Marzo 2005

L’italia / Gli italiani

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La cultura antiriformista
Piero Ostellino  
 
 






Non c’è un solo italiano che sia soddisfatto di come, da sempre, vanno le cose nel suo Paese. Ma chiunque manifesti
l’intenzione di cambiarle, finisce impallinato come lestofante.

 

Fra le aberrazioni della nostra cultura collettivista e dirigista c’è la convinzione che diritti soggettivi naturali (alla vita, alla libertà, alla proprietà) e diritti sociali (alla copertura pubblica dei bisogni collettivi, quali la scuola, la sanità, le pensioni) siano incompatibili e che, per tutelare i diritti sociali, sia necessario limitare i diritti soggettivi. Di qui la subordinazione di questi ultimi all’utilità sociale, all’interesse collettivo, al bene comune e quant’altro. La convinzione ha prodotto una triplice distorsione, al tempo stesso concettuale e politica.
Prima: l’identificazione/assimilazione fra idea di benessere e idea di libertà; quest’ultima non dipenderebbe dall’assenza di impedimento e di coercizione, ma dal possesso di determinate risorse. Seconda: il conseguente snaturamento del concetto di welfare; che assume, di conseguenza, il carattere di pre-condizione della libertà “sostanziale” (economica e sociale prima che politica) rispetto a quella “formale” (costituzionale) liberale. Terza: l’attribuzione al sistema fiscale di una funzione sociale, egualitaristica, attraverso l’equa “redistribuzione” della ricchezza prodotta.
In realtà, più benessere non genera più libertà. Chi dorme al Grand Hotel non è più libero di chi dorme sotto i ponti. E’ pur vero che un detto “progressista” dice che la sola libertà che hanno i meno abbienti è proprio quella di dormire sotto i ponti. Ma, a ben vedere, la stessa libertà ce l’hanno anche i più abbienti, quelli che dormono al Grand Hotel. La sola differenza fra i due è che questi ultimi dormono più confortevolmente; non che godono di una maggiore libertà. Il problema di una società “aperta” e competitiva è, allora, di fare in modo che tutti possano dormire in un letto, non che tutti dormano al Grand Hotel o tutti sotto i ponti, secondo una concezione utopisticamente egualitaristica e illiberale della convivenza civile.

