“In questo secondo dopoguerra
nessuna banca ha chiesto allo Stato una lira e tutte hanno assolto
il compito
di finanziare
largamente la
produzione e gli scambi, con
metodi corretti…”.
D. Menichella
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Introduzione
Il conferimento del “Premio Menichella” mi onora altamente
e mi dà l’opportunità di rievocare la figura
e l’opera di un grande Governatore della Banca d’Italia,
che ebbi la ventura di conoscere personalmente e d’incontrare
più volte. Mi limiterò a ricordare solo l’ultima,
nel tardo pomeriggio del 22 marzo del 1979. La battaglia contro
la Banca d’Italia da parte di ambienti politici affaristici
e giudiziari stava raggiungendo il suo acme. Il Governatore Baffi
era stato riservatamente informato che a giorni sarei stato privato
della mia libertà e mi chiese di incontrare il dott. Menichella,
indisposto, nella sua abitazione romana. Menichella volle che gli
raccontassi un po’ le vicende che la stampa non si stancava
di enfatizzare e gliele esposi come è costume verso un confessore.
Mi ascoltò con attenzione, mi interruppe solo per chiedere
qualche ulteriore chiarimento, manifestò chiari sentimenti
di partecipazione ai travagli della Banca e a quelli miei personali.
Nel salutarmi volle abbracciarmi: aveva le lacrime agli occhi.
Politica monetaria degli anni Cinquanta
Per affrontare il tema che mi sono proposto di trattare, devo brevemente
richiamare il metodo della politica monetaria menichelliana per
meglio comprendere i nessi tra la politica bancaria e lo sviluppo
economico degli anni Cinquanta. Sul finire del proprio mandato,
lo stesso Menichella definì la sua politica monetaria «semplice
nei mezzi e parca negli interventi, atta a conferire autonomia e
certezza all’operare economico».
Quella politica si avvalse di strumenti descritti con efficacia
nel suo discorso alla Società di economia politica di Zurigo
nel 1956. Essi si possono compendiare: a) nei controlli diretti;
b) nell’allocazione discrezionale del credito della Banca
centrale; c) nella persuasione morale; gli ultimi due erano diretti
alla singola istituzione creditizia, i primi erano in parte a carattere
macroeconomico (riserva obbligatoria), in parte microeconomico (fidi
eccedenti).
Politica bancaria degli anni Cinquanta
Il sistema produttivo e quello finanziario italiano erano passati
tra gli anni Venti e gli anni Trenta attraverso crisi che condussero
a riformulare le “regole del gioco” tra industria e
banca, operazione di cui Menichella fu magna pars. Il ruolo dello
Stato nell’economia si ampliò non solo per effetto
dei salvataggi bancari, ma anche a causa dell’anima protezionistica
dell’industria italiana, dell’autarchia che la legittimò
politicamente, della dissoluzione del sistema dei commerci e dei
pagamenti internazionali, delle esigenze belliche e dei controlli
diretti che esse comportano. La fine della guerra e la restituzione
del Paese a ordinamenti democratici permisero l’apertura dell’economia
al soffio vivificatore del commercio internazionale, ma non la riduzione
della proprietà pubblica delle tre banche d’interesse
nazionale in mano all’IRI. Come scrisse Menichella al Capitano
Andrew Kamarck, «è evidente che, poste le mani su un
complesso di oltre 50 miliardi di depositi da parte di gruppi che
in Italia non possono reclutarsi nel ceto finanziario, perché
detto ceto non esiste, bensì soltanto nel ceto industriale,
le banche si rimetterebbero a fare l’industria».
Nonostante che si sia cercato di dare un’interpretazione pro-concorrenziale
della politica bancaria di Menichella, la separatezza era funzionale
alla stabilità finanziaria, perseguita con decisioni che
solo in parte realizzarono il disegno dei primi anni ‘30 e
con atti di gestione volti a moltiplicare i centri indipendenti
di erogazione del credito.
La Relazione al Capo del Governo del dicembre 1933 proponeva di
ridurre a due soltanto le grandi banche a carattere nazionale nel
breve periodo, di ridimensionare le loro strutture centrali e periferiche,
di ricostruire istituti di credito regionali, di sviluppare il credito
mobiliare che era da sottrarre alle grandi banche, ma che era impossibile
affidare all’IMI, privo di una struttura periferica; per ampliare
e distribuire territorialmente il credito mobiliare si costituirono
nel dopoguerra banche di credito finanziario, istituti mobiliari
regionali, istituti di mediocredito regionale, per servire le esigenze
creditizie delle piccole e medie industrie, si puntò sull’espansione
del tessuto di piccole banche attraverso l’autorizzazione
a costituire nuove aziende o ad aprire nuovi sportelli. Territorialmente,
se ne avvantaggiarono le regioni meridionali.
