Marzo 2005

La radiografia del paese

Indietro
Un futuro da paura
S.B.  
 
 






Sarà colpa del lungo ciclo di mancata crescita, oppure la politica d’ogni colore ha commesso troppi errori e ha
sprecato occasioni d’oro?

 

Ci sono le bombe delle guerre e delle guerriglie, e ci sono gli attacchi terroristici nel mondo che mettono paura all’85 per cento degli italiani. Ma la verità è che la mancanza di fiducia nel futuro c’è anche molto per colpa dei problemi del quotidiano: è il 45 per cento delle persone che in Italia guarda con timore a un aumento incontenibile dei prezzi che non consente di arrivare alla fine del mese. In Europa questa paura ce l’ha, in media, appena il 18 per cento. Per questo il domani ci angoscia. Per questo il Censis ha scattato la sua trentottesima fotografia del nostro Paese e ha decretato: l’Italia non guarda avanti, non ce la fa, preferisce voltarsi a vedere ieri, l’altro ieri. Un modo per difendersi.
Del resto, sono molti anni che il Censis pone agli italiani la stessa domanda: avete fiducia nel futuro? E nel suo Rapporto per il 2004 ha scoperto che dal 2001 i pessimisti sono cresciuti di otto punti percentuali. Non solo: sono anche diminuiti gli ottimisti (meno 9 per cento) e oggi è appena il 45 per cento che dichiara di avere aspettative migliori per i prossimi cinque anni.
Possiamo anche dirla così: abbiamo riscoperto il sacro. E può sembrare, al limite, anche questo un tentativo per combattere la sfiducia nel futuro. In realtà, il Rapporto ci chiarisce che abbiamo riscoperto il sacro per colpa della violenza che ce lo ha riproposto e, garantisce, questo ritorno sarà un tema importante per il futuro: «Anche se degradato, il sacro ritorna, non si può evitare. Abbiamo costruito la nostra vita sulla soggettività (rafforzata dal mito della tecnica e dalla potenziale illimitatezza del produrre nuovi beni) che, tipicamente razionale, si trova di fronte un mondo che riapre il discorso del sacro per i kamikaze che sacrificano se stessi e per gli sgozzatori che sacrificano vittime innocenti. Questo per noi rappresenta un esame di coscienza».