Il welfare non è, dunque, un valore assoluto, come la libertà, né il presupposto di una libertà superiore, quale sarebbe quella “sostanziale”, ma è un “servizio” o, se si preferisce, uno “strumento”, di natura economico-sociale, col quale combattere puramente e semplicemente la povertà. L’accezione di “sociale”, peraltro, può assumere, nel tempo, connotazioni nuove e diverse. «All’idea che il “sociale” corrisponda alla copertura pubblica dei bisogni collettivi – ha scritto Giuseppe De Rita – comincia infatti a contrapporsi una seconda idea, per cui il sociale starebbe nell’accesso popolare a beni e servizi resi meno costosi dal mercato e dalla concorrenza».
In tale contesto, poiché la sola funzione del sistema fiscale è il reperimento delle risorse necessarie a coprire il fabbisogno di beni collettivi – oltre tutto in continua evoluzione nel tempo –, è la spesa pubblica che dovrebbe essere rapportata agli introiti, non sono questi che dovrebbero inseguire quella, come accade ora. Con le pessime conseguenze sul bilancio dello Stato, che sono sotto gli occhi di tutti. La riduzione della pressione fiscale, che oggi è percepita, e perciò ostacolata dalle rappresentanze dei lavoratori come un pericolo di ridimensionamento del welfare, diventa, così, a sua volta, prima ancora che un provvedimento di carattere economico, un “fatto di libertà”. La libertà del cittadino di disporre a proprio piacimento di una porzione maggiore del proprio reddito; reddito che lo Stato amministra oggi a propria discrezione e non sempre in modo oculato.
Ci sono parole che, da noi, il tempo, nonché l’uso improprio che se ne è sistematicamente fatto, hanno logorato fino al punto di stravolgerne del tutto il significato originario. Una di queste parole è “dialogo”, che, nel lessico della classe politica, non è più disponibilità a conoscere le ragioni del prossimo, ma è diventata (quasi) sinonimo di appeasement, cioè inclinazione, per quieto vivere, a fare concessioni all’aggressore. Un’altra è “confronto”, cui la nostra classe politica ricorre per rifiutare, e surrogare, il conflitto sociale, negando che esso sia pur sempre la forza propulsiva di ogni società aperta. In nessun’altra lingua c’è la parola “liberismo”, che in italiano serve ancora per distinguere il liberalismo economico dal liberalismo politico, come se le libertà economiche non fossero una delle componenti di quelle politiche. Ma quando la sua classe dirigente, politica e no, cerca di esorcizzare, negandola, la realtà, sostituendo il significato originario delle parole con una sorta di “neo-lingua di legno”, rifugiandosi nel culto del passato e nella difesa dello statu quo, un Paese è destinato a declinare e, quel che è peggio, rischia di declinare in modo irreversibile. E’ esattamente ciò che sta accadendo all’Italia.
Abbiamo una classe dirigente che, a tutti i livelli, “pensa vecchio”, perché concettualmente è prigioniera di una cultura che si chiede (filosoficamente) “perché” le cose avvengano, e non “come” (empiricamente) avvengano; una cultura, cioè, che giudica prima di “capire”, fatta per filosofeggiare anziché “per fare”. A differenza degli anglosassoni, noi continuiamo a guardare al mondo “per categorie ideologiche” (giustizia, eguaglianza, sviluppo), mutuate dal secolo dell’idealismo trionfante, dei totalitarismi di destra e di sinistra che abbiamo combattuto e ripudiato, conservandone però, singolarmente, il lessico. Loro, gli anglosassoni, non hanno mai smesso di guardare al mondo “per problemi concreti” (issues) ai quali conferiscono priorità politica a seconda delle circostanze. Così, noi, dopo non aver capito, ieri, che il comunismo era una religione truccata da programma politico, non capiamo, oggi, che il fondamentalismo e l’integralismo islamici sono un programma politico truccato da religione.

