Oggi tutti
i produttori
di greggio, dagli arabi ai russi,
si stanno
interrogando
sull’opportunità
di un eventuale, parziale uso
dell’euro nelle transazioni
relative alle
materie prime.
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Ormai un quinto delle riserve valutarie custodite dalle Banche
centrali di tutto il mondo è composto da euro. Il livello
del 20 per cento è stato raggiunto nel corso del 2004, e
la notizia è stata ufficializzata dalla Banca centrale europea
nello scorso mese di dicembre, quando è stato reso noto il
Rapporto sul ruolo internazionale della moneta unica predisposto
dagli uffici della Eurotower, a Francoforte, sede della Bce.

Il balzo è stato notevole. Nel 2001 la quota delle riserve
valutarie in euro toccava appena il 13 per cento del totale. Alla
fine del 2002 era ancora pari al 18,7 per cento. Ed è sufficiente
dare uno sguardo alle somme in gioco per capire come la spinta al
riequilibrio tra le monete nei forzieri delle Banche centrali sia
diventata una delle cause della debolezza della valuta americana.
«Quanto più in fretta l’euro sostituisce il dollaro
nelle riserve valutarie, tanto più velocemente scendono le
quotazioni della valuta statunitense», sostiene l’economista
Paolo Savona, il quale avverte: «Qualcuno gioisce. Invece
dovrebbe preoccuparsi. Oggi il senso di responsabilità dovrebbe
indurre le Banche centrali ad acquistare dollari, piuttosto che
a venderne, perché si rischia di favorirne un ulteriore,
drammatico calo».
La dimostrazione di quanto sia concreto questo rischio sta proprio
nell’andamento dei cambi, con l’euro che regna sul dollaro,
influenzato dal tema delle riserve oltre che dal crescente ruolo
assunto dalla moneta unica europea nei commerci mondiali, nel credito,
nella finanza. A novembre sono bastate dieci parole di Alexei Ulyukayev,
vicepresidente della Banca centrale russa, per far schizzare le
quotazioni: «Stiamo discutendo la possibilità di modificare
la struttura delle riserve», sussurrò appena. E il
mercato si mosse di conseguenza, memore anche di due fatti: la Russia
aveva già portato al 25-30 per cento la quota delle riserve
valutarie in euro (valore totale: 103 miliardi di dollari, escluso
l’oro); ma soprattutto non faceva mistero di temere che il
calo del dollaro finisse per vanificare i guadagni sulle esportazioni
di petrolio.
La stessa sensibilità i mercati l’hanno mostrata nei
confronti della Cina, che possiede una riserva ingente (valore:
514 miliardi di dollari, oltre all’oro) e ha un rapporto ambivalente
con l’America. Da tempo il colosso comunista mantiene il cambio
dello yuan incatenato alla moneta Usa. Oggi sfrutta anche il calo
delle quotazioni del dollaro, e di conseguenza dello yuan, per rendere
le proprie merci ancora più competitive in Occidente e in
Giappone (lo yen giapponese si sta apprezzando sul dollaro al pari
della moneta unica europea).
Ma nello stesso tempo i cinesi non nascondono il desiderio di diversificare
gli investimenti in modo da limitare le perdite dovute proprio alla
svalutazione del dollaro. Così, per far muovere l’euro
verso un nuovo record, è bastato che a fine novembre il China
Business Daily scrivesse – anche se poi smentito ufficialmente
– che la Banca centrale cinese, guidata dal presidente Zhou
Xiaochuan, volesse vendere i titoli pubblici americani custoditi
nei propri forzieri.
Tutta questa attenzione sulle riserve non avrebbe alcun senso, però,
se non vi fosse già una tendenza strutturale all’affermazione
dell’euro. Oggi, anche solo l’uso della moneta unica
nell’Unione europea e nei confronti dei principali partners
commerciali dell’Europa giustificherebbe una buona tenuta
dell’euro. Dopo l’allargamento a 25, l’Europa
comunitaria rappresenta, con 456,7 milioni di abitanti, la terza
area del mondo per popolazione. Per prodotto interno lordo è
seconda, dopo gli Stati Uniti, mentre il Giappone segue, ma molto
da lontano. E sebbene l’economia non cresca a ritmi veloci
nel Vecchio Continente, le esportazioni ammontano a circa 250 miliardi
di euro verso gli Usa, 45 verso il Giappone e poco meno verso la
Cina, che comunque ha aperto di più, appena qualche mese
fa, i propri mercati. In queste transazioni il dollaro conta ancora
molto. Ma la moneta europea ha conquistato posizioni, fino a superare
il 50 per cento del valore dell’interscambio col Giappone.
Senza contare l’intero import-export verso i Paesi del Mediterraneo
e l’area del Golfo.

Nel commercio fa ancora eccezione il mercato delle materie prime,
dove i prezzi sono tutti in dollari, anche perché non è
facile cambiare una tradizione di mezzo secolo. Ma anche in questo
contesto qualcosa ha cominciato a muoversi. Oggi tutti i produttori
di greggio, dagli arabi ai russi, si stanno interrogando su due
opportunità. La prima riguarda un eventuale, parziale uso
dell’euro nelle transazioni relative alle materie prime, tenuto
conto che poi gli stessi Paesi produttori di petrolio devono usare
il super-euro per pagare le più raffinate merci importate
dall’Europa. La seconda interessa l’investimento dei
capitali guadagnati con l’export di greggio.
La ragione? Il mercato delle obbligazioni pubbliche e private denominate
in euro attualmente è molto interessante sia per la varietà
dei rendimenti sia per la liquidità che lo contraddistingue.
Per rendersene conto basta sfogliare i bollettini della Bce o della
Banca dei Regolamenti Internazionali. La consistenza delle emissioni
non azionarie fatte dagli europei e denominate in euro supera abbondantemente
gli ottomila miliardi di euro di valore. Più della metà
di questa massa di obbligazioni è rappresentata da titoli
pubblici, cioè garantiti dallo Stato.

Non solo. Le obbligazioni internazionali denominate in euro, cioè
le emissioni in euro di aziende straniere o di organizzazioni sovranazionali,
oggi sono addirittura maggiori in quantità di quelle in dollari.
E i rendimenti risultano abbastanza attraenti, soprattutto se si
considera la sicurezza dell’investimento. Solo dopo l’ultimo
aumento dei tassi deciso da Greenspan i titoli di Stato a lunga
scadenza in Usa rendono “un soffio in più” di
quelli europei.
Scambi commerciali, bond, riserve, persino uso indiretto da parte
di Paesi vicini, come sta accadendo nella ex Jugoslavia: tutti questi
fenomeni hanno fatto crescere il ruolo dell’euro. E il dollaro,
indebolito dagli effetti del doppio deficit Usa (bilancio pubblico
e bilancia commerciale), ne ha subìto le conseguenze. Ora,
però, lo stesso andamento dei cambi rischia di mettere fuori
combattimento le merci europee e di frenare ulteriormente la crescita
economica nel Vecchio Continente.
Occorre fare qualcosa. Ma che cosa? La ricetta condivisa da molti
economisti è questa: la Bce deve ridurre i tassi d’interesse
e la Federal Reserve deve alzarli ancora. Ma ci vogliono anche interventi
strutturali: gli Stati Uniti devono tagliare il deficit pubblico,
mentre l’Europa deve guardare al rapporto del 3 per cento
tra deficit e Pil con maggiore flessibilità. Altro non è
consentito.
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