Il nostro Paese,
invece di esportare beni e servizi, esporta i suoi
cervelli, quei
giovani che
trovano altrove maggiori
opportunità
di lavoro.
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Se interrogate storici ed economisti, vi proporranno un ampio ventaglio
di spiegazioni sulle debolezze strutturali del Paese, sul tardivo
decollo dell’industrializzazione diffusa, sugli errori di
certe scelte politiche, su vere o presunte arretratezze culturali.
Certamente, non potranno mancare di sottolineare quanto l’ingombrante
presenza dell’impresa di Stato, che aveva ben scarso interesse
a internazionalizzarsi e a cimentarsi con la concorrenza, abbia
schiacciato le possibilità di crescita delle grandi imprese
private, che dovunque nel mondo sono il catalizzatore della ricerca
tecnologica.
Né mancheranno le discussioni su pregi e difetti del nostro
mondo imprenditoriale, dipinto secondo le occasioni – e le
opportunità o gli interessi – come più o meno
capace, più o meno incline ad accettare le regole e le sfide
del libero mercato e della competizione internazionale.
Per quel che mi riguarda, credo che vi sia anche un altro non trascurabile
fattore che abbia fatto la differenza fra noi e gli altri Paesi
industrializzati: è quel ben più debole spirito collettivo
che in Italia rende molto più difficile fare squadra, mettersi
insieme per raggiungere traguardi condivisi di medio, lungo periodo.
Sempre, fuorché nelle emergenze.
Ma è difficile percepire l’innovazione come un’emergenza
collettiva. Non sono mai stati i talenti a mancarci, dunque. A mancarci
sono gli altri pilastri di un sistema realmente orientato a valorizzarli:
l’organizzazione, il metodo, la capacità manageriale.
Tutto ciò, insomma, che rende forte una squadra e le permette
di giocare la partita da pari a pari.

Ma se la squadra non c’è, non si può pensare
di misurarsi su tecnologie sempre più complesse e con investimenti
sempre più rischiosi. Stando così le cose, si capisce
perché la ricerca sia rimasta da noi una Cenerentola. La
risultante di ciò l’abbiamo sotto gli occhi: un Paese
che appare complessivamente debole nell’alta tecnologia e
che cerca di stare a galla impegnandosi allo spasimo nei settori
tradizionali, in una battaglia sempre più dura con i new
comers nella competizione globale.
Un Paese che invece di esportare beni e servizi, tende sempre più
ad esportare i suoi cervelli, quei giovani che trovano altrove maggiori
opportunità di lavoro e maggiori motivazioni. Ciò
che ci domandiamo, allora, è se dobbiamo rassegnarci a questa
situazione, se davvero non vi sia modo di contrastare la deriva
che i dati (e le classifiche) sembrano concordemente indicare: quella
di un’Italia incapace di stare al passo dell’innovazione
e di non scivolare verso posizioni di secondo piano nel contesto
economico mondiale. Cioè verso una crescita più lenta,
più faticosa, più insicura, che non alimentandosi
di produzioni ad alto valore aggiunto rende più precario
il mantenimento di elevati standard di welfare.
Ad essere sincero, soprattutto in economia non credo nella ineluttabilità
del destino. Non ci credo, come ritengo non ci creda nessun imprenditore
degno di questo nome. Non lo dico pensando a ciò che altri
dovrebbero fare: la politica, le organizzazioni sindacali, il mondo
del credito, l’università.
E’ fuor di dubbio, naturalmente, che ogni progresso del contesto
generale del Paese possa dare una mano alle imprese.
Ma per quanto l’innovazione possa – e debba –
essere un obiettivo comune dell’intera collettività,
nessuno può sostituire l’imprenditore in questo compito
e in questa responsabilità. Dico “compito” e
“responsabilità” perché è umano,
parlando di se stessi, mettere l’accento sulla dimensione
etica e sociale del proprio lavoro.
In realtà, per un imprenditore far crescere la propria azienda,
sospingerla a inventarsi ogni giorno qualcosa di nuovo, cercare
di metterla sempre un passo avanti alle altre è una formidabile
spinta interiore che, se coronata dal successo, dà straordinarie
soddisfazioni. La più grande: quella di impegnarsi in un
progetto che possa svilupparsi anche oltre i limiti della propria
vita.
Di fronte a questa aspirazione non c’è ostacolo che
possa apparire insormontabile. Del resto, se l’Italia, nonostante
tutto, continua a progredire, è perché c’è
chi di fronte alle difficoltà non si ferma e si ostina a
pensare che possiamo farcela, che possiamo conquistare traguardi
ambiziosi. Ovviamente, la fiducia in se stessi non basta. Abbiamo
bisogno di poter contare su persone con le quali discutere del futuro,
valutare idee, definire progetti e programmi.
Altro compito che mi spetta: far da ponte tra la creatività
e la competitività dell’azienda, tra l’immaginazione
di un futuro possibile e la sua realizzazione, secondo una logica
di creazione di valore di lungo periodo. E’ per questo che
sia in Pirelli sia in Telecom Italia chi si occupa di ricerca e
di innovazione tecnologica non è relegato in strutture ancillari,
ma fa direttamente capo a me, almeno una volta al mese, si incontra
e fa il punto sull’avanzamento dei progetti.
Con un duplice vantaggio: che, sapendo esattamente dove stiamo andando,
posso meglio calibrare e orientare la marcia dell’azienda;
e che potendo interagire direttamente con me, i ricercatori e i
tecnologi hanno un garante del loro lavoro, soprattutto quando la
scommessa sembra più ardua. E’ con questo modo di procedere
che la Pirelli è tornata su livelli di innovazione di assoluta
eccellenza mondiale; e lo stesso stiamo facendo in Telecom Italia,
trasferendovi la cultura dell’innovazione e della brevettazione.

Con risultati importanti: rispetto agli anni Novanta, quando le
invenzioni brevettate non arrivavano a venti l’anno, dal 2002
è cominciata una continua risalita che ci ha portato a una
novantina di depositi. Quel che però mi interessa sottolineare
è che la cultura del brevetto deve diffondersi e radicarsi
di più in tutto il nostro Paese.
Credo che tutti noi rammentiamo le classifiche che periodicamente
mettono l’Italia in coda quanto a capacità di innovazione.
Queste classifiche non rendono giustizia alla realtà. Per
ragioni di costo delle verifiche preliminari oltre che del deposito,
per la difficoltà di descrivere con la necessaria qualità
ciò che si intende brevettare, ma anche solo per la ritrosia
dei tecnici a valorizzare le loro realizzazioni, le imprese italiane
di minori dimensioni finiscono per non brevettare proprio ciò
che sono più brave a fare: escogitare soluzioni applicando
le nuove tecnologie a sistemi (come le reti), a processi, a prodotti,
a servizi.
Certo, è facile descrivere una nuova tecnologia di base;
molto più difficile descrivere un nuovo modo di produrre,
una nuova metodologia tecnica, o anche caratterizzare un nuovo servizio
in termini tecnici e una rete in quanto adatta a produrre quel servizio.
Per valorizzare l’innovazione invisibile che c’è
in Italia – senza la quale non si spiega la capacità
dell’industria di non affondare – occorre darsi un’organizzazione
e una professionalità specifiche.
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