Marzo 2005

Quello che le statistiche non dicono

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Dove piange il piatto
dell'occupazione
Luca Martinelli  
 
 






Molti giovani
al Sud hanno ormai rinunciato a cercare un lavoro, sono usciti
volontariamente dal circuito
produttivo, se mai vi erano entrati.

 

Gli occupati aumentano, i disoccupati diminuiscono. Il dato in sé è positivo. E tuttavia, se c’è una scuola di pensiero ottimista, che esalta la performance attribuendola all’efficacia delle nuove norme in materia, ce n’è un’altra che diffida, e vuole vederci chiaro, sospettando che qualcosa non torni. In mezzo, c’è l’Istat, con la fredda sequenza dei suoi numeri, secondo i quali nel terzo trimestre del 2004 c’è stata un’inversione di tendenza, protrattasi fino a fine anno, nel settore dell’occupazione, che in Italia ha superato la cifra di 22,5 milioni, con un centinaio di migliaia di occupati in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Si è trattato di posti di lavoro occupati per la maggior parte da uomini.
Quanto ai disoccupati, l’Istituto di statistica ci informa che sono stati un milione e 800 mila. Tasso nazionale pari al 7,4 per cento: un dato che è riscontrabile soltanto nei primi anni Novanta. Infine, i dati di riferimento geografico: al Nord la disoccupazione è pressoché fisiologica, pari cioè al 4,1 per cento; al Centro si è attestata al 6 per cento; ma al Sud è pari a circa il 15 per cento. Siamo informati anche su aspetti complementari: cresce il lavoro autonomo e quello in agricoltura, mentre cede, come accade da un po’ di tempo a questa parte, il settore industriale.
Dati confortanti, si dice; senza tuttavia specificare per chi. Infatti, se complessivamente la crescita è aumentata del 2 per cento, nel Nord ha registrato un 15 per cento, e nel Centro un 12 per cento, mentre nelle regioni meridionali – dove si concentra la maggior quota di disoccupazione italiana – il crollo è stato del 25 per cento. Dunque, nel Sud c’è una gran fetta di popolazione attiva che non va considerata (o non si considera) più “forza lavoro”, ed è uscita dal mercato. Per sfiducia? Per malinconica rinuncia, o per vero e proprio sfinimento, dopo lunga ricerca?
I commenti sono contrastanti. Essendo i più bassi dal 1992, i dati sono ritenuti da alcuni confortanti, indicano che le riforme del mercato del lavoro hanno dato risultati. Il titolare del dicastero dell’Economia è di identico avviso: i dati dimostrerebbero che le riforme strutturali realizzate stanno ottenendo risultati lusinghieri. Quello del Welfare e del Lavoro argomenta questa tesi: negli ultimi tre anni la disoccupazione in Italia è diminuita costantemente, nonostante una situazione economica internazionale molto negativa; l’Esecutivo ha avuto il merito di riformare il mercato del lavoro dando vita a una legge che già da oggi dimostra tutta la sua validità; questa nuova attitudine del mercato del lavoro a recepire i pur timidi segnali dell’economia va ora incoraggiata con la decisa applicazione della Legge Biagi, sebbene molti contratti siano utilizzati per ridurne la portata e alcune Regioni siano intenzionate a varare leggi che intendono in parte contrastarla.

