Marzo 2005

I costi dell'unilateralismo

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Z. Brzezinski - P. Samuelson - A. Schlesinger - R. Mundell
 
 







Il grande rischio della guerra
preventiva è dunque dettato
dal fatto che noi possiamo essere degli imperialisti incompetenti.

 

Il concetto cardine di qualunque strategia è dividere i nemici e tenere insieme gli amici. Ma allo stato attuale la strategia della politica estera statunitense riesce a conseguire esattamente il contrario: stiamo unendo i nostri nemici e dividendo i nostri amici. L’America è ora più impopolare in tutto il mondo di quanto non sia mai stata in tutta la sua storia. Le politiche americane ci rendono più sgraditi di qualunque altro Paese.
Si tratta di una questione estremamente seria, perché nel lungo periodo la capacità degli Stati Uniti di mantenere il comando non dipende soltanto dalla loro potenza. Dipende anche dalla loro influenza e dalla loro legittimità. E noi stiamo indebolendo la nostra influenza e minando la nostra legittimità. La Casa Bianca dovrà fare i conti con questa realtà, che è il prezzo elevato da pagare per l’unilateralismo. Sempre più l’America è sola in quelli che io definisco i «Balcani globali», una regione con una popolazione di circa 550 milioni di persone che si estende dal Vicino Oriente all’Afghanistan e al Pakistan.
Soltanto l’Europa ha la capacità potenziale di perseguire, insieme con l’America, nel teatro politico, militare ed economico, il compito di coinvolgere le diverse popolazioni euro-asiatiche nella promozione della stabilità regionale. Ma il coinvolgimento europeo non si verificherà se consisterà semplicemente nel conformarsi al modello americano.

Zbigniew Brzezinski
Consigliere del Presidente Jimmy Carter
(1976-1980)

 


L'enorme deficit di bilancio americano è il risultato di cinque tagli fiscali consecutivi operati dall’amministrazione Bush. Questi tagli non sono stati dettati da erudite motivazioni keynesiane, perché sono stati formulati quando la bolla di Wall Street non era ancora scoppiata e l’economia americana era ancora molto forte. I tagli sono stati operati per stimolare l’economia, ma si sono rivelati decisamente inefficaci, perché non hanno portato denaro nelle tasche delle famiglie su cui si poteva fare affidamento ai fini dell’investimento per la creazione di posti di lavoro. Al contrario, hanno fatto aumentare le attività liquide e i titoli delle classi più abbienti. In effetti, i tagli erano destinati a coloro che guadagnano più di 200 mila dollari l’anno, pari all'1% della popolazione statunitense, per dirla senza mezzi termini.
Sotto l’aspetto del ciclo economico, staremmo molto peggio se avessimo continuato ad avere quell’abbondante surplus. Ma si deve considerare che siccome la politica fiscale adottata da George W. Bush è stata del tutto inadatta a mantenere alti i consumi, la maggior parte dell’onere è stato addossato sulle spalle di Alan Greenspan alla Riserva Federale. Il popolo americano deve benedire la grande intelligenza di Greenspan, che ha ridotto i tassi di interesse 13 volte. E’ un’operazione che la Banca centrale europea di Francoforte ha omesso di fare, ed è un intervento che i giapponesi stanno ora attuando furiosamente, ma con grande ritardo. La maggior parte degli interventi che hanno permesso l’attuale ripresa dell’economia statunitense sono opera del capo della Fed.

