Marzo 2005

QUELLI DEI QUARTIERI ALTI

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Ma c'è chi non bada a spese
Lorenzo Orvieto  
 
 







Una volta era
l’università
a selezionare la classe dirigente; oggi è il know how globale a stabilire chi entra nel
novero dei pionieri sulla frontiera
del futuro.

 

Costi energetici, dozzine di guerre, terrorismi, crisi dei mercati finanziari, scarsa fiducia nelle istituzioni, debolissima propensione al rischio... Una gran cautela è il mood che si respira nei quartieri alti, dove si naviga a vista e fare previsioni è considerata una missione da veri e propri scellerati. Perché si ritiene che l’Italia sia come i gatti, un Paese dalle sette vite.
Qui il clima d’incertezza e di stagnazione non induce alla sobrietà. Anzi. Se i ceti medi e medio-alti, i “ricchi occasionali”, come li ha definiti il sociologo Giampaolo Fabris, sono stati costretti a ridimensionare i loro sogni e i loro consumi (risparmio sulla spesa, per permettersi la borsa di Prada o la vacanza alle Mauritius), tra i consumatori d’élite, gli happy few dai cospicui patrimoni – imprenditori, immobiliaristi, grandi professionisti, manager dalle lautissime stock-options – c’è una vera e propria corsa all’acquisto di dimore prestigiose, di yacht sempre più giganteschi, di auto bellissime (dalla Maserati Quattroporte alla Porsche Cayenne Turbo), di oggetti assai costosi (da Vuitton c’è da tempo una lunga lista d’attesa per le nuove borse Monogram Denim e Monogram Cherry), meglio se su misura, personalizzati, in “limited edition”. Parola chiave: l’esclusività.

Alcuni esempi, fra i tanti. A Saint Moritz appartamenti costosi come quelli dell’ex Hotel Post (firmati dall’architetto-star Norman Foster, da un minimo di 30 mila franchi svizzeri al metro quadrato) sono stati venduti quasi tutti a ricchissimi italiani, mentre sembra che la moglie dell’ingegner Carlo De Benedetti abbia acquistato un vecchio albergo di Silva Plana. Identico refrain a Casa del Campo, Santo Domingo, dove sul ciglio di stupende marine e accanto a quattro campi da golf sono di italiani alcune delle ville più sontuose, a cominciare da quella che l’industriale Augusto Perfetti ha acquistato dallo stilista Oscar Della Renta. Boom del mattone come bene rifugio? Non solo questo, ma molto di più. «Per il loro benessere i nostri clienti non badano a spese; nelle loro ville si stanno realizzando palestre faraoniche», racconta Nerio Alessandri, l’industriale che ha inventato Technogym. Il runner, la piscina, l’hammam come totem, come status symbol da esibire. Se De Rita giudica l’Italia un Paese «ricco male» perché fondato sul patrimonio e socialmente squilibrato, altre analisi sono meno severe. Per Fabris questa disponibilità elevatissima al consumo (una sorta di autogratificazione anticrisi) può produrre benefici effetti traino.
Così la tendenza al gigantismo negli yacht (barche da 60 metri e più, come l’“Altair” di Diego Della Valle o “The One” di Francesco Caltagirone) sta facendo la fortuna dei nostri cantieri, i più innovativi sul mercato. Con i 140 maxiyacht nel portafoglio-ordini (attese fino a tre anni) gli italiani sono leader in Europa e secondi nel mondo: un boom che ha fatto schizzare in alto, dopo anni difficili, il fatturato della nostra industria nautica. Non più soltanto l’elicottero a bordo. «Sarà una cittadella galleggiante, dal portellone di poppa invece del solito tender uscirà una piattaforma con la palestra. Il mare sarà la piscina»: in questo modo Lorenzo Taccoli, amministratore delegato di Crn, la società del Gruppo Ferretti che costruisce i maxiyacht, descrive una nuova megabarca da oltre 60 metri, destinata a un ricco cliente, italiano.
Niente nomi, ovviamente. «L’alto di gamma, soprattutto la nautica, è il settore che va meglio. Se tutta l’economia italiana avesse questi risultati, vivremmo in paradiso», conferma il segretario di Alta Gamma, l’associazione che riunisce sessanta aziende italiane (da Ferrari a Tod’s, da Bulgari a Loro Piana e a Gucci) che riescono ad essere competitive nel mondo grazie a quell’inimitabile e prezioso quid che sanno mettere gli italiani quando fanno bene i loro prodotti.

