Il grande rischio della guerra
preventiva è dunque dettato
dal fatto che noi possiamo essere degli imperialisti incompetenti.
|
|
Il concetto cardine
di qualunque strategia è dividere i nemici e tenere insieme
gli amici. Ma allo stato attuale la strategia della politica estera
statunitense riesce a conseguire esattamente il contrario: stiamo
unendo i nostri nemici e dividendo i nostri amici. L’America
è ora più impopolare in tutto il mondo di quanto non
sia mai stata in tutta la sua storia. Le politiche americane ci
rendono più sgraditi di qualunque altro Paese.
Si tratta di una questione estremamente seria, perché nel
lungo periodo la capacità degli Stati Uniti di mantenere
il comando non dipende soltanto dalla loro potenza. Dipende anche
dalla loro influenza e dalla loro legittimità. E noi stiamo
indebolendo la nostra influenza e minando la nostra legittimità.
La Casa Bianca dovrà fare i conti con questa realtà,
che è il prezzo elevato da pagare per l’unilateralismo.
Sempre più l’America è sola in quelli che io
definisco i «Balcani globali», una regione con una popolazione
di circa 550 milioni di persone che si estende dal Vicino Oriente
all’Afghanistan e al Pakistan.
Soltanto l’Europa ha la capacità potenziale di perseguire,
insieme con l’America, nel teatro politico, militare ed economico,
il compito di coinvolgere le diverse popolazioni euro-asiatiche
nella promozione della stabilità regionale. Ma il coinvolgimento
europeo non si verificherà se consisterà semplicemente
nel conformarsi al modello americano.
Zbigniew Brzezinski
Consigliere del Presidente Jimmy Carter
(1976-1980)

L'enorme
deficit di bilancio americano è il risultato di cinque tagli
fiscali consecutivi operati dall’amministrazione Bush. Questi
tagli non sono stati dettati da erudite motivazioni keynesiane,
perché sono stati formulati quando la bolla di Wall Street
non era ancora scoppiata e l’economia americana era ancora
molto forte. I tagli sono stati operati per stimolare l’economia,
ma si sono rivelati decisamente inefficaci, perché non hanno
portato denaro nelle tasche delle famiglie su cui si poteva fare
affidamento ai fini dell’investimento per la creazione di
posti di lavoro. Al contrario, hanno fatto aumentare le attività
liquide e i titoli delle classi più abbienti. In effetti,
i tagli erano destinati a coloro che guadagnano più di 200
mila dollari l’anno, pari all'1% della popolazione statunitense,
per dirla senza mezzi termini.
Sotto l’aspetto del ciclo economico, staremmo molto peggio
se avessimo continuato ad avere quell’abbondante surplus.
Ma si deve considerare che siccome la politica fiscale adottata
da George W. Bush è stata del tutto inadatta a mantenere
alti i consumi, la maggior parte dell’onere è stato
addossato sulle spalle di Alan Greenspan alla Riserva Federale.
Il popolo americano deve benedire la grande intelligenza di Greenspan,
che ha ridotto i tassi di interesse 13 volte. E’ un’operazione
che la Banca centrale europea di Francoforte ha omesso di fare,
ed è un intervento che i giapponesi stanno ora attuando furiosamente,
ma con grande ritardo. La maggior parte degli interventi che hanno
permesso l’attuale ripresa dell’economia statunitense
sono opera del capo della Fed.

Ma questo tipo di ripresa, dovuto quasi del tutto al denaro e non
agli strumenti fiscali, non è equilibrato, nel lungo periodo
comporterà alcune conseguenze molto negative. La crisi del
deficit è un evento che coinvolgerà l’economia
globale. La realtà è che l’America è
una società a basso risparmio e ad alto consumo. E la costituzione
del nostro capitale è dipesa dai risparmi di altri Paesi
più poveri di noi. E’ il rovescio della medaglia della
cronica, e degenerante, bilancia internazionale dei pagamenti. Finora
i Paesi con un’eccedenza hanno riciclato i loro capitali,
volontariamente e regolarmente, investendo in America. Non sto parlando
soltanto della Cina. Una componente importante della ripresa giapponese
è stata la sua eccedenza delle partite correnti, principalmente
nei confronti degli Stati Uniti.
