Se la nazione non farà i sacrifici
necessari il declino
continuerà nei prossimi anni
e l’Italia sarà
sorpassata nel
tenore di vita dalla Spagna e da altri Paesi.
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La metamorfosi incompiuta dell’economia italiana è
rivelata dal ristagno del benessere, dall’insicurezza nel
domani, dalle perdite del made in Italy. Dietro questi
fenomeni, evidenti agli occhi di tutti, c’è una struttura
produttiva che nell’insieme ha ancora le fattezze del vecchio
e dell’inadeguato. Anzitutto, un nanismo d’impresa che
penalizza la produttività media, il tasso di accumulazione,
l’innovazione complessa, il gioco cooperativo, la remunerazione
del capitale e del lavoro. Giacché nel manifatturiero un
dipendente di una microazienda ha una retribuzione lorda che è
poco più della metà di una grande impresa e la sua
produttività è meno della metà. In secondo
luogo, una capacità limitata di diversificare produzioni
e sbocchi di mercato, esponendosi maggiormente alle difficoltà
congiunturali.
Ma sarebbe errato fermarsi nell’analisi a queste fattezze
note, pur approfondendone i vari aspetti, inclusa l’insufficienza
quantitativa e qualitativa della ricerca e dell’investimento
in capitale umano. Più interessante è cogliere ciò
che si muove dentro la struttura, per vedere come la farfalla si
sta formando. Ed è quello che ha fatto l’Istat nell’ultimo
Rapporto annuale, evidenziando assieme alle arretratezze anche i
“processi di crescita virtuosi” realizzati da molte
imprese esportatrici e i grappoli di aziende innovatrici in ogni
aspetto della loro attività. Qui il tasso di accumulazione,
la redditività, la solidità patrimoniale e l’occupazione
aumentano. Questo è il futuro che si intravede nel presente;
ma è ancora poco più di un germoglio. Sono esempi
che stentano a fare scuola. E’ cruciale cogliere questi segnali,
sottolinearli, per evitare di cadere nella rassegnata cultura del
declino, nella contabilità triste e sterile delle scadenti
performances. Che non vanno nascoste, ma nemmeno considerate
un destino ineluttabile. Semmai è curioso che, nell’indicare
la generale carenza di cooperazione delle imprese italiane (tra
di esse, e con gli altri soggetti chiave dello sviluppo) quale lacuna
importante da colmare, l’Istat non rinnovi l’attenzione
rivolta in passato ai distretti industriali, che sono una forma
di cooperazione spontanea, sebbene talora inconsapevole.

La metamorfosi è in atto. Ma procede lentamente anche perché
non è stata assecondata. I suoi tempi di autocompimento rischiano
di essere lunghi e costosi. Per aiutarla, occorre rimuovere i vincoli
che impediscono il cambiamento, completando le riforme strutturali
che riguardano il welfare e la liberalizzazione dei mercati,
attuando investimenti strutturali, introducendo incentivi che stimolino
l’aggregazione tra imprese e la collaborazione tra queste
e il sistema della ricerca e della formazione.
Il Paese non è per niente stanco, seduto, demotivato. Le
statistiche sul mercato del lavoro, con i profondi cambiamenti nelle
professionalità, l’impetuosa crescita dell’imprenditorialità
individuale e l’integrazione degli immigrati, che svolgono
un ruolo sempre più rilevante anche nell’organizzazione
produttiva, testimoniano di una notevole vivacità e capacità
di iniziativa. Così come una grande voglia di partecipazione
dimostra, nel sociale, il proliferare di iniziative di volontariato.
Non sembra affatto una nazione in disimpegno e adagiata o ripiegata
su se stessa.
Semmai, questo nostro Paese manca di visione d’insieme, della
guida che tenga una rotta di lungo periodo, che dia le priorità
e il senso di marcia, e che appresti gli strumenti adatti per raggiungere
obiettivi condivisi. Ciò si nota in modo macroscopico nell’incosciente
bassa spesa per la ricerca. Inclusa quella statistica, nella quale
siamo buoni ultimi nel continente europeo.
Anche se un poco migliori di quanto attesi, i dati sulla crescita
nazionale sono giudicati abbastanza scoraggianti. L’Italia
continua a crescere più lentamente della pure anemica crescita
continentale. Non si tratta di una crisi congiunturale, ma di un
serio problema strutturale che perdura da oltre un decennio e che
va peggiorando rispetto alla situazione europea e mondiale. Il nostro
Paese infatti è sceso al 51° posto nella graduatoria
della competitività internazionale calcolata dall’Imd
(Institute for management development) di Losanna. Questo indice
si riferisce alle prospettive di crescita futura, mentre l’alto
Prodotto interno lordo pro capite italiano riflette invece i suoi
successi economici del passato. Sembra quasi che, giustamente orgogliosa
del suo alto tenore di vita e dell’invidiabile sistema di
protezione sociale, l’Italia abbia perso la capacità
di rinnovarsi, di innovare e di crescere. Una capacità che
invece aveva ampiamente dimostrato nel dopoguerra e fino agli anni
Novanta.
