Il dollaro si
indebolisce
soltanto nei
confronti dell’euro e quindi scarica sugli europei tutto il
peso dello
squilibrio
commerciale
che gli Stati Uniti hanno con la Cina.
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«Se gli Stati Uniti lasciassero precipitare il valore del
dollaro e il resto del mondo non facesse nulla per impedirlo, si
rischierebbe una Hiroshima valutaria»: Paolo Savona riprende
e rilancia l’analisi che il Premio Nobel Paul Samuelson aveva
già rappresentato in termini realistici. I due studiosi non
sono giovani di primo pelo, a caccia di notorietà; al contrario,
sono due guru noti per l’esperienza sul campo e per la puntigliosità
delle ricerche. Eppure, negli ultimi interventi pubblici hanno delineato
scenari da brividi.
Secondo le loro previsioni, il deficit nei conti pubblici e lo squilibrio
della bilancia commerciale statunitense hanno raggiunto una dimensione
molto pericolosa. Senza un freno, senza un rimedio nel breve periodo,
prima o poi potrà venir meno quell’afflusso di investimenti
verso gli Stati Uniti che attualmente sostiene ancora la valuta
americana. A questo punto diventerebbe inevitabile un’ulteriore
e marcata discesa delle quotazioni del biglietto verde, con una
conseguenza disastrosa, che l’economista italiano sintetizza
così: «Un gran botto valutario, che polverizzerebbe
le attività in dollari e farebbe sprofondare nella seconda
grande crisi l’economia planetaria». Il rimedio? Si
suggerisce la ricerca di un nuovo ordine monetario internazionale,
esigenza di cui ha parlato anche il Governatore della Banca d’Italia,
Fazio, durante le celebrazioni in memoria di Guido Carli.
Ma le prospettive sono davvero così nere? Rispondono alcuni
economisti di diversa estrazione. Tra ottimisti, pessimisti e possibilisti,
il risultato non è per nulla univoco. Tranne che su un punto:
non ci sarà a breve una ripresa della divisa americana. Opinione
comune è che la valuta statunitense resterà debole
in questo periodo, e probabilmente perderà altro terreno.
Mario Deaglio, docente di Economia Internazionale a Torino, va subito
al cuore del problema: «Non sono un profeta, non posso dire
oggi se il dollaro reggerà oppure no in futuro. Però
concordo con l’analisi di Savona: un rischio Hiroshima dei
cambi c’è, ed è molto forte». Le ragioni
sono identiche a quelle messe in campo anche da Samuelson: gli squilibri
gemelli dei conti pubblici e della bilancia commerciale Usa: «Le
Banche centrali saranno impegnate a pilotare la discesa del dollaro.
Ma se gli Stati Uniti non metteranno ordine nei propri squilibri,
saranno guai. Dell’esigenza di un nuovo ordine monetario mondiale
ha parlato il Governatore. E questo futuro ordine inevitabilmente
sarà destinato da un lato a mettere alcuni vincoli agli Stati
Uniti e dall’altro a coinvolgere la Cina. Infatti questo Paese
è il secondo detentore di riserve valutarie nel mondo, dunque
è necessario che sieda al tavolo delle trattative. Non solo.
La Cina è anche una vastissima area in fase di impetuoso
sviluppo. Ora Pechino vorrebbe raffreddare un poco, soltanto un
poco, la propria economia. Così non è impossibile
pensare a una piccola rivalutazione dello yuan».

Sostiene Alberto Alesina, Capo del Dipartimento economico dell’Università
di Harvard: «Non vedo all’orizzonte crisi drammatiche
del dollaro o attacchi speculativi. Si tratta di mercati troppo
grandi anche per gli speculatori più agguerriti. Ma non è
impossibile, anzi è molto probabile, che le quotazioni del
dollaro nei prossimi mesi scenderanno ancora». Alesina, economista
italiano fra i più seguiti a livello internazionale, non
si iscrive al partito dei pessimisti, ma non per questo guarda con
minore apprensione alla situazione economico-finanziaria pubblica
americana: «Il deficit commerciale è molto alto, supera
il 5 per cento del Prodotto interno lordo. Gli Stati Uniti crescono
molto e importano molto. Anche il deficit pubblico è alto,
mentre il risparmio delle famiglie è basso. In una situazione
del genere o si decide di svalutare il dollaro o si accetta che
negli Usa parta l’inflazione, oppure si mette un po’
di ordine nei deficit americani. Oppure, ancora, cosa più
probabile, si verificano tutte e tre queste cose. Quindi, è
sicuramente possibile che il dollaro comunque scenda ancora di più.
