Marzo 2005

Politica bancaria e sviluppo economico / spunti di riflessione

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Menichella,
lezione attuale
Mario Sarcinelli Presidente della Repubblica Italiana
 
 





“In questo secondo dopoguerra
nessuna banca ha chiesto allo Stato una lira e tutte hanno assolto
il compito
di finanziare
largamente la
produzione e gli scambi, con
metodi corretti…”.
          D. Menichella

 

Introduzione

Il conferimento del “Premio Menichella” mi onora altamente e mi dà l’opportunità di rievocare la figura e l’opera di un grande Governatore della Banca d’Italia, che ebbi la ventura di conoscere personalmente e d’incontrare più volte. Mi limiterò a ricordare solo l’ultima, nel tardo pomeriggio del 22 marzo del 1979. La battaglia contro la Banca d’Italia da parte di ambienti politici affaristici e giudiziari stava raggiungendo il suo acme. Il Governatore Baffi era stato riservatamente informato che a giorni sarei stato privato della mia libertà e mi chiese di incontrare il dott. Menichella, indisposto, nella sua abitazione romana. Menichella volle che gli raccontassi un po’ le vicende che la stampa non si stancava di enfatizzare e gliele esposi come è costume verso un confessore. Mi ascoltò con attenzione, mi interruppe solo per chiedere qualche ulteriore chiarimento, manifestò chiari sentimenti di partecipazione ai travagli della Banca e a quelli miei personali. Nel salutarmi volle abbracciarmi: aveva le lacrime agli occhi.

Politica monetaria degli anni Cinquanta

Per affrontare il tema che mi sono proposto di trattare, devo brevemente richiamare il metodo della politica monetaria menichelliana per meglio comprendere i nessi tra la politica bancaria e lo sviluppo economico degli anni Cinquanta. Sul finire del proprio mandato, lo stesso Menichella definì la sua politica monetaria «semplice nei mezzi e parca negli interventi, atta a conferire autonomia e certezza all’operare economico».
Quella politica si avvalse di strumenti descritti con efficacia nel suo discorso alla Società di economia politica di Zurigo nel 1956. Essi si possono compendiare: a) nei controlli diretti; b) nell’allocazione discrezionale del credito della Banca centrale; c) nella persuasione morale; gli ultimi due erano diretti alla singola istituzione creditizia, i primi erano in parte a carattere macroeconomico (riserva obbligatoria), in parte microeconomico (fidi eccedenti).

Politica bancaria degli anni Cinquanta

Il sistema produttivo e quello finanziario italiano erano passati tra gli anni Venti e gli anni Trenta attraverso crisi che condussero a riformulare le “regole del gioco” tra industria e banca, operazione di cui Menichella fu magna pars. Il ruolo dello Stato nell’economia si ampliò non solo per effetto dei salvataggi bancari, ma anche a causa dell’anima protezionistica dell’industria italiana, dell’autarchia che la legittimò politicamente, della dissoluzione del sistema dei commerci e dei pagamenti internazionali, delle esigenze belliche e dei controlli diretti che esse comportano. La fine della guerra e la restituzione del Paese a ordinamenti democratici permisero l’apertura dell’economia al soffio vivificatore del commercio internazionale, ma non la riduzione della proprietà pubblica delle tre banche d’interesse nazionale in mano all’IRI. Come scrisse Menichella al Capitano Andrew Kamarck, «è evidente che, poste le mani su un complesso di oltre 50 miliardi di depositi da parte di gruppi che in Italia non possono reclutarsi nel ceto finanziario, perché detto ceto non esiste, bensì soltanto nel ceto industriale, le banche si rimetterebbero a fare l’industria».
Nonostante che si sia cercato di dare un’interpretazione pro-concorrenziale della politica bancaria di Menichella, la separatezza era funzionale alla stabilità finanziaria, perseguita con decisioni che solo in parte realizzarono il disegno dei primi anni ‘30 e con atti di gestione volti a moltiplicare i centri indipendenti di erogazione del credito.
La Relazione al Capo del Governo del dicembre 1933 proponeva di ridurre a due soltanto le grandi banche a carattere nazionale nel breve periodo, di ridimensionare le loro strutture centrali e periferiche, di ricostruire istituti di credito regionali, di sviluppare il credito mobiliare che era da sottrarre alle grandi banche, ma che era impossibile affidare all’IMI, privo di una struttura periferica; per ampliare e distribuire territorialmente il credito mobiliare si costituirono nel dopoguerra banche di credito finanziario, istituti mobiliari regionali, istituti di mediocredito regionale, per servire le esigenze creditizie delle piccole e medie industrie, si puntò sull’espansione del tessuto di piccole banche attraverso l’autorizzazione a costituire nuove aziende o ad aprire nuovi sportelli. Territorialmente, se ne avvantaggiarono le regioni meridionali.
La preoccupazione per le piccole e medie imprese, che aveva condotto all’epoca della costituzione dell’IRI a istituire accanto alla sezione per gli smobilizzi quella per i finanziamenti, probabilmente l’obiettivo di evitare nuove concentrazioni di potere bancario in grado di attrarre gli insani appetiti dell’industria, la lotta all’usura, piaga meridionale di cui Menichella era ben consapevole, inducevano a disegnare un sistema bancario costituito prevalentemente da piccole aziende di credito; non è un caso che oggi viene premiata la Banca di Cambiano, la più antica banca italiana di credito cooperativo. Le banche “periferiche” erano in grado di capire meglio le esigenze e le ansie dei piccoli operatori e si sentivano più responsabili nell’uso del risparmio, vale a dire – nel gergo attuale degli economisti – che erano in grado di fare una migliore allocazione e di temere un maggiore danno reputazionale rispetto al funzionario di una grande banca.