La preoccupazione per le piccole e medie imprese, che aveva condotto
all’epoca della costituzione dell’IRI a istituire accanto
alla sezione per gli smobilizzi quella per i finanziamenti, probabilmente
l’obiettivo di evitare nuove concentrazioni di potere bancario
in grado di attrarre gli insani appetiti dell’industria, la
lotta all’usura, piaga meridionale di cui Menichella era ben
consapevole, inducevano a disegnare un sistema bancario costituito
prevalentemente da piccole aziende di credito; non è un caso
che oggi viene premiata la Banca di Cambiano, la più antica
banca italiana di credito cooperativo. Le banche “periferiche”
erano in grado di capire meglio le esigenze e le ansie dei piccoli
operatori e si sentivano più responsabili nell’uso
del risparmio, vale a dire – nel gergo attuale degli economisti
– che erano in grado di fare una migliore allocazione e di
temere un maggiore danno reputazionale rispetto al funzionario di
una grande banca.

Il localismo bancario non era certo scevro di problemi, ma esso
dava una possibilità a tutte le componenti del variegato
territorio nazionale di avere una propria “voce” nel
credito e alla Banca centrale, forse, di non accrescere il potere
di coalizione delle grandi banche.
Stabilità, crescita e risoluzione dei problemi strutturali
Menichella fu certamente il grande realizzatore di un programma
di stabilità nel settore monetario e finanziario. Le aspettative
inflazionistiche vennero debellate con la manovra del 1947 e tenute
a freno successivamente attraverso una ferma politica di controllo
monetario. La stabilità valutaria fu raggiunta mediante l’apertura
al commercio internazionale, l’adesione al Fondo monetario
internazionale e un’accumulazione di riserve valutarie di
dimensioni tali da costituire un sicuro presidio per la difesa del
cambio e per una politica di sviluppo, anche se non mancarono accuse
di neo-mercantilismo.
Grazie alla radicale riforma pensata tra il 1933 e il 1936, Menichella
poté affermare che «in questo secondo dopoguerra […]
nessuna banca ha chiesto allo Stato una lira e tutte hanno assolto
il compito di finanziare largamente la produzione e gli scambi,
ma con metodi corretti in relazione alla loro natura di banche di
deposito». Oggi non possiamo non notare che la stabilità
bancaria fu anche il risultato di una regolamentazione fortemente
invasiva e a carattere economico-strutturale, che i costi bancari
ebbero tendenza ad aumentare più dei ricavi e che l’utile
netto delle banche passò dal 7,3 per cento del conto economico
nel 1949 al 5,5 per cento nel 1960.
Questa stabilità dalle molte dimensioni venne usata per risolvere
i problemi strutturali dell’economia italiana: peso ancora
troppo forte dell’agricoltura rispetto all’industria
e ai servizi, basso tenore di vita della popolazione rurale, elevata
disoccupazione e, soprattutto, dualismo territoriale. Alla loro
soluzione si poteva attendere solo indirizzando gli investimenti,
anche infrastrutturali, nelle direzioni in cui erano più
necessari e produttivi. Ciò richiedeva che il processo di
crescita vedesse protagoniste anche le piccole imprese accanto alle
grandi, molte delle quali erano di proprietà dello Stato,
che portasse al riequilibrio tra il Sud agricolo e arretrato e il
Nord industrializzato e più ricco; che non fosse interrotto
dall’emergere dal vincolo esterno o dallo scoppio di crisi
industriali prima e bancarie poi.
Il “miracolo” fu reso possibile sì dalle politiche
economiche suggerite o attuate dalla Banca centrale, ma soprattutto
dall’intelligenza e dall’impegno di una nuova classe
politica e sindacale, dalla collocazione del Paese tra quelli liberi
e democratici e dall’assenza di cicli economici internazionali
negativi, se si escludono quello coreano e quello, più modesto,
che seguì l’avventura franco-britannica di Suez. Tra
il 1948 e il 1960, gli anni del Governatorato Menichella, il reddito
nazionale lordo in termini reali crebbe del 5,6% l’anno, mentre
l’inflazione si aggirò sul 3% annuo.
