Marzo 2005

L’Italia del Censis

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Furbastra o saggia?
Giuseppe De Rita  
 
 








Siamo un popolo saggio perché
capace di
assestarsi sulle sue radici di sempre, avvertite come
terreno solido
nei periodi
di fibrillazione.

 

Ogni volta che qualcuno meritoriamente si applica ad approfondire la sostanza reale della società italiana, scatta la compresenza spesso polemica fra i due paradigmi interpretativi che ci accompagnano ormai da decenni: da una parte quello che ci vuole una nazione labile, insicura e piuttosto furbastra; dall’altra parte, il paradigma secondo cui al fondo delle nostre insicurezze e furbizie resta operante un popolo saggio, che sa badare a se stesso.
Questa contrapposizione è stata negli ultimi anni accresciuta dalla tentazione di una parte della cultura politica italiana di sfruttare anche da noi quel concetto di “right nation” che ha molto corso negli Stati Uniti e che ha molto giocato nelle ultime elezioni presidenziali, anche perché reso potente dalla sua molteplicità semantica, potendo essere interpretato come nazione giusta, di destra, convinta di avere sempre ragione, determinata a fare destino nazionale collegando memoria e futuro. Applicarlo all’Italia potrebbe aprire uno spazio di volontarismo politico teso a corrispondere anche al bisogno delle masse di non restare senza guida e destino nazionali.

L’operazione riuscì ai nostri padri risorgimentali, perché seppero far vivere il passato in un sogno di futuro, connettendo le citazioni petrarchesche di Leopardi all’unificazione del Paese e alle ambizioni coloniali crispine; ma i loro figli e i loro nipoti non ci sono riusciti, e da tempo ormai non sappiamo fare quella coniugazione fra memorie e speranze che è elemento costitutivo di una nazione. Restiamo un popolo senza nazione.
La cosa non dovrebbe scandalizzare se si pensa al peso che i “popoli” (dagli irpini ai liguri) hanno avuto nella lunga storia italiana; e se si pensa che il modello di sviluppo degli ultimi cinquant’anni è stato poco di nazione compatta e molto di popolo; legato cioè non alla progettualità di pochi, ma ai comportamenti vitali di milioni e milioni di italiani, che hanno fatto piccola impresa, lavoro autonomo, mobilità territoriale, soggettività dei consumi, famiglia come azienda, diffuso sviluppo locale. Con ciò però abbiamo accentuato la nostra dimensione di popolo e al tempo stesso quella caratteristica molecolare, a granelli di sabbia, che ci rende tutti prigionieri delle nostre solitudini, paure, insicurezze, preoccupazioni, di cui troviamo conferma quando le ricerche esplorano le nostre individuali opinioni.
Per fortuna in questa nazione labile vive anche un popolo saggio, che è la corretta traduzione italiana di quell’ebraico “goy tzadik” che in America era stato prima tradotto come “rightous”, politicamente poi strumentalizzato nel termine semplificato di “right”. Siamo un popolo saggio perché adattivo e quindi elastico di fronte all’accavallarsi di crisi e sfide; perché capace di assestarsi sulle sue radici di sempre (il sommerso, la piccola impresa, l’innovazione di processo e di prodotto, il localismo), avvertite come terreno solido nei periodi di fibrillazione, come è avvenuto negli ultimi due anni di annaspamento di fronte all’aumento, percepito come raddoppio, del costo della vita; perché capace di sfruttare alcune sue ambigue componenti (il peso del sommerso, dell’evasione fiscale, del cash) per orientare il flusso di ricchezza verso un aumento di solidità e sicurezza patrimoniali; perché nei consumi ha recuperato modelli di oculata scelta e di sobrietà rispetto al rampantismo del recente passato; perché ha sviluppato un ritorno alla socializzazione comunitaria negli insediamenti minori (la rientranza nel carisma dei borghi di cui ha scritto Mario Luzi); perché non nasconde la delicatezza delle sfide che cominciano ad affacciarsi all’orizzonte con il disagio derivante dal ritorno degradato del sacro o dalla indifferenza etica proclamata dall’autoreferenzialità della tecnica; perché capisce con sempre maggiore chiarezza che la classe dirigente nasce dalle competenze e non dalle smanie di vera o presunta eccellenza; perché sa che un governo policentrico è più coerente di una verticalizzazione elitaria per guidare un sistema ad arcipelago, qual è il nostro.

Certo, ognuno di questi elementi di saggezza presenta anche elementi di potenziale pericolo. Ma meglio gestirla che combatterla, questa ambivalenza della saggezza, visto che nel complesso essa ci rende solidi, ben piantati sulle nostre identità più vere.
Scegliere allora se dar corpo ad un rilancio di un destino nazionale o se applicarci all’accompagnamento della dinamica del popolo saggio è sfida cruciale della nostra classe dirigente nei prossimi anni. Fosse per me, mi dedicherei al popolo saggio che sa badare a se stesso; ma alle mie ambizioni di leadership si oppone ormai il saggio anagramma del mio cognome: “E’ tardi”.

   
   
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