Siamo un popolo saggio perché
capace di
assestarsi sulle sue radici di sempre, avvertite come
terreno solido
nei periodi
di fibrillazione.
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Ogni volta che qualcuno meritoriamente si applica ad approfondire
la sostanza reale della società italiana, scatta la compresenza
spesso polemica fra i due paradigmi interpretativi che ci accompagnano
ormai da decenni: da una parte quello che ci vuole una nazione labile,
insicura e piuttosto furbastra; dall’altra parte, il paradigma
secondo cui al fondo delle nostre insicurezze e furbizie resta operante
un popolo saggio, che sa badare a se stesso.
Questa contrapposizione è stata negli ultimi anni accresciuta
dalla tentazione di una parte della cultura politica italiana di
sfruttare anche da noi quel concetto di “right nation”
che ha molto corso negli Stati Uniti e che ha molto giocato nelle
ultime elezioni presidenziali, anche perché reso potente
dalla sua molteplicità semantica, potendo essere interpretato
come nazione giusta, di destra, convinta di avere sempre ragione,
determinata a fare destino nazionale collegando memoria e futuro.
Applicarlo all’Italia potrebbe aprire uno spazio di volontarismo
politico teso a corrispondere anche al bisogno delle masse di non
restare senza guida e destino nazionali.

L’operazione riuscì ai nostri padri risorgimentali,
perché seppero far vivere il passato in un sogno di futuro,
connettendo le citazioni petrarchesche di Leopardi all’unificazione
del Paese e alle ambizioni coloniali crispine; ma i loro figli e
i loro nipoti non ci sono riusciti, e da tempo ormai non sappiamo
fare quella coniugazione fra memorie e speranze che è elemento
costitutivo di una nazione. Restiamo un popolo senza nazione.
La cosa non dovrebbe scandalizzare se si pensa al peso che i “popoli”
(dagli irpini ai liguri) hanno avuto nella lunga storia italiana;
e se si pensa che il modello di sviluppo degli ultimi cinquant’anni
è stato poco di nazione compatta e molto di popolo; legato
cioè non alla progettualità di pochi, ma ai comportamenti
vitali di milioni e milioni di italiani, che hanno fatto piccola
impresa, lavoro autonomo, mobilità territoriale, soggettività
dei consumi, famiglia come azienda, diffuso sviluppo locale. Con
ciò però abbiamo accentuato la nostra dimensione di
popolo e al tempo stesso quella caratteristica molecolare, a granelli
di sabbia, che ci rende tutti prigionieri delle nostre solitudini,
paure, insicurezze, preoccupazioni, di cui troviamo conferma quando
le ricerche esplorano le nostre individuali opinioni.
Per fortuna in questa nazione labile vive anche un popolo saggio,
che è la corretta traduzione italiana di quell’ebraico
“goy tzadik” che in America era stato prima tradotto
come “rightous”, politicamente poi strumentalizzato
nel termine semplificato di “right”. Siamo un popolo
saggio perché adattivo e quindi elastico di fronte all’accavallarsi
di crisi e sfide; perché capace di assestarsi sulle sue radici
di sempre (il sommerso, la piccola impresa, l’innovazione
di processo e di prodotto, il localismo), avvertite come terreno
solido nei periodi di fibrillazione, come è avvenuto negli
ultimi due anni di annaspamento di fronte all’aumento, percepito
come raddoppio, del costo della vita; perché capace di sfruttare
alcune sue ambigue componenti (il peso del sommerso, dell’evasione
fiscale, del cash) per orientare il flusso di ricchezza
verso un aumento di solidità e sicurezza patrimoniali; perché
nei consumi ha recuperato modelli di oculata scelta e di sobrietà
rispetto al rampantismo del recente passato; perché ha sviluppato
un ritorno alla socializzazione comunitaria negli insediamenti minori
(la rientranza nel carisma dei borghi di cui ha scritto Mario Luzi);
perché non nasconde la delicatezza delle sfide che cominciano
ad affacciarsi all’orizzonte con il disagio derivante dal
ritorno degradato del sacro o dalla indifferenza etica proclamata
dall’autoreferenzialità della tecnica; perché
capisce con sempre maggiore chiarezza che la classe dirigente nasce
dalle competenze e non dalle smanie di vera o presunta eccellenza;
perché sa che un governo policentrico è più
coerente di una verticalizzazione elitaria per guidare un sistema
ad arcipelago, qual è il nostro.

Certo, ognuno di questi elementi di saggezza presenta anche elementi
di potenziale pericolo. Ma meglio gestirla che combatterla, questa
ambivalenza della saggezza, visto che nel complesso essa ci rende
solidi, ben piantati sulle nostre identità più vere.
Scegliere allora se dar corpo ad un rilancio di un destino nazionale
o se applicarci all’accompagnamento della dinamica del popolo
saggio è sfida cruciale della nostra classe dirigente nei
prossimi anni. Fosse per me, mi dedicherei al popolo saggio che
sa badare a se stesso; ma alle mie ambizioni di leadership si oppone
ormai il saggio anagramma del mio cognome: “E’ tardi”.
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