Dal 1951 al 1958 si sviluppò un circolo virtuoso in cui l’accumulazione
di capitale generò una forte crescita della produttività
nell’industria, con beneficio per la competitività
della nostra produzione e per le sue esportazioni; le moderate rivendicazioni
salariali permisero ai profitti di aumentare e di finanziare gli
investimenti secondo schemi che non facevano troppo assegnamento
sull’indebitamento. In questo periodo, l’accumulazione
privata e quella pubblica cercarono di allargare la capacità
produttiva, rimediare alle croniche carenze di infrastrutture e
di abitazioni nei centri industriali divenuti punti di arrivo delle
migrazioni interne, chiudere o almeno ridurre il divario tecnologico
dell’economia italiana rispetto a quelle più avanzate.
Alla grande industria venne di fatto affidato il compito, grazie
anche ai prestiti degli Stati Uniti, di importare i modelli produttivi
americani, compresi quelli relativi alle relazioni industriali;
le partecipazioni statali furono indirizzate verso i settori ad
elevata intensità di capitale o ad alto rischio, come quelli
del petrolio e dell’acciaio.
La media e piccola industria scelse di specializzarsi nei semilavorati
necessari alle grandi imprese, mentre quella produttrice di beni
di consumo continuò a sopravvivere grazie al basso costo
del lavoro e al boom dei beni durevoli. Il processo di industrializzazione
e l’apertura commerciale verso l’estero furono alla
base della crescita che si svolse senza strappi per l’assenza
di shock esterni rilevanti, per la relativa pace sociale seguita
alle crisi di riconversione tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio
dei Cinquanta e per una lungimiranza delle politiche economiche
perseguite.
Una pietra miliare fu nel 1950 la costituzione della Cassa del Mezzogiorno,
alla quale Menichella contribuì personalmente, grazie anche
alle insistenze della Banca Mondiale, desiderosa di avere un interlocutore
unico. Il nuovo ente riuscì non solo a convogliare un volume
di risorse più rilevante e più rispondente ai bisogni
di regioni troppo a lungo neglette, ma soprattutto riuscì
a dare unitarietà di disegno ad interventi disparati. Si
puntò sulle infrastrutture, non solo nel settore agricolo
ma anche in quello delle opere pubbliche; in tal modo si pensava
di porre le basi per l’industrializzazione del Sud alla quale
la Banca Mondiale era favorevole. Quando quest’ultima, parecchi
anni dopo, fu forzata attraverso gli obblighi d’investimento
alle partecipazioni statali e la concessione di fiumi di crediti
agevolati, si risolse in un fallimento, anche per il mutamento nei
prezzi relativi seguiti al primo shock petrolifero.
Negli ultimi anni del Governatorato Menichella si ebbero fatti di
rilevanza internazionale, come la convertibilità esterna
della lira e la firma del Trattato di Roma per la formazione del
Mercato comune europeo; per l’Italia si ebbe un’interazione
tra gli effetti derivanti dal Mercato comune e la domanda interna
tale da portare per la prima volta il Paese durante il periodo 1958-1963
vicino alla piena occupazione, sia pure squilibrata settorialmente
e soprattutto territorialmente. Per i suoi connotati economici e
per l’assunzione di responsabilità nella gestione della
crisi che concluse il ciclo questa fase appartiene al Governatore
Carli.
I tempi economici erano mutati: il vincolismo economico era sempre
meno efficace e soprattutto non più in linea nel medio periodo
con l’integrazione europea e internazionale. I tempi politici
erano cambiati: il dialogo con i socialisti stava per dare vita
al centro-sinistra. Il suggello di un Governatorato che aveva fatto
della stabilità la propria missione fu l’attribuzione
dell’Oscar alla lira. Prendendo a pretesto il compimento dei
65 anni di età, Menichella si ritirò a vita privata.

Mutamenti nella struttura monetaria, bancaria e finanziaria
negli anni 1993-2003
Se guardiamo all’ultimo decennio o poco più, gli avvenimenti
istituzionali maggiori sono stati la sostituzione dell’unità
monetaria nazionale con l’euro e l’affidamento della
politica monetaria da parte dei 12 Paesi dell’Unione alla
Banca centrale europea. Questa istituzione ha nel proprio statuto
l’obbligo prioritario di perseguire la stabilità dei
prezzi, usa strumenti volti ad influenzare il costo del denaro e
le aspettative inflazionistiche attraverso il mercato monetario
in modo indifferenziato, applica una riserva obbligatoria con aliquota
modesta (2%), non dispone di un tasso di sconto e non pratica alcuna
persuasione morale al livello di singolo intermediario. Siamo in
un mondo che è agli antipodi di quello menichelliano.