Segue, passando dal sacro al profano, la corsa al mattone, vale a dire l’ansiosa rincorsa dei ceti medi verso il settore immobiliare, con l’idea che mettere i soldi – appunto – nei mattoni per comprare una casa ci può garantire un po’ di sicurezza. Per capire la dimensione del fenomeno: ogni giorno (lavorativo) in Italia vengono spesi 550 milioni di euro per acquistare una casa. Il 24 per cento di questi soldi vengono pagati in contanti. Ma è tutt’altro che una novità di quest’anno. In quello precedente le abitazioni acquistate dagli italiani sono state oltre 910 mila. Poco più di 870 mila quelle acquisite nel 2004. Facile disegnare il profilo degli acquirenti: le famiglie (soltanto l’8 per cento dei compratori sono singles), che nel 68 per cento dei casi appartengono alla fascia economica media e per il 16,5 per cento addirittura alla fascia medio-bassa.
Il cellulare, poi. Onnipresente, perché lo usano quasi tutti: il 77 per cento delle persone, con una crescita del 2,3 per cento rispetto all’anno precedente. Ma non ci voleva un Rapporto per saperlo. Quello che grazie ad esso scopriamo è invece il modo in cui gli italiani usano il telefonino. O, meglio, non sanno usarlo, visto che quasi nessuno riesce a vincere la tentazione di acquistare il modello di ultimissima generazione senza, però, avere la più pallida idea di tutti gli usi che se ne possono fare.
Per capire: soltanto il 15,3 per cento dei possessori di telefonini conosce l’esistenza dei videomessaggi, e appena il 6,2 per cento questi videomessaggi poi li invia veramente. Ma ancora peggiore è la storia dell’uso della “rete”: tutti i cellulari di ultima generazione sono dotati di collegamento con Internet. Inutilmente, tuttavia: nessuno, o pochissimi, in pratica, utilizza questa opportunità.
Certo, è assodato che la crisi economica si fa sentire nelle famiglie italiane. La loro voglia di consumare resta immutata, ma la carenza di risorse la restringe, pronta a balzare di nuovo appena le circostanze lo consentiranno. Nel frattempo, sottolinea il Rapporto, la domanda «appare acquattata più che depressa», e seleziona i beni da acquistare. E tra questi registrano un segno negativo l’abbigliamento, le calzature, gli alimentari. In calo anche il ricorso a servizi ospedalieri, la frequentazione dei ristoranti, i soggiorni negli alberghi, le spese per assicurazioni, l’acquisto di tabacchi. In crescita, le bevande alcoliche e non alcoliche.
Allarghiamo il discorso. E’ ormai da poco più di un anno che si discute di impoverimento dei ceti medi. La riflessione ha riguardato non soltanto il mondo politico, ma ha investito i ruoli di quanti, come l’Istat o i giornali, hanno il compito di certificare i cambiamenti o di informare l’opinione pubblica. Non è mancato anche qualche tentativo di forzatura strumentale, quasi fosse possibile riciclare consolidate tradizioni sotto la nuova forma del “partito della quarta settimana”. Il contributo forse più completo è venuto dall’indagine biennale che la Banca d’Italia dedica ai bilanci delle famiglie italiane.
Ricerca che, se da una parte ha escluso l’incremento dell’area della povertà, ha anche specificato con estrema chiarezza che la grande partita della distribuzione del reddito ha penalizzato il lavoro dipendente e le famiglie operaie. Da parte sua, il Censis ci consegna due avvertenze: la paura di impoverire è più forte dell’impoverimento reale; c’è un consistente aumento degli investimenti immobiliari delle famiglie e un buon incremento di quelli mobiliari. Dunque, attenzione a fare dell’allarmismo, l’inflazione viaggia ormai stabilmente sotto la quota del 2 per cento e questa performance ci colloca tra i virtuosi d’Europa. Lo shock da euro legato a un cambio della moneta gestito senza un adeguato livello di informazione e controllo ormai sembra riassorbito (grazie anche al sommerso) e la striscia dell’aumento dei prezzi si è fermata, anzi in alcuni casi ha registrato leggere inversioni di tendenza. Dunque, ci sono tutte le condizioni per sanare la ferita e far ripartire i consumi.
Ma proprio così non è. O non è stato finora. Abbiamo trascorso le festività di fine anno più sobrie degli ultimi anni, e non solo per colpa dello tsunami. I commercianti si sono trovate le vetrine piene fino al giorno dei saldi, che hanno fatto recuperare solo in parte il terreno perduto. Imprese e famiglie hanno rinviato le decisioni sull’acquisto di beni durevoli e anche i consumi leggeri sono stati segnalati in ristagno.
Di fronte a questa contraddizione, diversi osservatori se la prendono con la maledetta “percezione”, quella pazza idea di essere più fragili che sembra essersi impadronita degli italiani. Ma da sempre – lo ricordano anche i classici – i mercati di un’economia capitalistica si fondano su percorsi di suggestione collettiva. Pertanto, conoscere e studiare lo stato d’animo di un Paese serve ad allargare il perimetro delle democrazie post-moderne e può fornire ai decisori un importante test dei loro interventi. In società così altamente esposte ai media, fare i conti con la percezione popolare sarà dunque una regola, non un’eccezione. Occorrerà quindi chiedersi perché malgrado le statistiche ufficiali il sentimento del Paese resti negativo, o, per dirla con De Rita, «la società abbia silenziosamente scelto di assestarsi sul suo ieri e sul suo altroieri», interrompendo quel processo di modernizzazione che a tratti ci ha fatto sentire più europei che italiani.
Infatti, sommando tutti gli spunti che il Censis, come del resto ogni anno, ci offre, è questa la sintesi del discorso: la modernizzazione italiana si è interrotta e le culture che pure l’avevano sospinta allo stato attuale balbettano. Sarà colpa del lungo ciclo di mancata crescita, come sostengono in tanti, oppure la politica (d’ogni colore) ha commesso troppi errori e ha sprecato occasioni d’oro? Di sicuro, nel corso di questi ultimi due decenni valori mobilitanti, come il merito o il rischio, si sono pesantemente svalutati, e anche questo ha concorso al nostro visibile impoverimento. Sarà necessario ripartire da lì, rimettere in circolazione quelle parole d’ordine. Anche perché nessuno può pensare che ci sia spazio per un nuovo e generoso welfare riparatorio. Funziona per casi e per settori marginali, non quando è colpito il grosso del ceto medio.

   
   
Indietro
     

Banca Popolare Pugliese
Tutti i diritti riservati © 2005