Il localismo bancario non era certo scevro di problemi, ma esso dava una possibilità a tutte le componenti del variegato territorio nazionale di avere una propria “voce” nel credito e alla Banca centrale, forse, di non accrescere il potere di coalizione delle grandi banche.

Stabilità, crescita e risoluzione dei problemi strutturali

Menichella fu certamente il grande realizzatore di un programma di stabilità nel settore monetario e finanziario. Le aspettative inflazionistiche vennero debellate con la manovra del 1947 e tenute a freno successivamente attraverso una ferma politica di controllo monetario. La stabilità valutaria fu raggiunta mediante l’apertura al commercio internazionale, l’adesione al Fondo monetario internazionale e un’accumulazione di riserve valutarie di dimensioni tali da costituire un sicuro presidio per la difesa del cambio e per una politica di sviluppo, anche se non mancarono accuse di neo-mercantilismo.
Grazie alla radicale riforma pensata tra il 1933 e il 1936, Menichella poté affermare che «in questo secondo dopoguerra […] nessuna banca ha chiesto allo Stato una lira e tutte hanno assolto il compito di finanziare largamente la produzione e gli scambi, ma con metodi corretti in relazione alla loro natura di banche di deposito». Oggi non possiamo non notare che la stabilità bancaria fu anche il risultato di una regolamentazione fortemente invasiva e a carattere economico-strutturale, che i costi bancari ebbero tendenza ad aumentare più dei ricavi e che l’utile netto delle banche passò dal 7,3 per cento del conto economico nel 1949 al 5,5 per cento nel 1960.
Questa stabilità dalle molte dimensioni venne usata per risolvere i problemi strutturali dell’economia italiana: peso ancora troppo forte dell’agricoltura rispetto all’industria e ai servizi, basso tenore di vita della popolazione rurale, elevata disoccupazione e, soprattutto, dualismo territoriale. Alla loro soluzione si poteva attendere solo indirizzando gli investimenti, anche infrastrutturali, nelle direzioni in cui erano più necessari e produttivi. Ciò richiedeva che il processo di crescita vedesse protagoniste anche le piccole imprese accanto alle grandi, molte delle quali erano di proprietà dello Stato, che portasse al riequilibrio tra il Sud agricolo e arretrato e il Nord industrializzato e più ricco; che non fosse interrotto dall’emergere dal vincolo esterno o dallo scoppio di crisi industriali prima e bancarie poi.
Il “miracolo” fu reso possibile sì dalle politiche economiche suggerite o attuate dalla Banca centrale, ma soprattutto dall’intelligenza e dall’impegno di una nuova classe politica e sindacale, dalla collocazione del Paese tra quelli liberi e democratici e dall’assenza di cicli economici internazionali negativi, se si escludono quello coreano e quello, più modesto, che seguì l’avventura franco-britannica di Suez. Tra il 1948 e il 1960, gli anni del Governatorato Menichella, il reddito nazionale lordo in termini reali crebbe del 5,6% l’anno, mentre l’inflazione si aggirò sul 3% annuo.
Dal 1951 al 1958 si sviluppò un circolo virtuoso in cui l’accumulazione di capitale generò una forte crescita della produttività nell’industria, con beneficio per la competitività della nostra produzione e per le sue esportazioni; le moderate rivendicazioni salariali permisero ai profitti di aumentare e di finanziare gli investimenti secondo schemi che non facevano troppo assegnamento sull’indebitamento. In questo periodo, l’accumulazione privata e quella pubblica cercarono di allargare la capacità produttiva, rimediare alle croniche carenze di infrastrutture e di abitazioni nei centri industriali divenuti punti di arrivo delle migrazioni interne, chiudere o almeno ridurre il divario tecnologico dell’economia italiana rispetto a quelle più avanzate. Alla grande industria venne di fatto affidato il compito, grazie anche ai prestiti degli Stati Uniti, di importare i modelli produttivi americani, compresi quelli relativi alle relazioni industriali; le partecipazioni statali furono indirizzate verso i settori ad elevata intensità di capitale o ad alto rischio, come quelli del petrolio e dell’acciaio.
La media e piccola industria scelse di specializzarsi nei semilavorati necessari alle grandi imprese, mentre quella produttrice di beni di consumo continuò a sopravvivere grazie al basso costo del lavoro e al boom dei beni durevoli. Il processo di industrializzazione e l’apertura commerciale verso l’estero furono alla base della crescita che si svolse senza strappi per l’assenza di shock esterni rilevanti, per la relativa pace sociale seguita alle crisi di riconversione tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio dei Cinquanta e per una lungimiranza delle politiche economiche perseguite.
Una pietra miliare fu nel 1950 la costituzione della Cassa del Mezzogiorno, alla quale Menichella contribuì personalmente, grazie anche alle insistenze della Banca Mondiale, desiderosa di avere un interlocutore unico. Il nuovo ente riuscì non solo a convogliare un volume di risorse più rilevante e più rispondente ai bisogni di regioni troppo a lungo neglette, ma soprattutto riuscì a dare unitarietà di disegno ad interventi disparati. Si puntò sulle infrastrutture, non solo nel settore agricolo ma anche in quello delle opere pubbliche; in tal modo si pensava di porre le basi per l’industrializzazione del Sud alla quale la Banca Mondiale era favorevole. Quando quest’ultima, parecchi anni dopo, fu forzata attraverso gli obblighi d’investimento alle partecipazioni statali e la concessione di fiumi di crediti agevolati, si risolse in un fallimento, anche per il mutamento nei prezzi relativi seguiti al primo shock petrolifero.
Negli ultimi anni del Governatorato Menichella si ebbero fatti di rilevanza internazionale, come la convertibilità esterna della lira e la firma del Trattato di Roma per la formazione del Mercato comune europeo; per l’Italia si ebbe un’interazione tra gli effetti derivanti dal Mercato comune e la domanda interna tale da portare per la prima volta il Paese durante il periodo 1958-1963 vicino alla piena occupazione, sia pure squilibrata settorialmente e soprattutto territorialmente. Per i suoi connotati economici e per l’assunzione di responsabilità nella gestione della crisi che concluse il ciclo questa fase appartiene al Governatore Carli.
I tempi economici erano mutati: il vincolismo economico era sempre meno efficace e soprattutto non più in linea nel medio periodo con l’integrazione europea e internazionale. I tempi politici erano cambiati: il dialogo con i socialisti stava per dare vita al centro-sinistra. Il suggello di un Governatorato che aveva fatto della stabilità la propria missione fu l’attribuzione dell’Oscar alla lira. Prendendo a pretesto il compimento dei 65 anni di età, Menichella si ritirò a vita privata.