L’alto di gamma (adesso si dice così, perché la parola “lusso” è fuori moda) per gli italiani è un mercato strategico, buona ragione per evitare facili moralismi e inattuali autoflagellazioni. Quanto all’autogratificazione, non è sicuramente bisogno solo da ricchi, chi ha molti soldi ha mille modi per goderne.
Come evitare noiose code nel week-end o la perdita dei bagagli a Fiumicino o a Malpensa? Molto semplice: «A 109 mila euro offriamo la “Netjets private card”, 25 ore di volo sui nostri aerei», spiega Monica Agusta, vicepresidente per l’Italia e per la Costa Azzurra della società con una flotta di 560 aerei in tutto il mondo creata dal miliardario Warren Buffet. Una semplice telefonata, e via in volo.
Fine del minimalismo, e anche del “politicamente corretto”. Dopo anni di forzato digiuno animalista, le ricche signore italiane sono tornate a comprare pellicce. Afferma uno stilista del ramo che le clienti vanno pazze per lo zibellino scamosciato (80-100 mila euro), e spiega: «Il gioco è fingere di coprirlo per poi esibire il tesoro che c’è dentro. Non a Roma, a Venezia o a Milano, ma in vacanza a Gstaad o a New York».
Qualche settimana fa si è visto il sultano del Qatar entrare nel negozio di un celebre gioielliere della milanese via Montenapoleone. Costui mostra un collier di 27 rubini e brillanti, con spilla di 12 carati e orecchini coordinati: il tutto, di una bellezza abbagliante, costa 5 milioni di euro. Domanda per capire: «A parte i sultani, quanti clienti italiani si potrebbero mai presentare per una parure del genere?». Risposta lapidaria: «Più di quelli che lei immagina!». Il fatto è che di soldi in giro ce ne sono davvero tanti. Ben altra cosa è investire, scommettendo sul nostro e sul comune futuro.
Chi lo fa, generalmente mette in gioco i figli. E stiamo parlando di gente che di soldi ne ha tanti, che lavora molto e bene, e che non ha alcuna intenzione di vedere scendere la curva dei profitti dell’impresa familiare o di vedere esclusi dal novero dei manager di primo livello i propri discendenti. E così i giovani devono “farsi le ossa” laureandosi, magari a Oxford, e svolgendo un periodo di lavoro in Italia. Un’esperienza breve. Poi, master in America, e innesto nei centri di ricerca delle università statunitensi, dove si impara a proiettarsi continuamente nel futuro.
In alternativa, esplorazione delle opportunità che offre l’immenso mercato cinese, dove sta succedendo di tutto e i ritmi di crescita sono semplicemente pazzeschi: dunque, aereo per Shanghai e master alla “China Europe International Business School”, che è sponsorizzata dalla Bocconi. Durata, diciotto mesi. Poi, almeno cinque o sei anni di lavoro da quelle parti: quanto basta per creare una rete di relazioni e una serie di conoscenze che saranno utilissime per l’attività da svolgere in Italia o in Europa.
Ecco: una volta era l’università pura e semplice a selezionare la nostra classe dirigente; oggi è il know how globale a stabilire chi fa parte delle eccezioni virtuose, chi entra nel novero dei pionieri sulla frontiera del futuro, chi sta sul versante dei privilegiati self made man; insomma, chi è destinato ad essere ricco, (di idee, oltre che di patrimonio), attivo, creativo, e magari fortunato acquirente di grandi yacht e di megaville in luoghi esotici. Almeno farà la differenza con chi fa gli acquisti e le vacanze in alto di gamma, ma con i soldi di papà.

   
   
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