Per inventare il moderno welfare – con Beveridge, un liberale! – la Gran Bretagna non ha avuto bisogno, come invece abbiamo fatto noi, di stravolgere le libertà “negative” del liberalismo (libertà da, come non impedimento), vincolandole e subordinandole alle libertà “positive” della democrazia (libertà di, come opportunità). Semplicemente non ha confuso, bensì li ha tenuti correttamente separati, il concetto di libertà con quello di benessere. L’incapacità di operare una reale inversione di tendenza in politica interna; la passiva subordinazione agli interessi altrui in politica estera; il rifiuto di aggiornare alle domande del nuovo secolo appena incominciato – il secolo dell’individuo, del mercato, dell’internazionalizzazione e della globalizzazione dell’economia – le istituzioni e l’organizzazione sociale; il mantenimento di un sistema economico statalista e protezionista sono, al contrario, la prova del ritardo culturale, prima ancora che politico, della nostra classe dirigente nel camminare con i tempi.
D’altronde, all’inerzia della classe politica fa riscontro la pressoché assoluta assenza di capacità di elaborazione teorica da parte del mondo intellettuale. Che rimane la “musa cortigiana” del Principe, di cui canta i molti vizi più volentieri di quanto non coltivi le poche virtù. Nessuno, così, sembra in grado di produrre un modello di organizzazione che garantisca al tempo stesso le libertà individuali e la crescita economica.
Non c’è un solo italiano che sia soddisfatto di come, da sempre, vanno le cose nel suo Paese. Ma chiunque manifesti l’intenzione di cambiarle, o sia anche solo sospettabile di riformismo e di avere le potenzialità di governo per farlo, finisce impallinato come lestofante. E’ capitato prima a Craxi, poi a Berlusconi, persino a D’Alema. Cari concittadini schizofrenici che, da un lato, vi lamentate e, dall’altro, sparate sul riformista di turno, vero o virtuale che sia, vi siete mai chiesti perché? E, soprattutto, perché provarsi a cambiare realmente le cose, prospettare teoricamente di volerle cambiare, dare semplicemente la sensazione di esservi propensi è sufficiente a suscitare la stessa, belluina reazione? Una prima risposta, che attiene alla sfera degli interessi, l’ha già data Machiavelli cinquecento anni fa: «Niente è più difficile da maneggiare, meno probabile dall’avere successo, o più pericoloso da gestire, che proporsi come chi vuole realizzare un nuovo ordine. Quelli che traevano beneficio dal vecchio ordine gli sono nemici e quelli che potranno godere dei benefici del nuovo gli sono tiepidi difensori».
A integrazione della risposta di Machiavelli, una seconda risposta, che attiene alla sfera delle convinzioni, ve la do ora io: perché la cultura del cambiamento, che è, poi, quella dell’alternanza democratica al potere, vi è estranea. Voi non siete riformisti perché non siete democratici. E non lo siete perché la cultura dominante è tuttora condizionata dall’assunto, che sta alla base dello Stato etico (e reazionario), secondo il quale «ciò che è reale è razionale». Insomma: che piaccia o no, una “coda” del passato resta nell’inconscio collettivo.
C’è – ho scritto in un editoriale sul Corriere della Sera – una forma di egemonia di cui nessuno parla, ma che mortifica il cittadino e rallenta la modernizzazione del Paese. A sessant’anni dalla caduta del fascismo – e a quindici dalla crisi del comunismo internazionale – la cultura politica dominante, la natura dell’Ordinamento giuridico, la struttura socio-economica sono ancora collettiviste, stataliste, dirigiste, corporative: in una parola, illiberali. L’Italia conserva dell’autoritarismo fascista e del totalitarismo comunista il pregiudizio ideologico e le chiusure socio-politiche e socio-economiche nei confronti dei diritti soggettivi naturali della Persona. L’innesto, nell’immediato dopoguerra, della cultura collettivista marxista sul tronco corporativo fascista ha addirittura peggiorato le cose. I due estremi si sono incontrati in una concezione organicistica della società.
L’Ordinamento giuridico non si fonda sull’individuo, bensì su un’astrazione collettiva, “il lavoro” (art. 1 della Costituzione). Esso riconosce i diritti dell’uomo, ma gli chiede anche «l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» (art. 2). Il “diritto al lavoro” si accompagna al «dovere di svolgere […] un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società” (art. 4) ed è vincolato a «un esame di Stato […] per l’abilitazione all’esercizio professionale» (art. 33). Persino «la libertà di emigrazione» è subordinata all’«interesse generale» (art. 35). «L’iniziativa economica privata è libera», ma «non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale» (art. 41), così come «la proprietà privata e riconosciuta e garantita dalla legge, che […] ne determina i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale» (art. 42).