Ma anche il Canada vanta un grande surplus nei nostri confronti.
E noi compriamo dall’Unione europea molto più di quanto
riusciamo a vendere. Dunque, la nostra bilancia dei pagamenti sarà
sempre in deficit. Prevedo inoltre che questa situazione alla fine
provocherà anche nuove pressioni al ribasso sul dollaro nei
confronti dell’euro, dello yen e dello yuan. Tanto più
che la Cina è una mina vagante.
Dubito che nel prossimo quadriennio il peso dell’indebitamento
americano nei confronti del resto del mondo diventi così
grande da provocare una significativa fuga dal dollaro. Ma prima
o poi ciò si verificherà: gli Stati Uniti, che pure
sono l’economia dominante con il 20% del Pil mondiale, non
sono immuni dalla concorrenza. E’ quasi infantile credere
di poter essere tanto grandi da essere imbattibili. Perché
se il dollaro dovesse navigare davvero in cattive acque, non sarebbe
solo il denaro della Svizzera, di Milano o di Tokyo a voler abbandonare
l’America. Lo stesso “denaro freddo” americano
vorrà uscire dagli Usa in quelle condizioni, per investimenti
nelle Borse europee.
Se questo accadesse, potrebbe riprodurre una situazione caotica
in tutto il mondo, al modo della crisi esplosa nel 1997 in Thailandia,
che passò da un solido e veloce sviluppo alla condizione
contraria da un giorno all’altro. E quella crisi si estese
gradualmente alla Corea, alla Malaysia, all’Argentina, all’Europa
e al resto del mondo. Se ciò accadrà in America, gli
europei non potranno rallegrarsi perché l’euro sale
e il dollaro scende: una situazione di questo tipo intensificherebbe
la competizione sull’esportazione. Se il dollaro dovesse crollare,
non lascerebbe indisturbate le altre aree del mondo.
Paul Samuelson
Premio Nobel per l’Economia
Consulente della Fed

Nel corso
della storia americana le crisi internazionali, in particolare le
guerre, hanno dato e danno origine a presidenze imperiali: il Congresso
ritiene che il Presidente disponga di migliori fonti di informazione
o, per lo meno, che abbia maggiori responsabilità. Così,
il potere passa dall'organo legislativo a quello esecutivo, dal
Congresso e dalla magistratura al Presidente. E’ accaduto
con Abraham Lincoln durante la guerra civile, con Woodrow Wilson
durante il primo conflitto mondiale, con Richard Nixon durante la
guerra del Vietnam. Ma la differenza rispetto ai Presidenti precedenti
è che essi si rendevano conto che si trattava di un potere
di emergenza, non connaturato nel ruolo della presidenza, e per
questo lo consideravano provvisorio. Le cose sono cambiate con Nixon,
che disse a David Frost la celebre frase: «Se lo fa il Presidente,
non è illegale». Da quel momento i poteri che Lincoln
e Roosevelt avevano avuto durante una situazione di emergenza sono
divenuti normali: poteri intrinseci della presidenza.

Senza dubbio la fine della guerra fredda e, per un breve periodo,
l’addio alle crisi internazionali hanno provocato l’usuale
battuta d’arresto per il potere presidenziale. Durante il
mandato di Clinton colleghi storiografi che si sono occupati di
biografie di Presidenti si sono sentiti in obbligo di scrivere epitaffi
per la presidenza imperiale.
Ma si facevano i conti senza Osama Bin Laden, che l’ha fatta
risorgere. Bush ha potuto interpretare la propria elezione come
un mandato nazionale a perseguire una versione estrema e truculenta
di unilateralismo e ad avviare una guerra preventiva. L’unilateralismo
è la più antica dottrina della politica estera americana.
Venne teorizzato da George Washington e da Thomas Jefferson, ha
guidato statisti per oltre un secolo ed è ancora nel Dna
di molti americani.
La storia americana ci dà due esempi di unilateralismo. C’è
quello isolazionista, che esorta a non immischiarsi negli affari
degli altri Paesi: nel suo discorso di addio, Washington aveva ammonito
gli americani a «tenersi alla larga da alleanze permanenti
con qualunque parte del mondo estero». Con la crescita della
potenza americana è cresciuto il coinvolgimento nel resto
del pianeta, il che ha favorito la nascita di un unilateralismo
interventista: uno sviluppo più recente che ha raggiunto
l’apice con Bush.