Mutamenti nella struttura monetaria, bancaria e finanziaria negli anni 1993-2003

Se guardiamo all’ultimo decennio o poco più, gli avvenimenti istituzionali maggiori sono stati la sostituzione dell’unità monetaria nazionale con l’euro e l’affidamento della politica monetaria da parte dei 12 Paesi dell’Unione alla Banca centrale europea. Questa istituzione ha nel proprio statuto l’obbligo prioritario di perseguire la stabilità dei prezzi, usa strumenti volti ad influenzare il costo del denaro e le aspettative inflazionistiche attraverso il mercato monetario in modo indifferenziato, applica una riserva obbligatoria con aliquota modesta (2%), non dispone di un tasso di sconto e non pratica alcuna persuasione morale al livello di singolo intermediario. Siamo in un mondo che è agli antipodi di quello menichelliano.
Un richiamo alle forze che hanno promosso la trasformazione del sistema bancario italiano e, mutatis mutandis, di quello europeo negli anni Novanta, è indispensabile. In primo luogo, vi fu un completamento del processo di deregolamentazione e una riregolamentazione; da pervasivi controlli diretti si passò piuttosto rapidamente a pochi vincoli indiretti, da una vigilanza di tipo strutturale ci si mosse verso una a carattere prudenziale, imperniata a livello micro sul capitale delle banche e a quello macro sullo sviluppo e sull’efficienza dei mercati; in definitiva, la discrezionalità lasciò (quasi tutto) il campo a regole prefissate e generali. La riregolamentazione ha seguito il sentiero tracciato dalla Seconda Direttiva Bancaria della Comunità e la moneta unica ha acuito il bisogno di unificare il mercato finanziario europeo, cui si sta attendendo anche con l’ausilio delle proposte del Gruppo Lamfalussy.
In secondo luogo, va sottolineata l’innovazione tecnologica; la TIC ha trasformato profondamente le funzioni di produzione, soprattutto nei settori come quello bancario e finanziario in cui il processo si esaurisce nella manipolazione dell’informazione acquisita e nella restituzione dei risultati. L’innovazione finanziaria, favorita da quella tecnologica, ha beneficiato soprattutto dello sviluppo di mercati in cui attraverso prodotti derivati si domanda e si offre copertura contro i rischi più svariati.
Da ultimo, in Italia e anche all’estero si è avuta una forte spinta alla privatizzazione, che ha riguardato non solo le industrie e le imprese di pubblica utilità, ma soprattutto le banche. Rispetto al 1992, gli enti pubblici e le fondazioni che hanno una maggioranza uguale o superiore a quella assoluta nel capitale di una banca hanno ridotto la propria quota di partecipazione nel totale delle attività bancarie dal 68 al 10%; il numero di banche e di gruppi il cui capitale appartiene per oltre il 50% alle fondazioni è sceso al 19. Quattordici fondazioni detengono ancora partecipazioni nei primi cinque gruppi bancari e nove sono presenti con quote superiori al 5% nel capitale della banca partecipata.
Gli anni Novanta hanno visto non solo in Europa, ma soprattutto in America, in concomitanza con la crescita vertiginosa dei corsi azionari e di una domanda di alti rendimenti da parte degli azionisti, una vera esplosione di fusioni e acquisizioni, dovuta anche agli incentivi dati ai vertici aziendali. La ristrutturazione del sistema bancario italiano negli ultimi anni è stata ben più intensa di quella di altri Paesi dell’Unione europea. Questa notevole attività di concentrazione, che Menichella avrebbe visto probabilmente come il fumo negli occhi, fa sorgere alcuni interrogativi, tra cui: a) poiché l’apparato produttivo italiano è basato sulla piccola e sulla micro dimensione, il processo di concentrazione ha influito o potrà influire negativamente sul suo finanziamento e quindi sulla sua capacità di sviluppo? b) il fallimento del sistema bancario “indigeno” nel Mezzogiorno e l’arrivo di banche del Centro-Nord hanno avuto conseguenze positive o negative sullo sviluppo di un’area meno avanzata?