Per l’Europa questo significa strada in salita. Nei prossimi
mesi o anni nessun aiuto verrà dal dollaro e dagli Stati
Uniti. Il Vecchio Continente questa volta deve farcela da solo,
sapendo che la partita più importante la giocherà
con la Cina, specializzandosi nelle produzioni ad alta tecnologia
e ad alta intensità di capitale».
Chiarissimo il pensiero di Giacomo Vaciago, docente di Politica
Economica e direttore dell’Istituto di economia e finanza
della Cattolica di Milano: «Altro che dollaro debole. Qui
stiamo assistendo alla sfida dell’euro contro tutti, perché
attaccate al dollaro ci sono la Cina, l’India, l’intera
America Latina. Ed è questo il vero problema». Vaciago
punta il dito, più che sulla debolezza della divisa americana,
sul comportamento degli europei: «L’Italia ha deciso
di allearsi dal punto di vista monetario con gli altri Paesi dell’Ue.
Ma poi nessuno fa squadra. Così, da un lato ci sono gli Stati
Disuniti d’Europa, dall’altro gli Usa, più i
colossi che ormai hanno collegato le proprie valute al dollaro,
come, appunto, quei veri e propri continenti che sono la Cina e
l’India, oltre al Sudamerica. E allora qui sta l’aspetto
più preoccupante: se il dollaro si indebolisse nei confronti
di tutte le altre valute, poco male. Il problema è che si
indebolisce soltanto nei confronti dell’euro e quindi scarica
sugli europei tutto il peso dello squilibrio commerciale che gli
Stati Uniti hanno, per esempio, con la Cina. Cosa fare? Per evitare
che l’andamento dei cambi abbia contraccolpi sullo sviluppo
e sull’occupazione, l’Europa deve crescere di più,
aiutando in questo modo anche gli Usa ad affrontare i propri deficit.
Dobbiamo spendere meglio; non per difendere il passato, ma per costruire
il futuro».

Paolo Garonna, direttore del Centro Studi di Confindustria, la
vede in questo modo: «Bisogna ricordare che, accanto ad economisti
che prevedono crisi drammatiche sui cambi, vi sono altri secondo
i quali anche con gli attuali squilibri dei conti pubblici e della
bilancia commerciale americana si potrà tranquillamente andare
avanti per almeno dieci anni. Questo non vuol dire che non ci siano
preoccupazioni. Con il dollaro a queste quotazioni la crescita europea
si riduce. E il problema riguarda soprattutto l’Italia, che
ha le stesse specializzazioni produttive dei Paesi asiatici, i quali
hanno la propria valuta agganciata al dollaro. Però si deve
anche riconoscere che vi sono fatti incoraggianti. Dopo una svalutazione
del 50 per cento, come quella subita dalla moneta Usa, stiamo riscontrando
ora segnali non isolati di ripresa. Detto a bassa voce: la vitalità
per reagire le imprese italiane in realtà ce l’hanno,
e ormai hanno fatto anche l’abitudine all’euro forte».
Infine, Luigi Paganetto, preside della Facoltà di Economia
a Tor Vergata: «Il dollaro è destinato a restare debole
e non è prevedibile ora come ora un ingente flusso di capitale
a suo sostegno. Ma gli Stati Uniti mantengono un forte differenziale
di produttività rispetto all’Europa e questo può
portare a esiti importanti dal punto di vista della spinta competitiva.
Non sono pessimista. Anzi, metto nel conto anche un possibile risvolto
positivo, in analogia con quanto avvenne quando il Giappone invase
gli Usa con le merci poco costose. Allora, invece di far passare
una spinta al protezionismo, prevalse l’impegno per far crescere
l’efficienza. Oggi potrebbe accadere la stessa cosa, sotto
la spinta della concorrenza cinese. La condizione? Se la politica
economica di Bush saprà garantire la crescita dell’occupazione
e l’uso efficiente delle risorse, si accrescerà negli
Stati Uniti un’alta produttività. Se così sarà,
questa fase di debolezza va considerata temporanea e finirà
con l’attirare l’afflusso di capitali».
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