Marzo 2005

Che Italia fa

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Non più bruco
non ancora farfalla
Flavio Albini  
 
 






Se la nazione non farà i sacrifici
necessari il declino
continuerà nei prossimi anni
e l’Italia sarà
sorpassata nel
tenore di vita dalla Spagna e da altri Paesi.

 

La metamorfosi incompiuta dell’economia italiana è rivelata dal ristagno del benessere, dall’insicurezza nel domani, dalle perdite del made in Italy. Dietro questi fenomeni, evidenti agli occhi di tutti, c’è una struttura produttiva che nell’insieme ha ancora le fattezze del vecchio e dell’inadeguato. Anzitutto, un nanismo d’impresa che penalizza la produttività media, il tasso di accumulazione, l’innovazione complessa, il gioco cooperativo, la remunerazione del capitale e del lavoro. Giacché nel manifatturiero un dipendente di una microazienda ha una retribuzione lorda che è poco più della metà di una grande impresa e la sua produttività è meno della metà. In secondo luogo, una capacità limitata di diversificare produzioni e sbocchi di mercato, esponendosi maggiormente alle difficoltà congiunturali.
Ma sarebbe errato fermarsi nell’analisi a queste fattezze note, pur approfondendone i vari aspetti, inclusa l’insufficienza quantitativa e qualitativa della ricerca e dell’investimento in capitale umano. Più interessante è cogliere ciò che si muove dentro la struttura, per vedere come la farfalla si sta formando. Ed è quello che ha fatto l’Istat nell’ultimo Rapporto annuale, evidenziando assieme alle arretratezze anche i “processi di crescita virtuosi” realizzati da molte imprese esportatrici e i grappoli di aziende innovatrici in ogni aspetto della loro attività. Qui il tasso di accumulazione, la redditività, la solidità patrimoniale e l’occupazione aumentano. Questo è il futuro che si intravede nel presente; ma è ancora poco più di un germoglio. Sono esempi che stentano a fare scuola. E’ cruciale cogliere questi segnali, sottolinearli, per evitare di cadere nella rassegnata cultura del declino, nella contabilità triste e sterile delle scadenti performances. Che non vanno nascoste, ma nemmeno considerate un destino ineluttabile. Semmai è curioso che, nell’indicare la generale carenza di cooperazione delle imprese italiane (tra di esse, e con gli altri soggetti chiave dello sviluppo) quale lacuna importante da colmare, l’Istat non rinnovi l’attenzione rivolta in passato ai distretti industriali, che sono una forma di cooperazione spontanea, sebbene talora inconsapevole.

La metamorfosi è in atto. Ma procede lentamente anche perché non è stata assecondata. I suoi tempi di autocompimento rischiano di essere lunghi e costosi. Per aiutarla, occorre rimuovere i vincoli che impediscono il cambiamento, completando le riforme strutturali che riguardano il welfare e la liberalizzazione dei mercati, attuando investimenti strutturali, introducendo incentivi che stimolino l’aggregazione tra imprese e la collaborazione tra queste e il sistema della ricerca e della formazione.
Il Paese non è per niente stanco, seduto, demotivato. Le statistiche sul mercato del lavoro, con i profondi cambiamenti nelle professionalità, l’impetuosa crescita dell’imprenditorialità individuale e l’integrazione degli immigrati, che svolgono un ruolo sempre più rilevante anche nell’organizzazione produttiva, testimoniano di una notevole vivacità e capacità di iniziativa. Così come una grande voglia di partecipazione dimostra, nel sociale, il proliferare di iniziative di volontariato. Non sembra affatto una nazione in disimpegno e adagiata o ripiegata su se stessa.
Semmai, questo nostro Paese manca di visione d’insieme, della guida che tenga una rotta di lungo periodo, che dia le priorità e il senso di marcia, e che appresti gli strumenti adatti per raggiungere obiettivi condivisi. Ciò si nota in modo macroscopico nell’incosciente bassa spesa per la ricerca. Inclusa quella statistica, nella quale siamo buoni ultimi nel continente europeo.
Anche se un poco migliori di quanto attesi, i dati sulla crescita nazionale sono giudicati abbastanza scoraggianti. L’Italia continua a crescere più lentamente della pure anemica crescita continentale. Non si tratta di una crisi congiunturale, ma di un serio problema strutturale che perdura da oltre un decennio e che va peggiorando rispetto alla situazione europea e mondiale. Il nostro Paese infatti è sceso al 51° posto nella graduatoria della competitività internazionale calcolata dall’Imd (Institute for management development) di Losanna. Questo indice si riferisce alle prospettive di crescita futura, mentre l’alto Prodotto interno lordo pro capite italiano riflette invece i suoi successi economici del passato. Sembra quasi che, giustamente orgogliosa del suo alto tenore di vita e dell’invidiabile sistema di protezione sociale, l’Italia abbia perso la capacità di rinnovarsi, di innovare e di crescere. Una capacità che invece aveva ampiamente dimostrato nel dopoguerra e fino agli anni Novanta.
Aumentare l’età del pensionamento di qualche anno, liberalizzare un po’ il mercato del lavoro e offrire limitati incentivi alle innovazioni è certamente utile, ma non è sufficiente per arrestare il declino. Nient’altro che una totale liberalizzazione dell’economia è necessaria per rilanciare l’economia italiana, proprio come fecero gli Stati Uniti negli anni Ottanta, quando sembrava che l’allora dinamico Giappone l’avesse declassata a potenza economica di second’ordine. Il sacrificio fatto dagli Usa nel corso del decennio fu tanto profondo, quanto brillante fu il risultato. Infatti, questa nazione tornò ad essere considerata dall’Imd come l’economia più competitiva al mondo, situazione che continua anche ai nostri giorni.
Per quel che ci riguarda, dunque, va stimolato un dibattito sui possibili percorsi da seguire per invertire il trend negativo della nostra economia. Se la nazione non farà i sacrifici necessari per ristrutturare la propria economia, il declino continuerà nei prossimi anni e l’Italia sarà sorpassata nel tenore di vita dalla Spagna e da altri Paesi che due decenni fa avevano un Prodotto interno lordo pro capite pari allora alla metà di quello italiano.

