Marzo 2005

Il gioco delle riserve valutarie

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Più euro nei forzieri
Daniele Puppo  
 
 





Oggi tutti
i produttori
di greggio, dagli arabi ai russi,
si stanno
interrogando
sull’opportunità
di un eventuale, parziale uso
dell’euro nelle transazioni
relative alle
materie prime.

 

Ormai un quinto delle riserve valutarie custodite dalle Banche centrali di tutto il mondo è composto da euro. Il livello del 20 per cento è stato raggiunto nel corso del 2004, e la notizia è stata ufficializzata dalla Banca centrale europea nello scorso mese di dicembre, quando è stato reso noto il Rapporto sul ruolo internazionale della moneta unica predisposto dagli uffici della Eurotower, a Francoforte, sede della Bce.

Il balzo è stato notevole. Nel 2001 la quota delle riserve valutarie in euro toccava appena il 13 per cento del totale. Alla fine del 2002 era ancora pari al 18,7 per cento. Ed è sufficiente dare uno sguardo alle somme in gioco per capire come la spinta al riequilibrio tra le monete nei forzieri delle Banche centrali sia diventata una delle cause della debolezza della valuta americana.
«Quanto più in fretta l’euro sostituisce il dollaro nelle riserve valutarie, tanto più velocemente scendono le quotazioni della valuta statunitense», sostiene l’economista Paolo Savona, il quale avverte: «Qualcuno gioisce. Invece dovrebbe preoccuparsi. Oggi il senso di responsabilità dovrebbe indurre le Banche centrali ad acquistare dollari, piuttosto che a venderne, perché si rischia di favorirne un ulteriore, drammatico calo».
La dimostrazione di quanto sia concreto questo rischio sta proprio nell’andamento dei cambi, con l’euro che regna sul dollaro, influenzato dal tema delle riserve oltre che dal crescente ruolo assunto dalla moneta unica europea nei commerci mondiali, nel credito, nella finanza. A novembre sono bastate dieci parole di Alexei Ulyukayev, vicepresidente della Banca centrale russa, per far schizzare le quotazioni: «Stiamo discutendo la possibilità di modificare la struttura delle riserve», sussurrò appena. E il mercato si mosse di conseguenza, memore anche di due fatti: la Russia aveva già portato al 25-30 per cento la quota delle riserve valutarie in euro (valore totale: 103 miliardi di dollari, escluso l’oro); ma soprattutto non faceva mistero di temere che il calo del dollaro finisse per vanificare i guadagni sulle esportazioni di petrolio.
La stessa sensibilità i mercati l’hanno mostrata nei confronti della Cina, che possiede una riserva ingente (valore: 514 miliardi di dollari, oltre all’oro) e ha un rapporto ambivalente con l’America. Da tempo il colosso comunista mantiene il cambio dello yuan incatenato alla moneta Usa. Oggi sfrutta anche il calo delle quotazioni del dollaro, e di conseguenza dello yuan, per rendere le proprie merci ancora più competitive in Occidente e in Giappone (lo yen giapponese si sta apprezzando sul dollaro al pari della moneta unica europea).
Ma nello stesso tempo i cinesi non nascondono il desiderio di diversificare gli investimenti in modo da limitare le perdite dovute proprio alla svalutazione del dollaro. Così, per far muovere l’euro verso un nuovo record, è bastato che a fine novembre il China Business Daily scrivesse – anche se poi smentito ufficialmente – che la Banca centrale cinese, guidata dal presidente Zhou Xiaochuan, volesse vendere i titoli pubblici americani custoditi nei propri forzieri.
Tutta questa attenzione sulle riserve non avrebbe alcun senso, però, se non vi fosse già una tendenza strutturale all’affermazione dell’euro. Oggi, anche solo l’uso della moneta unica nell’Unione europea e nei confronti dei principali partners commerciali dell’Europa giustificherebbe una buona tenuta dell’euro. Dopo l’allargamento a 25, l’Europa comunitaria rappresenta, con 456,7 milioni di abitanti, la terza area del mondo per popolazione. Per prodotto interno lordo è seconda, dopo gli Stati Uniti, mentre il Giappone segue, ma molto da lontano. E sebbene l’economia non cresca a ritmi veloci nel Vecchio Continente, le esportazioni ammontano a circa 250 miliardi di euro verso gli Usa, 45 verso il Giappone e poco meno verso la Cina, che comunque ha aperto di più, appena qualche mese fa, i propri mercati. In queste transazioni il dollaro conta ancora molto. Ma la moneta europea ha conquistato posizioni, fino a superare il 50 per cento del valore dell’interscambio col Giappone. Senza contare l’intero import-export verso i Paesi del Mediterraneo e l’area del Golfo.

Nel commercio fa ancora eccezione il mercato delle materie prime, dove i prezzi sono tutti in dollari, anche perché non è facile cambiare una tradizione di mezzo secolo. Ma anche in questo contesto qualcosa ha cominciato a muoversi. Oggi tutti i produttori di greggio, dagli arabi ai russi, si stanno interrogando su due opportunità. La prima riguarda un eventuale, parziale uso dell’euro nelle transazioni relative alle materie prime, tenuto conto che poi gli stessi Paesi produttori di petrolio devono usare il super-euro per pagare le più raffinate merci importate dall’Europa. La seconda interessa l’investimento dei capitali guadagnati con l’export di greggio.
La ragione? Il mercato delle obbligazioni pubbliche e private denominate in euro attualmente è molto interessante sia per la varietà dei rendimenti sia per la liquidità che lo contraddistingue. Per rendersene conto basta sfogliare i bollettini della Bce o della Banca dei Regolamenti Internazionali. La consistenza delle emissioni non azionarie fatte dagli europei e denominate in euro supera abbondantemente gli ottomila miliardi di euro di valore. Più della metà di questa massa di obbligazioni è rappresentata da titoli pubblici, cioè garantiti dallo Stato.

Non solo. Le obbligazioni internazionali denominate in euro, cioè le emissioni in euro di aziende straniere o di organizzazioni sovranazionali, oggi sono addirittura maggiori in quantità di quelle in dollari. E i rendimenti risultano abbastanza attraenti, soprattutto se si considera la sicurezza dell’investimento. Solo dopo l’ultimo aumento dei tassi deciso da Greenspan i titoli di Stato a lunga scadenza in Usa rendono “un soffio in più” di quelli europei.
Scambi commerciali, bond, riserve, persino uso indiretto da parte di Paesi vicini, come sta accadendo nella ex Jugoslavia: tutti questi fenomeni hanno fatto crescere il ruolo dell’euro. E il dollaro, indebolito dagli effetti del doppio deficit Usa (bilancio pubblico e bilancia commerciale), ne ha subìto le conseguenze. Ora, però, lo stesso andamento dei cambi rischia di mettere fuori combattimento le merci europee e di frenare ulteriormente la crescita economica nel Vecchio Continente.
Occorre fare qualcosa. Ma che cosa? La ricetta condivisa da molti economisti è questa: la Bce deve ridurre i tassi d’interesse e la Federal Reserve deve alzarli ancora. Ma ci vogliono anche interventi strutturali: gli Stati Uniti devono tagliare il deficit pubblico, mentre l’Europa deve guardare al rapporto del 3 per cento tra deficit e Pil con maggiore flessibilità. Altro non è consentito.

   
   
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