Sarà colpa del lungo ciclo di mancata crescita, oppure la
politica d’ogni colore ha commesso troppi errori e ha
sprecato occasioni d’oro?
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Ci sono le bombe delle guerre e delle guerriglie, e ci sono gli
attacchi terroristici nel mondo che mettono paura all’85 per
cento degli italiani. Ma la verità è che la mancanza
di fiducia nel futuro c’è anche molto per colpa dei
problemi del quotidiano: è il 45 per cento delle persone
che in Italia guarda con timore a un aumento incontenibile dei prezzi
che non consente di arrivare alla fine del mese. In Europa questa
paura ce l’ha, in media, appena il 18 per cento. Per questo
il domani ci angoscia. Per questo il Censis ha scattato la sua trentottesima
fotografia del nostro Paese e ha decretato: l’Italia non guarda
avanti, non ce la fa, preferisce voltarsi a vedere ieri, l’altro
ieri. Un modo per difendersi.
Del resto, sono molti anni che il Censis pone agli italiani la stessa
domanda: avete fiducia nel futuro? E nel suo Rapporto per il 2004
ha scoperto che dal 2001 i pessimisti sono cresciuti di otto punti
percentuali. Non solo: sono anche diminuiti gli ottimisti (meno
9 per cento) e oggi è appena il 45 per cento che dichiara
di avere aspettative migliori per i prossimi cinque anni.
Possiamo anche dirla così: abbiamo riscoperto il sacro. E
può sembrare, al limite, anche questo un tentativo per combattere
la sfiducia nel futuro. In realtà, il Rapporto ci chiarisce
che abbiamo riscoperto il sacro per colpa della violenza che ce
lo ha riproposto e, garantisce, questo ritorno sarà un tema
importante per il futuro: «Anche se degradato, il sacro ritorna,
non si può evitare. Abbiamo costruito la nostra vita sulla
soggettività (rafforzata dal mito della tecnica e dalla potenziale
illimitatezza del produrre nuovi beni) che, tipicamente razionale,
si trova di fronte un mondo che riapre il discorso del sacro per
i kamikaze che sacrificano se stessi e per gli sgozzatori che sacrificano
vittime innocenti. Questo per noi rappresenta un esame di coscienza».

Segue, passando dal sacro al profano, la corsa al mattone, vale
a dire l’ansiosa rincorsa dei ceti medi verso il settore immobiliare,
con l’idea che mettere i soldi – appunto – nei
mattoni per comprare una casa ci può garantire un po’
di sicurezza. Per capire la dimensione del fenomeno: ogni giorno
(lavorativo) in Italia vengono spesi 550 milioni di euro per acquistare
una casa. Il 24 per cento di questi soldi vengono pagati in contanti.
Ma è tutt’altro che una novità di quest’anno.
In quello precedente le abitazioni acquistate dagli italiani sono
state oltre 910 mila. Poco più di 870 mila quelle acquisite
nel 2004. Facile disegnare il profilo degli acquirenti: le famiglie
(soltanto l’8 per cento dei compratori sono singles),
che nel 68 per cento dei casi appartengono alla fascia economica
media e per il 16,5 per cento addirittura alla fascia medio-bassa.
Il cellulare, poi. Onnipresente, perché lo usano quasi tutti:
il 77 per cento delle persone, con una crescita del 2,3 per cento
rispetto all’anno precedente. Ma non ci voleva un Rapporto
per saperlo. Quello che grazie ad esso scopriamo è invece
il modo in cui gli italiani usano il telefonino. O, meglio, non
sanno usarlo, visto che quasi nessuno riesce a vincere la tentazione
di acquistare il modello di ultimissima generazione senza, però,
avere la più pallida idea di tutti gli usi che se ne possono
fare.
Per capire: soltanto il 15,3 per cento dei possessori di telefonini
conosce l’esistenza dei videomessaggi, e appena il 6,2 per
cento questi videomessaggi poi li invia veramente. Ma ancora peggiore
è la storia dell’uso della “rete”: tutti
i cellulari di ultima generazione sono dotati di collegamento con
Internet. Inutilmente, tuttavia: nessuno, o pochissimi, in pratica,
utilizza questa opportunità.
