione. E dirò anche regione riferendomi
al Salento, poiché non condivido la tendenza di chi lo degrada
a sub-regione, confondendo a me pare ciò
che è amministrativo (Regione Puglia) oggi, con ciò
che è stato sempre antropologico (Salento; e basterebbe pensare
alla compatta e unitaria varietà dei dialetti locali, almeno
fino alla fascia mista, che sta subito di là dalla linea
Taranto-Brindisi). Né quella coscienza regionalistica post-unitaria
del Salento, che fu di De Giorgi, certo, di De Simone, di Palumbo
e dei loro coevi ed epigoni uomini di cultura locale,
è accostabile, in qualche modo, alla rivendicazione avanzata
dal Ferrari nella sua Apologia paradossica, considerato che il Ferrari
tendeva a confermare Lecce a seconda città del Regno dopo
Napoli; sullo sfondo dunque non della regione Salento, ma della
più ampia Terra dOtranto e del Regno intero.
La seconda volta, cioè il secondo periodo durante il quale
è assai riemersa la coscienza della regione Salento, e sè
cercato anche di definirne lidentità antropologica,
interrogandosi impegnativamente su che cosa sia e in che consista
la salentinità, è quello nel quale siamo coinvolti
tuttora noi stessi, come conferma e documenta anche la manifestazione
del Basso Salento, dalla quale abbiamo preso le mosse, dedicata
appunto alla Identità salentina. E probabile
che si tratti, in sostanza, di una ripresa, dopo alcuni decenni
di incubazione sotterranea, compresi quelli, anzi in particolar
modo quelli, che esaltarono fuor di misura il centralismo statale
e la compattezza politica nazionale. Certo si è che anche
questa volta la fiammata, anzi la calda e persistente convinzione
regionalistica, è stata sollecitata e motivata dagli avvenimenti
della politica. Infatti, qualche anno dopo la fine della seconda
guerra mondiale (1945), e dopo lo storico referendum e la promulgazione
della Repubblica Italiana (1946), fu definita ed emanata anche la
nuova Costituzione (1948); la quale, al Titolo V e allart.
115, così dispone: Le regioni sono costituite in enti
autonomi con propri poteri e funzioni, secondo i princìpi
fissati dalla Costituzione. E anzi venivano attribuite alla
Sicilia, alla Sardegna, al Trentino-Alto Adige, al Friuli-Venezia
Giulia e alla Valle dAosta forme e condizioni particolari
di autonomia, secondo statuti speciali adottati con leggi costituzionali
(art. 116).
Non starò qui a ricordare e a ripetere la vicenda riguardante
la proposta di una Regione Salento, che non passò;
ricorderò solo che quegli furono anche gli anni della Storia
e geografia della letteratura del Dionisotti, e della prima
antologia delle letterature regionali di Binni e Sapegno. Insomma,
venne a costituirsi una parallela linea regionalistica qui in Italia
nel campo delle scienze umane: ed ecco limpennata della poesia
in dialetto (con relative storie e antologie), la feconda applicazione
allo studio della microstoria e delle scienze antropologiche in
genere, la vantaggiosa, nuova esaltazione del bene culturale, inteso
non tanto, e non solo, nel suo valore universale, ma come oggetto
prezioso collocato nel suo scrigno locale e antropologicamente decifrato;
e così via. Ed ecco irrobustirsi sempre di più nei
decenni linteresse, lo studio, la necessità ideologica
di conoscere e definire la propria identità regionale, le
sue origini, la sua storia.

In questo quadro storico io credo che debba esser collocato il
problema della salentinità e dei suoi omologhi equivalenti
allotrii, come sicilianità, napoletanità, ligusticità,
milanesità e simili. Ora, che il Salento sia una regione,
mi pare difficilmente contestabile: laccordo, in questo, par
che sia pressoché unanime. E dunque anche nel e per il Salento
è emerso, fatalmente e vivacemente in questi ultimi decenni,
il problema della salentinità. Tanto che, allo scadere degli
anni Settanta del secolo scorso, un battagliero e dinamico giornale
locale, denominato Nuovosalento, decise di condurre uninchiesta,
coordinata da Antonio Donno, sulla specifica questione. Io fui sollecitato
a dire la mia; che par giusto e utile qui riprodurre nella sua parte
più importante:
Salentinità? Cultura salentina? Debbo
dire che per me questi interrogativi non hanno mai avuto peso determinante.
Passerebbe il mondo, se si dovesse definire in astratto la salentinità.