Aumentare l’età del pensionamento di qualche anno,
liberalizzare un po’ il mercato del lavoro e offrire limitati
incentivi alle innovazioni è certamente utile, ma non è
sufficiente per arrestare il declino. Nient’altro che una
totale liberalizzazione dell’economia è necessaria
per rilanciare l’economia italiana, proprio come fecero gli
Stati Uniti negli anni Ottanta, quando sembrava che l’allora
dinamico Giappone l’avesse declassata a potenza economica
di second’ordine. Il sacrificio fatto dagli Usa nel corso
del decennio fu tanto profondo, quanto brillante fu il risultato.
Infatti, questa nazione tornò ad essere considerata dall’Imd
come l’economia più competitiva al mondo, situazione
che continua anche ai nostri giorni.
Per quel che ci riguarda, dunque, va stimolato un dibattito sui
possibili percorsi da seguire per invertire il trend negativo della
nostra economia. Se la nazione non farà i sacrifici necessari
per ristrutturare la propria economia, il declino continuerà
nei prossimi anni e l’Italia sarà sorpassata nel tenore
di vita dalla Spagna e da altri Paesi che due decenni fa avevano
un Prodotto interno lordo pro capite pari allora alla metà
di quello italiano.

L'Italia è ricca di imprenditorialità, ma si tratta
di far sì che le piccole imprese superino i legami con il
territorio per affrontare il mondo globalizzato. Vi sono poi poche
grandi imprese che non brillano per efficienza e che rischiano di
essere assorbite da imprese straniere più grandi e più
dinamiche. E le medie imprese hanno difficoltà a superare
la scala del nucleo familiare per diventare “global players”.
Altre aziende con grandi possibilità di successo e crescita
nei settori in cui l’Italia tradizionalmente emergeva sono
state acquistate da gruppi stranieri. Questo è accaduto a
Gucci, a Fendi e a Bottega Veneta nella moda; a Perugina, Buitoni
e San Pellegrino nel settore alimentare; e ad altre imprese in altri
settori. Neanche nel settore turistico l’Italia sembra capace
di competere. Con un’eredità artistica forse superiore
a quella di tutto il resto del mondo e con le bellezze naturali
(coste, parchi e montagne), l’Italia potrebbe di sicuro essere
il leader mondiale nel settore. L’ex Boston e Eden della capitale
sono in mano ai francesi. Le più importanti linee di crociere
sono a capitale e gestione estera; la storia dell’Alitalia
la conosciamo.
Ciò non significa che si devono ostacolare gli investimenti
stranieri in Italia. In un mondo che va sempre più globalizzandosi,
vanno anzi incoraggiati gli investimenti esteri, perché essi
spesso portano nuovi capitali, nuove tecnologie e migliori metodi
gestionali, che alimentano l’efficienza delle imprese a beneficio
dei lavoratori e di tutta l’economia. Ma per ottenere questi
benefici si devono attirare nuovi investimenti, che invece restano
molto bassi, piuttosto che ottenere soltanto acquisizioni e trasferimenti
di quote di proprietà dovuti al fatto che di frequente imprenditori
italiani non riescono a fare il salto di qualità e di visione,
anche per mancanza di finanziamenti. La globalizzazione deve essere
una strada a due sensi di marcia per coglierne i benefici. Gli stranieri
dovrebbero investire in Italia nei settori in cui sono più
efficienti, mentre l’Italia dovrebbe effettuarli all’estero
nei settori nei quali è all’avanguardia (come, per
esempio, ha fatto la Spagna nell’America Latina nel settore
bancario).
A questo punto ci si deve chiedere quali sono i settori in cui il
nostro Paese eccelle o potrebbe eccellere attraverso l’innovazione
di prodotto e di processo. Di sicuro, questi sono la moda e l’abbigliamento,
i mobili e altri oggetti per la casa, l’industria meccanica,
il settore turistico-alberghiero e quello artistico. Nel settore
bancario, l’Italia è riuscita fino a questo momento
a fronteggiare la concorrenza internazionale attraverso fusioni
e ristrutturazioni che hanno aumentato l’efficienza. Solo
attraverso significativi cambiamenti economici e burocratici, la
determinazione di accettare a livello nazionale i sacrifici necessari
e la riscoperta dello spirito di creatività, ingegnosità
e innovazione (che l’Italia ha sempre dimostrato di avere
di fronte a situazioni critiche dal dopoguerra), il trend negativo
può essere invertito e il distacco che il nostro Paese ha
subìto nell’ultimo decennio rispetto alle altre grandi
nazioni europee potrà essere eliminato.
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