Di tutt’altro avviso chi la vede in modo differente: il tasso di disoccupazione scende perché cala in modo impressionante il numero di chi cerca attivamente il lavoro; questo, al netto dei possibili effetti dei nuovi criteri di rilevazione dell’Istat, segnala un grave scoraggiamento delle fasce più deboli della popolazione, in modo particolare del Sud e sul versante delle donne; se letti bene, i dati sulla forza-lavoro si intrecciano con quelli di una crisi economica industriale che mantiene l’occupazione ripartendola diversamente e pagandola meno, e proiettando comunque sul futuro una sensazione di sfiducia. In altri termini: il calo della disoccupazione non sarebbe di per sé un segnale sufficiente per trarre indicazioni confortanti; e oltre tutto, non sarebbe neanche vero che diminuisce il tasso di disoccupazione, è vero piuttosto che aumenta il tasso di sfiducia soprattutto di donne e di giovani, in particolar modo meridionali, nella possibilità di trovare un lavoro che, dunque, non viene più neanche cercato. Suggella l’Isae, l’Istituto di analisi economica del governo, con un parere tecnico e critico: i dati diffusi dall’Istat disegnano un quadro di frenata di crescita occupazionale.
Breve esplorazione nel corpo vivo della società meridionale, quella più penalizzata nel Paese. Si può cominciare da una Sabrina, baby sitter in casa di cinesi, a Campobasso, i nuovi ricchi dell’area, troppo impegnati a mandare avanti la loro piccola fabbrica di abbigliamento per potersi occupare dei propri bambini. O da Diego, che trascorre le giornate dietro il banchetto (e dentro il monolocale-bottega) di San Gregorio Armeno, a Napoli, a vendere i celebri pupi napoletani per il presepio. O da Mariella, che ha tirato i remi in barca e campa sulle spalle dei nonni leccesi, che hanno una discreta pensione, per i quali cucina, fa le pulizie in casa, e in cambio riceve quanto le basta per vivere. O da Carmelo, laureato in Scienze politiche, decine di concorsi alle spalle, giardiniere per forza di cose... E si potrebbe proseguire all’infinito. Minimo comun denominatore delle loro storie, un profondo scoramento, la rinuncia ormai radicata a trovare un posto di lavoro vero, di quelli che abbasserebbero realmente i livelli indicati dalle cifre dell’Istat, riguardanti l’Italia e il suo Mezzogiorno.

Spiega il professor Domenico De Masi, sociologo del lavoro: il fatto è che quei numeri sono drogati, e dimostrano ancora una volta, se mai ve ne fosse bisogno, l’allargamento della forbice fra le statistiche e la realtà. Per due motivi: primo, il tasso di disoccupazione sembra più basso che nel passato perché, come si fa negli Stati Uniti, nell’elaborazione dei dati si fanno rientrare anche le attività più precarie, infime, di cui i giovani devono accontentarsi; possiamo dire, insomma, che ci stiamo americanizzando anche sotto questo aspetto. E secondo motivo: molti giovani al Sud hanno ormai rinunciato a cercare un lavoro; sono usciti volontariamente dal circuito produttivo, se mai vi erano entrati. Bisogna essere sinceri: come si può credere seriamente che un ventenne pensi al suo futuro in termini positivi se abita in territori spesso lasciati a se stessi, privi di infrastrutture portanti, tiranneggiati dalle mafie, abbandonati dagli investitori, con forza endogena scoraggiata da burocrazie sovrapposte e da fiscalità esose?
Marcella di Foggia un lavoro autentico lo ha cercato a lungo e a lungo lo ha sognato. La sua storia è identica a quella dei giovani che si sono inoltrati e infine persi nella giungla dei contratti interinali, atipici o parasubordinati. Come Giovanni di Matera, ex co.co.co., che per due anni, in realtà, ha svolto lavoro nero senza limiti di orario per un compenso che non superava i seicento euro al mese. O come Luciana di Catanzaro, che non ha un titolo di studio, in un mondo nel quale il titolo di studio è svalutato, ma te lo chiedono anche per fare il netturbino: aveva cominciato nel solito call center, contratto a termine, dieci ore di fatica al giorno, nessuna garanzia sul futuro, niente ferie, niente assistenza sanitaria, insomma lavoro nero, cessato dopo cinque mesi, al termine dei quali l’hanno buttata fuori, e ora spera di sposare qualcuno che un lavoro vero ce l’abbia («l’amore verrà poi»), che le dia un po’ di sicurezza.
De Masi è pessimista: «Ci sarebbero due possibilità per dare un futuro ai giovani meridionali: l’emigrazione e la riduzione dell’orario di lavoro nelle aziende. La prima sarebbe un autentico disastro per lo sviluppo delle regioni meridionali. La seconda è impraticabile per la folle politica delle imprese che, contrariamente a quanto dovrebbero fare, l’orario di lavoro tendono ad allungarlo». Ecco: abbiamo cercato tutto questo, risvolti umani compresi, ed esplorazioni antropologiche incluse, fra le statistiche. Non abbiamo trovato nulla. Non solo fra le statistiche, dove probabilmente dati del genere non rientrano, o è difficile rilevarli; ma soprattutto nei commenti ai dati. Quando si tratta del Sud, si secca l’inchiostro nelle penne dei corsivisti, si inaridisce la vena, per altri versi persino varicosa, dei rubrichisti. Niente di nuovo sotto il sole.

   
   
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