A me basta la convinzione (inequivocabile, mi pare) che il Salento
sia una regione almeno linguisticamente, e dunque anche
storicamente, culturalmente, antropologicamente. Salentinità,
cultura salentina sono, a mio giudizio, soltanto delle
ipotesi di lavoro, che a volta a volta aggrediscono, con la varia
metodologia, con la varia ideologia di chi lavora, tutte le cose,
direttamente o indirettamente, legate alla regione,
coinvolgendole nella generale analisi storico-culturale tout court.
Ed è davvero singolare come studiosi, perentoriamente negatori
di valori assoluti, si arrovellino poi a definire e a decifrare
la salentinità, come categoria astratta, laddove
essa è soltanto una ipotesi dinamica che opera (come le strutture
di Starobinski) nel metodo e nella ideologia del ricercatore alla
scoperta o alla reinterpretazione di quelle cose salentine
(storia, cultura, antropologia); e tanto meglio opera, ipotesi siffatta,
quanto più lanalisi dello studioso è condotta
secondo rigore scientifico ed onestà morale e intellettuale.
Questo io suggerivo e proponevo su Nuovosalento il 9 marzo del
1979, con alcune altre considerazioni non tanto sulla salentinità,
quanto sul significato del fare cultura nel Salento
o del fare cultura salentina. E chi volesse conoscere
lintervento tutto intero, lo troverebbe nelle mie Occasioni
salentine, Lecce, 1986, pp. 17-19. Par chiaro che io puntavo sulla
differenza fra due elementi passibili di confusione: salentinità
e cultura salentina. E mi si lasci credere che quanto io indicavo
circa la cultura salentina o il fare cultura salentina,
sia sufficientemente ragionevole, liscio e dunque facilmente accettabile
da ogni lettore non prevenuto. Sono cose piuttosto banali, che non
vale la pena qui di riprendere e ripetere. Meno facile invece, forse
meno agevole, il discorso sulla salentinità come ipotesi
di lavoro; al quale gioverà certo qualche chiarimento e qualche
integrazione.
La salentinità non è, non può essere, una
categoria metafisica né in senso kantiano, poiché
non è una forma a priori, né in senso aristotelico,
poiché è tuttaltro che un predicato universale.
E non è, non può essere, neanche una categoria storiografica
o un canone, poiché non si riferisce a una fenomenologia
specifica calata nel tessuto concreto della realtà storica,
in un preciso e ben limitato periodo di tempo. E non è neppure,
non può essere, una raccolta di cose salentine
più o meno rare e preziose a testimonianza di personale erudizione;
oppure una serie di manifestazioni dargomento salentino, sollecitata,
generalmente parlando, da scopi commerciali e turistici. Per queste
due ultime ipotesi, in verità, che si riferiscono, per altro,
ad attività assai meritorie ai fini della vita culturale
locale e nellambito dei locali interessi di carattere antropologico,
sarebbero più da collocare sotto letichetta concreta
di salentineria (le cose), che sotto quella astratta
di salentinità. Per un periodo di tempo abbastanza lungo
io tenni, sul Corriere del Giorno di Taranto, una rubrica dargomento
salentino, che intitolai appunto Compra-vendita di salentineria,
in analogia con argenteria, oreficeria, bigiotteria e perfino panetteria,
macelleria, ecc. Ma la salentinità è ben chiaro
non si vende e non si compra.
In fondo in fondo, ma bisogna arrivarci, salentinità è
soprattutto un sentimento, una condizione psicologica e intellettuale,
in sostanza un privilegiato e totale rapporto damore nei confronti
di tutti gli aspetti, le condizioni, le manifestazioni del Salento
da parte di chi nel Salento riconosca e senta la propria piccola
patria. Una piccola patria che sta come prefazione
della patria grande, come immagine, simbolo figura
di essa; ma con un più di domestico, di naturale, direi di
istintivo e di casalingo, che la distingue da essa, ma che, insieme,
ne fa parte, dialetticamente. E insomma, senza scandalo alcuno e
senza irriflessivi rigetti, la salentinità è, nella
sua sostanza più segreta e più intimamente vissuta,
la sublimazione, spontanea, istintiva, autenticamente interiore,
e dunque pura, disinteressata, metastorica, della provincia
salentina. Ovviamente, mutati i termini del problema, questo vale
anche per le indicazioni antropologiche innanzi ricordate, di sicilianità,
napoletanità, ligusticità, milanesità, ecc.
Infine, la provincia come circolazione sanguigna della
nazione.
Con questo discorso son venuto a chiarire e a integrare
se non minganno la formula un po chiusa ed ermetica
della salentinità come ipotesi di lavoro. Essa
in sostanza determinava due poli: a) lassurdità e limpossibilità
di attribuire a salentinità valore, a qualsiasi
livello, categoriale, come invece era emerso dallinchiesta
di Nuovosalento; onde la necessità di ulteriore riflessione
e approfondimento; b) la certezza che comunque la salentinità
stava a matrice e, per così dire, a placenta dogni
maieutica dargomento salentino. E ora, con tutto quello che
ho scritto finora, spero davere sciolto il sinolo, e daver
chiarito e adeguatamente integrato il mio pensiero al proposito.