Abbiamo ancora rappresentanti di entrambi i tipi. Pat Buchanan,
un repubblicano contrario alla guerra in Iraq, è un tipico
unilateralista di vecchio stampo. I neocons sono favorevoli
all’intervento: già gli accenni di minacce e avvertimenti
lanciati all’Iran sono paurosamente simili alle minacce e
agli avvertimenti trasmessi a Baghdad prima che Bush iniziasse la
guerra, imprimendo all’unilateralismo una spinta senza precedenti:
la sua dottrina sminuisce il contenimento e la deterrenza, e fa
assurgere la guerra preventiva a fondamento della politica estera
americana. Il problema è che la dottrina della prevenzione
presuppone la conoscenza delle intenzioni e delle potenzialità
del nemico. Nel caso dell’Iraq, Bush si è basato su
conoscenze errate.
Il grande rischio della guerra preventiva è dunque dettato
dal fatto che noi possiamo essere degli imperialisti incompetenti.
Molti americani sentono che la potenza militare, al pari di quella
economica e culturale, sia tanto grande da renderli in grado di
offrire al mondo, da soli, un impero di libertà. Ma il mondo
è più complesso di quanto sia dato credere, e non
permeabile, o meno influenzabile dal pensiero altrui.
Arthur Schlesinger
Storico e politologo
Già Consigliere di John Fitzgerald Kennedy
Quando
la moneta europea era debole rispetto al dollaro, incoraggiavo gli
scettici a non disperare, assicurando che entro pochi anni i rapporti
si sarebbero rovesciati. Ora che l’euro domina il mercato
dei cambi, ribadisco che diventerà una moneta di riserva,
come avevo previsto, ma con un processo lento: impossibile pensare
che le Banche centrali sostituiscano del tutto il dollaro nelle
loro casse proprio ora, mentre la moneta unica europea è
così forte.
Ho pronosticato che entro il 2010 l’area dell’euro avrebbe
sorpassato quella del dollaro per importanza economica. Ne sono
assolutamente convinto anche ora, ma si tratta di un processo graduale.
Certamente per i prossimi dieci anni il dollaro sarà ancora
la “reserve currency”, la moneta di riferimento dell’economia
globale.
Lo possiamo affermare osservando le cifre: le Banche centrali hanno
in cassa circa tre trilioni di dollari (3.000 miliardi), abbastanza
per assicurare per anni un futuro da moneta di riserva. Sicuramente
non si tratterà di un’egemonia come quella della sterlina,
che durò più di un secolo: il cambiamento è
già in corso.
Sta succedendo che alcune Banche centrali, come quella russa, hanno
annunciato di voler convertire parte delle proprie riserve in euro.
Altre ci stanno pensando su, come le Banche centrali asiatiche:
lì si vorrebbe avere almeno il 30 per cento delle riserve
in euro. Basterà questo a tenere alto l’euro per qualche
tempo. La debolezza della moneta americana in buona parte è
dovuta ai commenti di Greenspan sul deficit. Ma la mia convinzione
è che sia necessario intervenire subito: la forza dell’euro
si sta rivelando un vero problema per la ripresa delle economie
europee, e la preoccupazione per la tenuta della competitività
è molto alta.
Dovrebbe intervenire la Bce, che ha due strumenti a disposizione.
Può abbassare i tassi di interesse, oppure mettere un tetto
al rialzo dell’euro. Ritengo che quest’ultima sia la
scelta più giusta: avrebbero già dovuto fissarlo a
quota 1,30. Sarebbe una decisione legittima almeno quanto quella
che venne presa nel 2000, quando venne messo un limite al ribasso
a 85 centesimi di euro.
La mia previsione è che l’euro comincerà a scendere,
permettendo la sua conversione in moneta di riferimento. La Cina,
che ha forti riserve, si comporterà in modo responsabile,
mantenendo il tasso di scambio a livello attuale. Ma questa previsione
non va oltre i tre anni. Dopo quella data, se il deficit americano
resterà ai livelli attuali, sarà difficile evitare
una fuga di capitali dall’area del dollaro.
Robert Mundell
Premio Nobel per l’Economia
Padre dell’euro |