Sicuramente,
l’ultimo triennio ha rappresentato
il periodo più
difficile
dell’economia
italiana in oltre mezzo secolo.
|
|
L’Italia delle province cresce, ma con un passo palesemente
claudicante. Procede, cioè, su due piani del tutto sconnessi,
non coordinati, com’è noto ormai da decenni, per non
dire da un secolo e mezzo a questa parte. Il divario tra Nord e
Sud e il rapporto tra terziario e manifatturiero nel contributo
della ricchezza persistono e condizionano tutte le espressioni della
vita economica, civile e sociale delle vecchie “due Italie”.
E’ quanto emerge dall’ultima indagine Unioncamere-Istituto
Tagliacarne sulla ricchezza delle province italiane.
Analizzando il valore aggiunto pro capite, la provincia di Milano
si conferma in testa alla graduatoria con 30.468 euro, un valore
quasi triplo rispetto all’ultima, Crotone, rimasta ferma a
11.518 euro. L’indicatore di produttività mette in
rilievo i mali storici del Paese: le prime dieci province della
classifica appartengono esclusivamente al Centro-Nord, mentre le
ultime rientrano nel territorio meridionale.
Di queste ultime dieci, nove occupavano la stessa posizione anche
nel 1995, con l’unico scambio tra due aree siciliane, quelle
di Palermo e di Trapani, che è passata all’89°
posto (Palermo è scesa al 96°). L’indagine segnala
inoltre che per incontrare la prima provincia meridionale si deve
scorrere la graduatoria fino al 57° posto, occupato dalla molisana
Isernia con 19.947 euro (comunque, al di sotto della media nazionale),
provincia che nel giro di nove anni ha saputo scalare ben sedici
posizioni. Una fotografia che non stupisce alcuni attenti osservatori,
secondo i quali «si sta svuotando il lago con un cucchiaino»:
non sono sufficienti le risorse, è necessario attrarre investimenti.
Per tenere il passo, il saldo occupazionale del Mezzogiorno dovrebbe
passare dalle 70 mila unità annue attuali ad almeno 300 mila
nei prossimi dieci anni.
Le storiche arretratezze delle regioni meridionali, associate all’apertura
dei mercati internazionali, aggravano gli squilibri territoriali.
Sicché, secondo alcuni economisti, si profila una realtà
diversificata che rende l’intera Italia più debole
dal punto di vista della competitività. Del resto, i mali
maggiori sono arcinoti, e reclamano da troppi anni le cure adatte,
che non arrivano mai. Per sapere esattamente quali sono questi mali,
è sufficiente riprendere in mano gli scritti Cento idee
per lo sviluppo, che Carlo Azeglio Ciampi aveva lanciato quando
era ministro del Tesoro. Lo stesso Capo dello Stato, in tempi recentissimi,
è ritornato sulla «grande questione nazionale».

Ragionando in termini di futuro non remoto, sembra che il Mezzogiorno
qualche prospettiva possa avercela. Si sostiene, infatti, che allo
stato attuale le regioni meridionali hanno un’economia meno
protetta, che per esse è sceso il peso della spesa pubblica
mentre è aumentato quello delle esportazioni: quindi l’intera
area è più sensibile al ciclo internazionale, come
il resto del Paese. Pertanto, a un nuovo ciclo il Sud avrà
l’opportunità, se la saprà cogliere, di agganciare
la ripresa. Dal 1995 al 2003, le province che hanno perso terreno,
nella classifica complessiva, sono Lecco (scesa di venti posizioni),
Prato (scesa di diciassette), Pordenone e Vicenza (che ne hanno
perduto tredici), Pavia e Treviso (dieci posizioni più sotto).
Si tratta di province che hanno puntato sul manifatturiero (abbigliamento,
tessile, calzaturiero, lavorazioni orafe), sulla forza dei distretti,
ma che oggi come oggi patiscono l’accanita concorrenza asiatica,
sommata al peso dell’euro. L’analisi che si fa è
questa: i dati dicono che c’è una crescita quantitativa:
crescono gli abitanti, cresce l’occupazione; se il valore
aggiunto pro capite cresce meno rispetto alla media, con ogni probabilità
vuol dire che c’è una crisi qualitativa, legata alla
produttività. I distretti puntano ancora poco sulle produzioni
ad alto valore aggiunto e sulla “smaterializzazione”
dell’impresa.
Nella graduatoria generale conquistano terreno le province che all’industria
hanno saputo affiancare servizi e turismo. Prima fra tutte, Ravenna,
che nel giro di otto anni ha guadagnato ventuno posizioni, entrando
nella top ten con 24.228 euro di valore aggiunto pro capite. E ancora
Siena e Genova, ciascuna delle quali è riuscita a guadagnare
ben diciassette posizioni.
Sicuramente, l’ultimo triennio ha rappresentato il periodo
più difficile dell’economia italiana in oltre mezzo
secolo. Difficile non tanto, o non solo, per lo scarsissimo aumento
del reddito e del prodotto, che pure ha rari precedenti in quanto
a durata. Piuttosto perché è in atto una profonda
trasformazione che comporta rischi e incertezze su quello che sarà
l’esito finale.
In via carsica, la metamorfosi si sta verificando: c’è
evidenza aneddotica di innovazione di prodotto e processo di riorganizzazione
e ristrutturazione di assetti nuovi nella corporate governance.
Ma i pur numerosi casi singoli non fanno ancora massa critica. Nel
frattempo è molto evidente la rinuncia forzata ad alcune
attività produttive nelle quali il made in Italy
vantava primati ed eccellenze.
Questo è il periodo fotografato, in sostanza, dai dati territoriali
dell’Unioncamere. I quali confermano, oltre alle difficoltà
di alcuni distretti industriali, anche la riduzione molto parziale
del divario tra il Nord e il Sud, che dunque continua a verificarsi
con estrema lentezza e vischiosità, e che per questo resta
molto ampio.
La metamorfosi dell’economia italiana avrà maggiori
probabilità di successo, e in tempi meno lunghi, se la politica
economica saprà assecondarla tenendo fisso lo sguardo su
questa stella polare: tutti i Paesi industriali fondano il loro
livello di benessere e la loro capacità di espansione su
una solida base industriale. La “sala macchine” della
crescita, come la chiamano gli economisti, perché vi avvengono
le innovazioni che poi si diffondono all’intero sistema economico.
Ciò non significa necessariamente avere un’alta quota
di occupati nell’industria (e infatti negli Stati Uniti è
bassa) e il rimescolamento globale che sposta produzione verso i
Paesi emergenti comporterà una contrazione degli addetti
manifatturieri anche in Italia. La visione della centralità
dell’industria per la crescita ha anche implicazioni territoriali:
l’affrancamento delle regioni meridionali dall’arretratezza
deve passare, come dimostrano le dinamiche degli ultimi anni, per
una maggiore rilevanza del settore manifatturiero nell’economia
del Mezzogiorno. Dal 2001 in poi, invece, il fare industria in Italia
è stato gravato da una micidiale perdita di competitività,
pari al 25 per cento in termini di clup, una perdita che
è un multiplo di quelle patite, ad esempio, dalla Francia
o dalla Germania.
La morale di politica economica è che tutto ciò che
porta risorse all’industria (opportunamente congegnate in
stimoli, anche attraverso liberalizzazioni) e che tiene dritto il
timone del potenziamento del Sud favorisce lo sviluppo. Il resto
non affronta i nodi cruciali per il nostro Paese.
|