L'Italia è ricca di imprenditorialità, ma si tratta di far sì che le piccole imprese superino i legami con il territorio per affrontare il mondo globalizzato. Vi sono poi poche grandi imprese che non brillano per efficienza e che rischiano di essere assorbite da imprese straniere più grandi e più dinamiche. E le medie imprese hanno difficoltà a superare la scala del nucleo familiare per diventare “global players”.
Altre aziende con grandi possibilità di successo e crescita nei settori in cui l’Italia tradizionalmente emergeva sono state acquistate da gruppi stranieri. Questo è accaduto a Gucci, a Fendi e a Bottega Veneta nella moda; a Perugina, Buitoni e San Pellegrino nel settore alimentare; e ad altre imprese in altri settori. Neanche nel settore turistico l’Italia sembra capace di competere. Con un’eredità artistica forse superiore a quella di tutto il resto del mondo e con le bellezze naturali (coste, parchi e montagne), l’Italia potrebbe di sicuro essere il leader mondiale nel settore. L’ex Boston e Eden della capitale sono in mano ai francesi. Le più importanti linee di crociere sono a capitale e gestione estera; la storia dell’Alitalia la conosciamo.
Ciò non significa che si devono ostacolare gli investimenti stranieri in Italia. In un mondo che va sempre più globalizzandosi, vanno anzi incoraggiati gli investimenti esteri, perché essi spesso portano nuovi capitali, nuove tecnologie e migliori metodi gestionali, che alimentano l’efficienza delle imprese a beneficio dei lavoratori e di tutta l’economia. Ma per ottenere questi benefici si devono attirare nuovi investimenti, che invece restano molto bassi, piuttosto che ottenere soltanto acquisizioni e trasferimenti di quote di proprietà dovuti al fatto che di frequente imprenditori italiani non riescono a fare il salto di qualità e di visione, anche per mancanza di finanziamenti. La globalizzazione deve essere una strada a due sensi di marcia per coglierne i benefici. Gli stranieri dovrebbero investire in Italia nei settori in cui sono più efficienti, mentre l’Italia dovrebbe effettuarli all’estero nei settori nei quali è all’avanguardia (come, per esempio, ha fatto la Spagna nell’America Latina nel settore bancario).
A questo punto ci si deve chiedere quali sono i settori in cui il nostro Paese eccelle o potrebbe eccellere attraverso l’innovazione di prodotto e di processo. Di sicuro, questi sono la moda e l’abbigliamento, i mobili e altri oggetti per la casa, l’industria meccanica, il settore turistico-alberghiero e quello artistico. Nel settore bancario, l’Italia è riuscita fino a questo momento a fronteggiare la concorrenza internazionale attraverso fusioni e ristrutturazioni che hanno aumentato l’efficienza. Solo attraverso significativi cambiamenti economici e burocratici, la determinazione di accettare a livello nazionale i sacrifici necessari e la riscoperta dello spirito di creatività, ingegnosità e innovazione (che l’Italia ha sempre dimostrato di avere di fronte a situazioni critiche dal dopoguerra), il trend negativo può essere invertito e il distacco che il nostro Paese ha subìto nell’ultimo decennio rispetto alle altre grandi nazioni europee potrà essere eliminato.

   
   
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