Del resto, che sia illusorio, in genere, identificare ideologicamente
le antiche radici antropologiche (e non storiograficamente oppure
geograficamente; e insomma di là da una qualsiasi leggendaria
teoria delle origini preistoriche), appare dalla seguente incontestabile
considerazione: la ricerca e la possibile identificazione delle
più antiche radici antropologiche sono fatalmente condizionate
dal grado, dalla qualità, dalle strutture anche metodologiche
della cultura e della civiltà che sono vive al tempo dellindagatore,
e nelle quali lindagatore è, sia pure inconsapevolmente,
ingabbiato.
Oggi, poniamo, si seguirebbero taluni criteri e diciamo anche che
si perseguirebbero certi valori; ma criteri e valori sicuramente,
oggi, diversi da quelli di centanni fa e più (come
di passaggio sè visto); e pure criteri e valori sicuramente
diversi da quelli che saranno in vita fra centanni e più
(per una cultura e una civiltà certamente assai diversa dalla
nostra). La diversa condizione culturale, storica, ideologica, antropologica
di base è assai presumibile e verosimile che porterebbe nei
tre diversi momenti ipotizzati a tre diverse proposte
risolutive. Unaltra ipotesi di lavoro, si direbbe.
Questo non vuol dire che la regione Salento non abbia avuto, e
non abbia ancora, i suoi usi e costumi; e che la stessa
sua popolazione non sia segnata, sia pure presuntivamente e non
totalitariamente, da tipiche tendenze. Per esempio, lapertura,
direi la vocazione naturale, al bello della poesia, della letteratura,
delle arti figurative, al rigore del ragionamento sistematico e
costruito, non privo di cavillosità. Non potrei, e non saprei,
per il resto del mondo; ma almeno per lItalia sarei pronto
a giurare che non esiste altra regione più ricca di poeti
in lingua e in dialetto, di prosatori e comunque amanti delle lettere,
di saggisti dogni tipo, di pittori e di scultori. E per esempio
ancora, una sorta di fatalistica lentezza levantina, incline alla
rassegnazione o allindifferenza passiva, imperturbabile, ironica;
anche se il levantino maktub! è venuto attenuandosi di molto
dopo la seconda guerra mondiale, in grazia di una maggiore e più
mordente reattività. E pericoloso, e forse anche del
tutto vano, procedere per questa strada; ma mi è venuto fatto
di pensare che i due stili maggiormente onorati nella storia di
unarchitettura che insiste nel Salento, sono guarda
caso il barocco e il liberty, e cioè quelli che maggiormente
obbediscono allestro e alla fantasia, più che alla
regolarità delle forme chiuse. E questo mi pare assai significativo
sotto il profilo della definizione del carattere antropologico locale.
E gli usi e costumi ci furono, e come!, tanto tipici
ed esclusivi, e ci sono ancora, anche se sono andati attenuandosi
e magari spegnendosi a mano a mano che si andava attenuando e spegnendo
la vecchia civiltà contadina di fronte allevidente,
anche qui, fenomeno del globalismo. E le peculiarità gastronomiche,
che quasi del tutto hanno ormai perduto certa sacralità cronologica
di ricorrenza da onorare (cìceri e tria per San Giuseppe;
le pìttule natalizie, ormai addirittura servite come componenti
dantipasto qualsiasi!). E le prefiche, le tarantate, i folli
trionfi della pizzica-pizzica, i costumini votivi ai bimbi miracolosamente
guariti...
Ecco: mentre pensavo a tutto questo, anche alla ricerca mnemonica
di altro analogo materiale, mè balzato alla mente,
dal più riposto e antico angolo dei ricordi, un detto, che
mi rimase impresso dai tempi della prima Liceo (1931-1932, a Galatina),
studiando il periodo greco, il più antico, della storia della
filosofia: Amico, vedo il cavallo, ma non la cavallinità.
Mi sono rivolto allamico Giovanni Papuli, dottissimo di filosofia
antica (che qui voglio anche ringraziare) per la sua identificazione
sicura. Ed egli, dopo breve ricerca, mha assicurato che si
tratta di Antistene di Atene, il fondatore della Scuola cinica greca,
e perciò contrario alla teoria platonica delle idee: «O
Platone, vedo il cavallo, ma non la cavallinità». Proprio
così; e io riducevo il detto al mio caso: «Amico lettore,
io vedo il Salento, ma non la salentinità». E se la
vedo, è solo nel cuore e nelle cure dei Salentini autentici.
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