Concentrazione del sistema bancario e finanziamento delle piccole imprese

Per le piccole e medie imprese il finanziamento bancario è di fatto l’unico canale per ottenere risorse dall’esterno; nell’Unione europea si manifesta con un accentuato pluriaffidamento. Negli scaglioni più bassi e per alcune aree del Paese è presumibile che prevalga un relationship banking, che si esprime non necessariamente con l’unicità del rapporto, ma soprattutto con metodologie non standardizzate e non formalizzate per la valutazione e per la gestione del fido da parte della piccola banca locale. Poiché la struttura delle micro imprese si è ulteriormente polverizzata, è probabile che l’opacità della loro struttura amministrativo-contabile permanga inalterata e che la lettura delle loro potenzialità sia affidata più all’intuito che al giudizio del piccolo banchiere. Perciò, nonostante le rassicurazioni ufficiali, gli accordi di Basilea II suscitano ancora qualche timore.
Se sul versante del credito si hanno processi di consolidamento di ampie dimensioni, che in Italia hanno interessato particolarmente le piccole e le medie aziende di credito, sembra giustificato il timore di un razionamento o di un aumento dello stesso nei confronti delle piccole imprese per effetto di mutate metodologie nella valutazione e nella gestione dei rischi. Gli effetti delle concentrazioni bancarie sui prestiti alle piccole imprese sono stati studiati approfonditamente nel nostro Paese, oltre che negli Stati Uniti. Secondo queste ricerche, ciò che conta è l’effetto sul credito complessivo alle piccole imprese e sulla valutazione del rischio che esse rappresentano; il primo non diminuisce per l’effetto di rimpiazzo di banche nuove o non interessate da operazioni di consolidamento, la seconda comporta una lieve diminuzione del credito erogato ai debitori di peggiore qualità. Anche quando dall’M&A si ottengono guadagni di efficienza, ne derivano un turbamento dei rapporti consolidati e un aumento della percezione di razionamento.

Scomparsa del sistema bancario “indigeno” e sviluppo del Mezzogiorno

La struttura produttiva del Mezzogiorno è ancor più frammentata di quella del Centro-Nord e il processo di consolidamento ha interessato soprattutto la prima area. Negli anni Ottanta si ebbe la chiusura della Cassa del Mezzogiorno; in quelli Novanta la svalutazione della lira, il processo di rientro dall’inflazione, l’interruzione dei trasferimenti pubblici a favore delle imprese meridionali crearono insolvenze che si ripercossero sulle banche che maggiormente le avevano sovvenute; non v’è da meravigliarsi che vi sia stato un sarcastico invito ad abolire il Mezzogiorno… La cattiva qualità degli attivi e gli alti costi del personale indussero le autorità monetarie a liquidare alcuni istituti con oneri a carico della collettività e a promuovere l’acquisizione delle principali banche meridionali da parte di istituti del Centro-Nord. Tra il 1990 e il 2001, le banche con sede legale nel Sud si ridussero della metà e gli attivi bancari passati sotto il controllo di banche del Centro-Nord ammontarono ai due terzi del totale.