Ma questo tipo di ripresa, dovuto quasi del tutto al denaro e non agli strumenti fiscali, non è equilibrato, nel lungo periodo comporterà alcune conseguenze molto negative. La crisi del deficit è un evento che coinvolgerà l’economia globale. La realtà è che l’America è una società a basso risparmio e ad alto consumo. E la costituzione del nostro capitale è dipesa dai risparmi di altri Paesi più poveri di noi. E’ il rovescio della medaglia della cronica, e degenerante, bilancia internazionale dei pagamenti. Finora i Paesi con un’eccedenza hanno riciclato i loro capitali, volontariamente e regolarmente, investendo in America. Non sto parlando soltanto della Cina. Una componente importante della ripresa giapponese è stata la sua eccedenza delle partite correnti, principalmente nei confronti degli Stati Uniti.
Ma anche il Canada vanta un grande surplus nei nostri confronti. E noi compriamo dall’Unione europea molto più di quanto riusciamo a vendere. Dunque, la nostra bilancia dei pagamenti sarà sempre in deficit. Prevedo inoltre che questa situazione alla fine provocherà anche nuove pressioni al ribasso sul dollaro nei confronti dell’euro, dello yen e dello yuan. Tanto più che la Cina è una mina vagante.
Dubito che nel prossimo quadriennio il peso dell’indebitamento americano nei confronti del resto del mondo diventi così grande da provocare una significativa fuga dal dollaro. Ma prima o poi ciò si verificherà: gli Stati Uniti, che pure sono l’economia dominante con il 20% del Pil mondiale, non sono immuni dalla concorrenza. E’ quasi infantile credere di poter essere tanto grandi da essere imbattibili. Perché se il dollaro dovesse navigare davvero in cattive acque, non sarebbe solo il denaro della Svizzera, di Milano o di Tokyo a voler abbandonare l’America. Lo stesso “denaro freddo” americano vorrà uscire dagli Usa in quelle condizioni, per investimenti nelle Borse europee.
Se questo accadesse, potrebbe riprodurre una situazione caotica in tutto il mondo, al modo della crisi esplosa nel 1997 in Thailandia, che passò da un solido e veloce sviluppo alla condizione contraria da un giorno all’altro. E quella crisi si estese gradualmente alla Corea, alla Malaysia, all’Argentina, all’Europa e al resto del mondo. Se ciò accadrà in America, gli europei non potranno rallegrarsi perché l’euro sale e il dollaro scende: una situazione di questo tipo intensificherebbe la competizione sull’esportazione. Se il dollaro dovesse crollare, non lascerebbe indisturbate le altre aree del mondo.

Paul Samuelson
Premio Nobel per l’Economia
Consulente della Fed

 

 

Nel corso della storia americana le crisi internazionali, in particolare le guerre, hanno dato e danno origine a presidenze imperiali: il Congresso ritiene che il Presidente disponga di migliori fonti di informazione o, per lo meno, che abbia maggiori responsabilità. Così, il potere passa dall'organo legislativo a quello esecutivo, dal Congresso e dalla magistratura al Presidente. E’ accaduto con Abraham Lincoln durante la guerra civile, con Woodrow Wilson durante il primo conflitto mondiale, con Richard Nixon durante la guerra del Vietnam. Ma la differenza rispetto ai Presidenti precedenti è che essi si rendevano conto che si trattava di un potere di emergenza, non connaturato nel ruolo della presidenza, e per questo lo consideravano provvisorio. Le cose sono cambiate con Nixon, che disse a David Frost la celebre frase: «Se lo fa il Presidente, non è illegale». Da quel momento i poteri che Lincoln e Roosevelt avevano avuto durante una situazione di emergenza sono divenuti normali: poteri intrinseci della presidenza.