Certo, è assodato che la crisi economica si fa sentire nelle
famiglie italiane. La loro voglia di consumare resta immutata, ma
la carenza di risorse la restringe, pronta a balzare di nuovo appena
le circostanze lo consentiranno. Nel frattempo, sottolinea il Rapporto,
la domanda «appare acquattata più che depressa»,
e seleziona i beni da acquistare. E tra questi registrano un segno
negativo l’abbigliamento, le calzature, gli alimentari. In
calo anche il ricorso a servizi ospedalieri, la frequentazione dei
ristoranti, i soggiorni negli alberghi, le spese per assicurazioni,
l’acquisto di tabacchi. In crescita, le bevande alcoliche
e non alcoliche.
Allarghiamo il discorso. E’ ormai da poco più di un
anno che si discute di impoverimento dei ceti medi. La riflessione
ha riguardato non soltanto il mondo politico, ma ha investito i
ruoli di quanti, come l’Istat o i giornali, hanno il compito
di certificare i cambiamenti o di informare l’opinione pubblica.
Non è mancato anche qualche tentativo di forzatura strumentale,
quasi fosse possibile riciclare consolidate tradizioni sotto la
nuova forma del “partito della quarta settimana”. Il
contributo forse più completo è venuto dall’indagine
biennale che la Banca d’Italia dedica ai bilanci delle famiglie
italiane.
Ricerca che, se da una parte ha escluso l’incremento dell’area
della povertà, ha anche specificato con estrema chiarezza
che la grande partita della distribuzione del reddito ha penalizzato
il lavoro dipendente e le famiglie operaie. Da parte sua, il Censis
ci consegna due avvertenze: la paura di impoverire è più
forte dell’impoverimento reale; c’è un consistente
aumento degli investimenti immobiliari delle famiglie e un buon
incremento di quelli mobiliari. Dunque, attenzione a fare dell’allarmismo,
l’inflazione viaggia ormai stabilmente sotto la quota del
2 per cento e questa performance ci colloca tra i virtuosi d’Europa.
Lo shock da euro legato a un cambio della moneta gestito senza un
adeguato livello di informazione e controllo ormai sembra riassorbito
(grazie anche al sommerso) e la striscia dell’aumento dei
prezzi si è fermata, anzi in alcuni casi ha registrato leggere
inversioni di tendenza. Dunque, ci sono tutte le condizioni per
sanare la ferita e far ripartire i consumi.
Ma proprio così non è. O non è stato finora.
Abbiamo trascorso le festività di fine anno più sobrie
degli ultimi anni, e non solo per colpa dello tsunami. I commercianti
si sono trovate le vetrine piene fino al giorno dei saldi, che hanno
fatto recuperare solo in parte il terreno perduto. Imprese e famiglie
hanno rinviato le decisioni sull’acquisto di beni durevoli
e anche i consumi leggeri sono stati segnalati in ristagno.
Di fronte a questa contraddizione, diversi osservatori se la prendono
con la maledetta “percezione”, quella pazza idea di
essere più fragili che sembra essersi impadronita degli italiani.
Ma da sempre – lo ricordano anche i classici – i mercati
di un’economia capitalistica si fondano su percorsi di suggestione
collettiva. Pertanto, conoscere e studiare lo stato d’animo
di un Paese serve ad allargare il perimetro delle democrazie post-moderne
e può fornire ai decisori un importante test dei loro interventi.
In società così altamente esposte ai media, fare i
conti con la percezione popolare sarà dunque una regola,
non un’eccezione. Occorrerà quindi chiedersi perché
malgrado le statistiche ufficiali il sentimento del Paese resti
negativo, o, per dirla con De Rita, «la società abbia
silenziosamente scelto di assestarsi sul suo ieri e sul suo altroieri»,
interrompendo quel processo di modernizzazione che a tratti ci ha
fatto sentire più europei che italiani.
Infatti, sommando tutti gli spunti che il Censis, come del resto
ogni anno, ci offre, è questa la sintesi del discorso: la
modernizzazione italiana si è interrotta e le culture che
pure l’avevano sospinta allo stato attuale balbettano. Sarà
colpa del lungo ciclo di mancata crescita, come sostengono in tanti,
oppure la politica (d’ogni colore) ha commesso troppi errori
e ha sprecato occasioni d’oro? Di sicuro, nel corso di questi
ultimi due decenni valori mobilitanti, come il merito o il rischio,
si sono pesantemente svalutati, e anche questo ha concorso al nostro
visibile impoverimento. Sarà necessario ripartire da lì,
rimettere in circolazione quelle parole d’ordine. Anche perché
nessuno può pensare che ci sia spazio per un nuovo e generoso
welfare riparatorio. Funziona per casi e per settori marginali,
non quando è colpito il grosso del ceto medio.
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