Il trasferimento della proprietà di buona parte degli intermediari meridionali al di fuori dell’area ha indotto il timore di una distruzione del patrimonio informativo, soprattutto soft, delle banche locali passate di mano e di un aumento del potere di mercato delle banche ridottesi nel numero, ma cresciute nella dimensione. Tra il 1986 e il 1992, il differenziale nel costo del credito tra Nord e Sud si ridusse da 2,2 a 1,7 punti percentuali, aumentò sino a 2,3 negli anni centrali del decennio per le acuite difficoltà dell’economia meridionale, per scendere successivamente e attestarsi intorno all’1,6% nel 2001. Esso si riduce di quasi un punto se si omogeneizza la dimensione e la composizione settoriale delle imprese meridionali a quelle del Nord; correggendo i dati per il rischio, il differenziale scende di qualche decimo di punto nel 2001 (da 1,6 a 1,3 circa).
Le ragioni che spiegano questo maggior rischio sono tristemente note e vanno dalla condizione dell’ordine pubblico alla carenza di infrastrutture, cui si aggiunge la maggiore lentezza della giustizia civile che riduce l’offerta di credito alle imprese e anche alle famiglie. Ovviamente, la sensazione degli imprenditori meridionali è un po’ diversa; essi ritengono, tra l’altro, che si sia ampliato il razionamento del credito e che i vincoli finanziari siano divenuti più stringenti. Tra gli studiosi, v’è chi afferma che l’eventuale aumento dell’efficienza operativa per effetto di questa trasformazione non si è tradotta in benefici per l’economia meridionale, che affonda sempre più nel sommerso.
Sulla base di recenti ricerche, l’inefficienza del sistema bancario ha un’influenza negativa sulla crescita del PIL della circoscrizione in cui opera, mentre il tasso di crescita dell’economia locale aumenta in modo significativo se s’innalza la probabilità che un individuo, tenuto conto delle sue caratteristiche, ottenga credito dal sistema bancario locale. Alle banche si richiede, come è noto, una duplice efficienza, quella gestionale e quella allocativa (o territoriale) che contribuisce allo sviluppo dell’economia e della società; nelle regioni bancariamente evolute le due procedono di pari passo, in quelle più arretrate è più difficile che ciò accada, anche se obiettivamente più necessario. In passato, per migliorare l’efficienza allocativa si procedeva a modificare la funzione obiettivo dei soggetti che producono l’esternalità attraverso la proprietà pubblica oppure introducendo incentivi e disincentivi mediante imposte, sussidi o vincoli regolamentari. Da tempo la privatizzazione e la regolamentazione prudenziale sono a presidio dell’efficienza e della stabilità del sistema.
Sempre secondo queste ricerche, allo sviluppo dovrebbe pensare una forza debole, la persuasione morale delle autorità monetarie e di vigilanza, per giunta prive oggi degli antichi poteri autorizzativi, in un contesto in cui la copertura dei rischi e la massimizzazione dei profitti di breve periodo sono diventate le nuove parole d’ordine per banche sempre più integrate nel mercato finanziario.
Da parte di alcuni commentatori si teme negli ultimi tempi che le grandi banche internazionali stiano diventando una sorta di hedge fund e si domandano perché le banche d’investimento vogliano acquistarne. A questo estremo si contrappone un altro: la scoperta da parte di un ex ministro dell’Economia e delle Finanze che il Mezzogiorno è ormai privo di una banca autoctona e che questa è essenziale per rilanciare lo sviluppo del territorio; sarebbe stato sufficiente richiamare gli insegnamenti di Menichella e i risultati, tutt’altro che univoci, delle ricerche empiriche al riguardo.