Senza dubbio la fine della guerra fredda e, per un breve periodo, l’addio alle crisi internazionali hanno provocato l’usuale battuta d’arresto per il potere presidenziale. Durante il mandato di Clinton colleghi storiografi che si sono occupati di biografie di Presidenti si sono sentiti in obbligo di scrivere epitaffi per la presidenza imperiale.
Ma si facevano i conti senza Osama Bin Laden, che l’ha fatta risorgere. Bush ha potuto interpretare la propria elezione come un mandato nazionale a perseguire una versione estrema e truculenta di unilateralismo e ad avviare una guerra preventiva. L’unilateralismo è la più antica dottrina della politica estera americana. Venne teorizzato da George Washington e da Thomas Jefferson, ha guidato statisti per oltre un secolo ed è ancora nel Dna di molti americani.
La storia americana ci dà due esempi di unilateralismo. C’è quello isolazionista, che esorta a non immischiarsi negli affari degli altri Paesi: nel suo discorso di addio, Washington aveva ammonito gli americani a «tenersi alla larga da alleanze permanenti con qualunque parte del mondo estero». Con la crescita della potenza americana è cresciuto il coinvolgimento nel resto del pianeta, il che ha favorito la nascita di un unilateralismo interventista: uno sviluppo più recente che ha raggiunto l’apice con Bush.
Abbiamo ancora rappresentanti di entrambi i tipi. Pat Buchanan, un repubblicano contrario alla guerra in Iraq, è un tipico unilateralista di vecchio stampo. I neocons sono favorevoli all’intervento: già gli accenni di minacce e avvertimenti lanciati all’Iran sono paurosamente simili alle minacce e agli avvertimenti trasmessi a Baghdad prima che Bush iniziasse la guerra, imprimendo all’unilateralismo una spinta senza precedenti: la sua dottrina sminuisce il contenimento e la deterrenza, e fa assurgere la guerra preventiva a fondamento della politica estera americana. Il problema è che la dottrina della prevenzione presuppone la conoscenza delle intenzioni e delle potenzialità del nemico. Nel caso dell’Iraq, Bush si è basato su conoscenze errate.
Il grande rischio della guerra preventiva è dunque dettato dal fatto che noi possiamo essere degli imperialisti incompetenti. Molti americani sentono che la potenza militare, al pari di quella economica e culturale, sia tanto grande da renderli in grado di offrire al mondo, da soli, un impero di libertà. Ma il mondo è più complesso di quanto sia dato credere, e non permeabile, o meno influenzabile dal pensiero altrui.

Arthur Schlesinger
Storico e politologo
Già Consigliere di John Fitzgerald Kennedy

Quando la moneta europea era debole rispetto al dollaro, incoraggiavo gli scettici a non disperare, assicurando che entro pochi anni i rapporti si sarebbero rovesciati. Ora che l’euro domina il mercato dei cambi, ribadisco che diventerà una moneta di riserva, come avevo previsto, ma con un processo lento: impossibile pensare che le Banche centrali sostituiscano del tutto il dollaro nelle loro casse proprio ora, mentre la moneta unica europea è così forte.
Ho pronosticato che entro il 2010 l’area dell’euro avrebbe sorpassato quella del dollaro per importanza economica. Ne sono assolutamente convinto anche ora, ma si tratta di un processo graduale. Certamente per i prossimi dieci anni il dollaro sarà ancora la “reserve currency”, la moneta di riferimento dell’economia globale.
Lo possiamo affermare osservando le cifre: le Banche centrali hanno in cassa circa tre trilioni di dollari (3.000 miliardi), abbastanza per assicurare per anni un futuro da moneta di riserva. Sicuramente non si tratterà di un’egemonia come quella della sterlina, che durò più di un secolo: il cambiamento è già in corso.
Sta succedendo che alcune Banche centrali, come quella russa, hanno annunciato di voler convertire parte delle proprie riserve in euro. Altre ci stanno pensando su, come le Banche centrali asiatiche: lì si vorrebbe avere almeno il 30 per cento delle riserve in euro. Basterà questo a tenere alto l’euro per qualche tempo. La debolezza della moneta americana in buona parte è dovuta ai commenti di Greenspan sul deficit. Ma la mia convinzione è che sia necessario intervenire subito: la forza dell’euro si sta rivelando un vero problema per la ripresa delle economie europee, e la preoccupazione per la tenuta della competitività è molto alta.
Dovrebbe intervenire la Bce, che ha due strumenti a disposizione. Può abbassare i tassi di interesse, oppure mettere un tetto al rialzo dell’euro. Ritengo che quest’ultima sia la scelta più giusta: avrebbero già dovuto fissarlo a quota 1,30. Sarebbe una decisione legittima almeno quanto quella che venne presa nel 2000, quando venne messo un limite al ribasso a 85 centesimi di euro.
La mia previsione è che l’euro comincerà a scendere, permettendo la sua conversione in moneta di riferimento. La Cina, che ha forti riserve, si comporterà in modo responsabile, mantenendo il tasso di scambio a livello attuale. Ma questa previsione non va oltre i tre anni. Dopo quella data, se il deficit americano resterà ai livelli attuali, sarà difficile evitare una fuga di capitali dall’area del dollaro.

Robert Mundell
Premio Nobel per l’Economia
Padre dell’euro

   
   
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