Un richiamo alle forze che hanno promosso la trasformazione del
sistema bancario italiano e, mutatis mutandis, di quello
europeo negli anni Novanta, è indispensabile. In primo luogo,
vi fu un completamento del processo di deregolamentazione
e una riregolamentazione; da pervasivi controlli diretti
si passò piuttosto rapidamente a pochi vincoli indiretti,
da una vigilanza di tipo strutturale ci si mosse verso una a carattere
prudenziale, imperniata a livello micro sul capitale delle banche
e a quello macro sullo sviluppo e sull’efficienza dei mercati;
in definitiva, la discrezionalità lasciò (quasi tutto)
il campo a regole prefissate e generali. La riregolamentazione ha
seguito il sentiero tracciato dalla Seconda Direttiva Bancaria della
Comunità e la moneta unica ha acuito il bisogno di unificare
il mercato finanziario europeo, cui si sta attendendo anche con
l’ausilio delle proposte del Gruppo Lamfalussy.
In secondo luogo, va sottolineata l’innovazione tecnologica;
la TIC ha trasformato profondamente le funzioni di produzione, soprattutto
nei settori come quello bancario e finanziario in cui il processo
si esaurisce nella manipolazione dell’informazione acquisita
e nella restituzione dei risultati. L’innovazione finanziaria,
favorita da quella tecnologica, ha beneficiato soprattutto dello
sviluppo di mercati in cui attraverso prodotti derivati si domanda
e si offre copertura contro i rischi più svariati.
Da ultimo, in Italia e anche all’estero si è avuta
una forte spinta alla privatizzazione, che ha riguardato
non solo le industrie e le imprese di pubblica utilità, ma
soprattutto le banche. Rispetto al 1992, gli enti pubblici e le
fondazioni che hanno una maggioranza uguale o superiore a quella
assoluta nel capitale di una banca hanno ridotto la propria quota
di partecipazione nel totale delle attività bancarie dal
68 al 10%; il numero di banche e di gruppi il cui capitale appartiene
per oltre il 50% alle fondazioni è sceso al 19. Quattordici
fondazioni detengono ancora partecipazioni nei primi cinque gruppi
bancari e nove sono presenti con quote superiori al 5% nel capitale
della banca partecipata.
Gli anni Novanta hanno visto non solo in Europa, ma soprattutto
in America, in concomitanza con la crescita vertiginosa dei corsi
azionari e di una domanda di alti rendimenti da parte degli azionisti,
una vera esplosione di fusioni e acquisizioni, dovuta anche agli
incentivi dati ai vertici aziendali. La ristrutturazione del sistema
bancario italiano negli ultimi anni è stata ben più
intensa di quella di altri Paesi dell’Unione europea. Questa
notevole attività di concentrazione, che Menichella avrebbe
visto probabilmente come il fumo negli occhi, fa sorgere alcuni
interrogativi, tra cui: a) poiché l’apparato produttivo
italiano è basato sulla piccola e sulla micro dimensione,
il processo di concentrazione ha influito o potrà influire
negativamente sul suo finanziamento e quindi sulla sua capacità
di sviluppo? b) il fallimento del sistema bancario “indigeno”
nel Mezzogiorno e l’arrivo di banche del Centro-Nord hanno
avuto conseguenze positive o negative sullo sviluppo di un’area
meno avanzata?
Concentrazione del sistema bancario e finanziamento delle piccole
imprese
Per le piccole e medie imprese il finanziamento bancario è
di fatto l’unico canale per ottenere risorse dall’esterno;
nell’Unione europea si manifesta con un accentuato pluriaffidamento.
Negli scaglioni più bassi e per alcune aree del Paese è
presumibile che prevalga un relationship banking, che si
esprime non necessariamente con l’unicità del rapporto,
ma soprattutto con metodologie non standardizzate e non formalizzate
per la valutazione e per la gestione del fido da parte della piccola
banca locale. Poiché la struttura delle micro imprese si
è ulteriormente polverizzata, è probabile che l’opacità
della loro struttura amministrativo-contabile permanga inalterata
e che la lettura delle loro potenzialità sia affidata più
all’intuito che al giudizio del piccolo banchiere. Perciò,
nonostante le rassicurazioni ufficiali, gli accordi di Basilea II
suscitano ancora qualche timore.