Poiché è chi detiene il potere costituito a stabilire cosa siano «il progresso della società», «l’interesse generale», «l’utilità e la funzione sociale», non è difficile coglierne le potenzialità illiberali. Al pari dell’ “edificazione del socialismo” in Unione Sovietica e della “gloria della nazione” nell’Italia fascista, sono un limite che il potere pone all’esercizio delle libertà individuali. Gli Ordini professionali ne sono la proiezione socio-economica. Il frutto avvelenato dell’incestuosa alleanza fra società politica e società civile, entrambe ostili al mercato. Mandati in soffitta Karl Marx e Giovanni Gentile, i post-marxisti e i post-gentiliani si sono limitati a sostituire il comunismo e il fascismo con una sorta di neo-comunitarismo; il quale altro non è che la versione edulcorata, ma ugualmente anti-individualista, di entrambi.
Anche quel po’ di liberalismo che è riuscito ad aprirsi un varco nell’egemonia autoritaria e totalitaria – quello tradotto dal tedesco da Benedetto Croce – è anti-individualista, permeato com’è di hegelismo. Per Croce lo Stato non è il garante dei diritti individuali (compresa la proprietà), ma la sede di valori etico-politici che trascendono storicamente l’individuo.
«Nell’indifferenza crociana verso le istituzioni politiche entro le quali si sarebbe realizzata la libertà, e nell’affidarla a un processo storico – la “religione della libertà” – si assiste così ad un’altra singolare estraneazione dalla tradizione liberale la quale, al contrario, ha da sempre posto l’attenzione sulle istituzioni intese come garanzie delle libertà individuali» (R. Cubeddu). Così, la Costituente, monopolio di marxisti, gentiliani, crociani, ha prodotto, ieri, la Costituzione che continuiamo anacronisticamente a celebrare, e alla cui riforma si oppongono, oggi, i post-marxisti e i post-gentiliani. Accomunati nella teologica (e teleologica) avversione per il liberalismo.
Scrive il presidente del Senato, Marcello Pera: «Una bella Costituzione democratica che fosse scritta da chi pretendesse di sapere che cos’è la virtù per ogni cittadino o gruppo o classe, di conoscere qual è il bene per ciascuno, di insegnare come ciascuno deve essere felice, di comprendere e prevedere qual è l’assetto sociale ottimo o migliore, di stabilire la “giusta” ricompensa, il “giusto” salario, il “giusto” canone, insomma, una Costituzione che stabilisse che cosa è la giustizia nella società, resterebbe una Costituzione perniciosa, anche se democratica e scritta da democratici».
La funzione della politica è, per il presidente del Senato, come per Hume e Kant, conseguente: «Se l’ordine nasce da sé, se la bellezza si produce da sola, allora il politico non deve più, alla maniera di Platone, contemplare e poi attuare un ordine preesistente. Piuttosto, il politico deve facilitare l’emergere di un ordine spontaneo, impedendo quelle indebite interferenze che ostacolano la libertà degli individui e l’evoluzione spontanea della società civile». Che non significa, peraltro, arrendersi al relativismo culturale oggi di moda: «Poiché, si argomenta, le verità ultime sono irraggiungibili, allora – scrive ancora Pera – la verità non esiste; poiché i valori non sono razionalmente giustificabili, allora sono solo costumi con nessun’altra dignità se non quella della loro accettazione provvisoria, poiché un criterio unico o un tribunale unico di fronte al quale portare tutte le culture, misurarle e valutarle non è raggiungibile, allora ogni cultura è buona quanto qualunque altra». Ma in tal modo, egli conclude sotto il profilo politico, «non si hanno più armi culturali e politiche per difenderci quando un’altra cultura o un’altra civiltà definita equipollente dovesse attaccare la nostra».
Giuseppe Galasso mi ha rimproverato di non aver ricordato il contributo cattolico alla stesura della Costituzione. Galasso ha ragione di rammaricarsi per la mancata citazione; sbaglia a parlare di contributo “positivo” dei cattolici. A fare da collante fra il corporativismo fascista e il collettivismo marxista in funzione anti-individualista non furono i cattolici liberali, bensì i “professorini” catto-comunistoidi – Dossetti, La Pira, Moro, Fanfani e altri – per i quali la libertà non era un fine, ma un mezzo (Dossetti), e la solidarietà non uno «spontaneo moto dell’animo», ma un obbligo di legge (La Pira). De Gasperi lasciò correre. Da un lato, nella convinzione che gentiliani, marxisti e catto-comunisti si sarebbero impiccati con la loro stessa corda, producendo una Costituzione non “per governare”, bensì per “impedire di governare” a chiunque avesse poi vinto le elezioni (che il leader democristiano non era sicuro di vincere). Dall’altro, preoccupandosi di cacciare, soprattutto, i comunisti dal governo. Fu, dunque, “la forza delle cose” – l’inserimento dell’Italia nel campo occidentale e la conventio ad escludendum nei confronti del PCI– a favorire quel progresso economico e civile di cui parla Galasso. Non la Costituzione, ai cui effetti “paralizzanti” lo stesso De Gasperi, scongiurato il pericolo comunista, avrebbe, poi, cercato invano di porre rimedio con la proposta di legge maggioritaria del 1953.
Già Arturo Carlo Jemolo, un grande cattolico liberale che dichiarava di preferire lo Statuto albertino perché più serio, scriveva: «Questa verbosità della Costituzione, questo frequente ricorso a formule vaghe […] riverberano su tutta la Carta una nota di indeterminatezza, di pressappochismo che non giova» e – aggiungeva – «nulla hanno di giuridico». A porre limiti alla proprietà privata e all’iniziativa economica bastano, empiricamente, le leggi ordinarie, le quali condannano chi, sulla sua proprietà, inquini l’ambiente o chi, con i prodotti della sua azienda, avveleni il suo prossimo.

   
   
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