Conclusioni

Il tasso di sviluppo del RNL a prezzi costanti nel decennio 1994-2003 si è ridotto all’1,36%, quello per il quadriennio 2000-2003 è stato dello 0,88% soltanto, la chiusura del divario economico tra Nord e Sud si è sostanzialmente arrestata, sebbene l’economia sia stata alquanto liberalizzata e fortemente privatizzata, l’intervento pubblico si sia concentrato di preferenza sulla fissazione delle regole e sulla sorveglianza per il loro rispetto, ogni commistione tra politica monetaria e finanziamento pubblico sia stata eliminata, la politica monetaria abbia scelto come stella polare la stabilità dei prezzi e come timone per la rotta il tasso d’interesse.
Tuttavia, i risultati in termini di crescita sono ben inferiori a quelli che si ebbero tra il 1950 e il 1963 (tasso medio del 5,8% del RNL a prezzi costanti), quando l’economia era mista e la parte pubblica sembrava destinata a comprimere ulteriormente quella privata, i cartelli erano diffusi e nel caso del credito ritenuti di pubblica utilità, le posizioni dominanti erano ben presenti e non soggette al controllo di alcuna autorità, la politica monetaria e quella bancaria utilizzavano strumenti di controllo diretto, insieme con la persuasione morale verso le singole componenti del sistema bancario. Era questa certamente un’economia più confacente alla mentalità di servitore dello Stato, di manager pubblico, scevra da presupposti ideologici, che Menichella aveva sviluppato nei suoi vari incarichi, prima di assumere il Governatorato della Banca d’Italia.
Menichella preservò la stabilità monetaria e la estese al cambio e agli assetti bancari. Il suo vero obiettivo divenne lo sviluppo e il riequilibrio territoriale; conseguì brillantemente il primo e avviò con decisione il secondo. Oggi, purtroppo, ci troviamo ad affrontare gli stessi problemi, ma in un contesto completamente diverso, tanto che il pronosticato secondo miracolo non si è affatto materializzato.
Dobbiamo concludere che si stava meglio quando si stava peggio sotto il profilo della libertà economica? Certamente no, ma non dobbiamo dimenticare che la storia segue vie misteriose, quasi mai prevedibili, e che l’economia non ha ancora trovato il paradigma che spiega la ricchezza delle nazioni a prescindere dal contesto e dagli uomini che lo interpretano. Tornano così alla mente le parole di Amleto:

There are more things in heaven and earth,
[Horatio,
Than are dreamt of in your philosophy.

   
   
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