Se sul versante del credito si hanno processi di consolidamento
di ampie dimensioni, che in Italia hanno interessato particolarmente
le piccole e le medie aziende di credito, sembra giustificato il
timore di un razionamento o di un aumento dello stesso nei confronti
delle piccole imprese per effetto di mutate metodologie nella valutazione
e nella gestione dei rischi. Gli effetti delle concentrazioni bancarie
sui prestiti alle piccole imprese sono stati studiati approfonditamente
nel nostro Paese, oltre che negli Stati Uniti. Secondo queste ricerche,
ciò che conta è l’effetto sul credito complessivo
alle piccole imprese e sulla valutazione del rischio che esse rappresentano;
il primo non diminuisce per l’effetto di rimpiazzo di banche
nuove o non interessate da operazioni di consolidamento, la seconda
comporta una lieve diminuzione del credito erogato ai debitori di
peggiore qualità. Anche quando dall’M&A si ottengono
guadagni di efficienza, ne derivano un turbamento dei rapporti consolidati
e un aumento della percezione di razionamento.
Scomparsa del sistema bancario “indigeno” e sviluppo
del Mezzogiorno
La struttura produttiva del Mezzogiorno è ancor più
frammentata di quella del Centro-Nord e il processo di consolidamento
ha interessato soprattutto la prima area. Negli anni Ottanta si
ebbe la chiusura della Cassa del Mezzogiorno; in quelli Novanta
la svalutazione della lira, il processo di rientro dall’inflazione,
l’interruzione dei trasferimenti pubblici a favore delle imprese
meridionali crearono insolvenze che si ripercossero sulle banche
che maggiormente le avevano sovvenute; non v’è da meravigliarsi
che vi sia stato un sarcastico invito ad abolire il Mezzogiorno…
La cattiva qualità degli attivi e gli alti costi del personale
indussero le autorità monetarie a liquidare alcuni istituti
con oneri a carico della collettività e a promuovere l’acquisizione
delle principali banche meridionali da parte di istituti del Centro-Nord.
Tra il 1990 e il 2001, le banche con sede legale nel Sud si ridussero
della metà e gli attivi bancari passati sotto il controllo
di banche del Centro-Nord ammontarono ai due terzi del totale.
Il trasferimento della proprietà di buona parte degli intermediari
meridionali al di fuori dell’area ha indotto il timore di
una distruzione del patrimonio informativo, soprattutto soft, delle
banche locali passate di mano e di un aumento del potere di mercato
delle banche ridottesi nel numero, ma cresciute nella dimensione.
Tra il 1986 e il 1992, il differenziale nel costo del credito tra
Nord e Sud si ridusse da 2,2 a 1,7 punti percentuali, aumentò
sino a 2,3 negli anni centrali del decennio per le acuite difficoltà
dell’economia meridionale, per scendere successivamente e
attestarsi intorno all’1,6% nel 2001. Esso si riduce di quasi
un punto se si omogeneizza la dimensione e la composizione settoriale
delle imprese meridionali a quelle del Nord; correggendo i dati
per il rischio, il differenziale scende di qualche decimo di punto
nel 2001 (da 1,6 a 1,3 circa).
Le ragioni che spiegano questo maggior rischio sono tristemente
note e vanno dalla condizione dell’ordine pubblico alla carenza
di infrastrutture, cui si aggiunge la maggiore lentezza della giustizia
civile che riduce l’offerta di credito alle imprese e anche
alle famiglie. Ovviamente, la sensazione degli imprenditori meridionali
è un po’ diversa; essi ritengono, tra l’altro,
che si sia ampliato il razionamento del credito e che i vincoli
finanziari siano divenuti più stringenti. Tra gli studiosi,
v’è chi afferma che l’eventuale aumento dell’efficienza
operativa per effetto di questa trasformazione non si è tradotta
in benefici per l’economia meridionale, che affonda sempre
più nel sommerso.
Sulla base di recenti ricerche, l’inefficienza del sistema
bancario ha un’influenza negativa sulla crescita del PIL della
circoscrizione in cui opera, mentre il tasso di crescita dell’economia
locale aumenta in modo significativo se s’innalza la probabilità
che un individuo, tenuto conto delle sue caratteristiche, ottenga
credito dal sistema bancario locale. Alle banche si richiede, come
è noto, una duplice efficienza, quella gestionale e quella
allocativa (o territoriale) che contribuisce allo sviluppo dell’economia
e della società; nelle regioni bancariamente evolute le due
procedono di pari passo, in quelle più arretrate è
più difficile che ciò accada, anche se obiettivamente
più necessario. In passato, per migliorare l’efficienza
allocativa si procedeva a modificare la funzione obiettivo dei soggetti
che producono l’esternalità attraverso la proprietà
pubblica oppure introducendo incentivi e disincentivi mediante imposte,
sussidi o vincoli regolamentari. Da tempo la privatizzazione e la
regolamentazione prudenziale sono a presidio dell’efficienza
e della stabilità del sistema.
Sempre secondo queste ricerche, allo sviluppo dovrebbe pensare una
forza debole, la persuasione morale delle autorità monetarie
e di vigilanza, per giunta prive oggi degli antichi poteri autorizzativi,
in un contesto in cui la copertura dei rischi e la massimizzazione
dei profitti di breve periodo sono diventate le nuove parole d’ordine
per banche sempre più integrate nel mercato finanziario.
Da parte di alcuni commentatori si teme negli ultimi tempi che le
grandi banche internazionali stiano diventando una sorta di hedge
fund e si domandano perché le banche d’investimento
vogliano acquistarne. A questo estremo si contrappone un altro:
la scoperta da parte di un ex ministro dell’Economia e delle
Finanze che il Mezzogiorno è ormai privo di una banca autoctona
e che questa è essenziale per rilanciare lo sviluppo del
territorio; sarebbe stato sufficiente richiamare gli insegnamenti
di Menichella e i risultati, tutt’altro che univoci, delle
ricerche empiriche al riguardo.

Conclusioni
Il tasso di sviluppo del RNL a prezzi costanti nel decennio 1994-2003
si è ridotto all’1,36%, quello per il quadriennio 2000-2003
è stato dello 0,88% soltanto, la chiusura del divario economico
tra Nord e Sud si è sostanzialmente arrestata, sebbene l’economia
sia stata alquanto liberalizzata e fortemente privatizzata, l’intervento
pubblico si sia concentrato di preferenza sulla fissazione delle
regole e sulla sorveglianza per il loro rispetto, ogni commistione
tra politica monetaria e finanziamento pubblico sia stata eliminata,
la politica monetaria abbia scelto come stella polare la stabilità
dei prezzi e come timone per la rotta il tasso d’interesse.
Tuttavia, i risultati in termini di crescita sono ben inferiori
a quelli che si ebbero tra il 1950 e il 1963 (tasso medio del 5,8%
del RNL a prezzi costanti), quando l’economia era mista e
la parte pubblica sembrava destinata a comprimere ulteriormente
quella privata, i cartelli erano diffusi e nel caso del credito
ritenuti di pubblica utilità, le posizioni dominanti erano
ben presenti e non soggette al controllo di alcuna autorità,
la politica monetaria e quella bancaria utilizzavano strumenti di
controllo diretto, insieme con la persuasione morale verso le singole
componenti del sistema bancario. Era questa certamente un’economia
più confacente alla mentalità di servitore dello Stato,
di manager pubblico, scevra da presupposti ideologici, che Menichella
aveva sviluppato nei suoi vari incarichi, prima di assumere il Governatorato
della Banca d’Italia.
Menichella preservò la stabilità monetaria e la estese
al cambio e agli assetti bancari. Il suo vero obiettivo divenne
lo sviluppo e il riequilibrio territoriale; conseguì brillantemente
il primo e avviò con decisione il secondo. Oggi, purtroppo,
ci troviamo ad affrontare gli stessi problemi, ma in un contesto
completamente diverso, tanto che il pronosticato secondo miracolo
non si è affatto materializzato.
Dobbiamo concludere che si stava meglio quando si stava peggio sotto
il profilo della libertà economica? Certamente no, ma non
dobbiamo dimenticare che la storia segue vie misteriose, quasi mai
prevedibili, e che l’economia non ha ancora trovato il paradigma
che spiega la ricchezza delle nazioni a prescindere dal contesto
e dagli uomini che lo interpretano. Tornano così alla mente
le parole di Amleto:
There are more things in heaven and earth,
[Horatio,
Than are dreamt of in your philosophy.
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